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Migliaia di lavoratori manifestano contro il carovita, scoppia una rivolta duramente repressa nel sangue dal governo Tokayev. Ora è il gigante dell’Asia centrale che rischia di trasformarsi in un nuovo fronte della guerra imperialistica permanente.
L’ordine è ristabilito nella capitale Nur Sultan, ma rimangono ovviamente irrisolti i problemi e le contraddizioni che sono all’origine delle violente proteste che hanno scosso il Kazakistan all’alba del nuovo anno. La violentissima repressione imposta dal presidente Tokayev, con la collaborazione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), la struttura militare di pronto intervento composta da russi, kazaki, armeni, tagiki, bielorussi e kirghizi, ha spezzato in pochi giorni la rivolta ma non ha diradato le nuvole nere che si addensano sul cielo dell’intera area centro-asiatica.
La cosiddetta “transazione ecologica” ha senso per il vigente modo di produzione alla sola condizione che si creino opportunità di profitto, con buona pace dei propositi di facciata a difesa dell’ambiente e ancora meno per la tutela della salute della collettività
Il processo di accumulazione capitalistico ha quale unico scopo spremere la maggiore quantità possibile di plusvalore dai lavoratori. A tal fine l’essere umano, la natura, o qualunque altra cosa sono semplici strumenti subordinati alla logica del massimo profitto, tutto il resto non ha importanza. Pensare che il capitalismo possa invertire la rotta e accogliere gli allarmi che da tutte le parti vengono lanciati sul degrado del pianeta e quindi sui pericoli per la stessa sopravvivenza dell’umanità, è pura illusione. La COP26 (26esima Conferenza delle Parti), meeting annuale sui cambiamenti climatici organizzato dalle Nazioni Unite, svoltosi recentemente a Glasgow, è l’esemplare dimostrazione dell’impotenza dei rappresentanti delle varie borghesia nazionali di poter agire al di sopra delle ferree leggi impersonali del capitale.
Con o senza green pass, ciò che veramente conta per il capitale è spremere profitto da ogni cosa ed essere vivente a esclusivo vantaggio della borghesia.
La pandemia, aggravando ulteriormente la crisi in cui versa già da qualche decennio il modo di produzione capitalistico, ne ha messo a nudo tutte le sue contraddizioni e il suo essere ormai in conflitto inconciliabile non solo con il proletariato e in generale con la stragrande maggioranza della classe lavoratrice, ma con la vita stessa degli uomini e del pianeta. Non c’è ormai un solo istante della vita che non sia sottoposto a quella autentica dittatura che subordina ogni attività umana alla realizzazione del profitto; tutto deve essere profittevole e quando non lo è, è considerato uno scarto al pari di un rifiuto ingombrante. Il virus imperversava e mieteva vittime, come e più che in una guerra, e la parola d’ordine della classe dominante era sminuirne la gravità pur di non interrompere o solo rallentare il processo di estrazione del plusvalore. I governi hanno decretato la sospensione di alcune attività produttive (In Italia, per esempio, non è stata sospesa neppure la produzione delle armi destinate all’esportazione) soltanto quando è divenuto concreto il rischio che la pandemia, dilagando ulteriormente, avrebbe potuto provocare la totale paralisi di ogni attività e quindi anche del processo di accumulazione del capitale (DmD’).[1]
…Che, al di là del pianto greco dei suoi corifei, non è che, poi, dispiaccia più di tanto a sua maestà il capitale.
Nonostante nel corso dell’ultima campagna elettorale per le elezioni amministrative siano scesi in campo tutti i massimi dirigenti dei partiti in lizza, nessuno di essi può dire di averle veramente vinte: su 13 milioni di aventi diritto, un elettore su due non ha votato, ha vinto cioè solo il “partito” dell’astensionismo.
Stando alle analisi dei flussi elettorali, hanno disertato le urne soprattutto gli elettori delle grandi città e in particolare quelli delle loro periferie. “È colpa dei partiti anzi della Politica!”, hanno tuonato all’unisono tutti i mezzi di informazione mainstream. “Essa, chiusa come è nella sua autoreferenzialità, è ormai incapace di cogliere ciò che si agita nel profondo del tessuto sociale e del malessere che lo pervade, soprattutto gli strati sociali più svantaggiati.”
L’America è semplicemente la capofila di un disastro più generale che sta già mettendo radici altrove e che si diffonderà ulteriormente in futuro. (Anne Case e Angus Deaton)
Hanno fatto molto scalpore le ultime previsioni del Fondo Monetario internazionale che danno nel 2021 il Pil statunitense in crescita del 6,5%, superiore anche a quello cinese che si attesterebbe al 6%. Ben ultima, invece, l’Unione Europea con il 3,9%. In considerazione di ciò, non pochi hanno dedotto come imminente il ritorno tout court degli Usa agli antichi fasti: «L’America di Biden –scrive per esempio F. Rampini- è pronta a sottrarre alla Cina il ruolo di locomotiva mondiale trainando anche la crescita degli altri»[1]. Il miracolo avverrebbe grazie ai «ristori dell’ordine di 1,9 trilioni di dollari (9% del Pil) [a cui - n.d.r.] si aggiungeranno gli investimenti pubblici in infrastrutture previsti dall’American Jobs Plan per 2,2 trilioni, da devolvere in otto anni (1,5% del Pil all’anno, in media) alla grave carenza nei trasporti, utilties, scuole, ospedali, ricerca. A fine aprile - ci informa Pier Luigi Ciocca- Biden prospettava un ulteriore piano di sostegni alle famiglie di 1,8 trilioni. Il complesso degli interventi si aggirerebbe nel tempo sui sette trilioni di dollari: una cifra smodata, pari a circa un terzo dell’attuale Pil».[2] E tutto ciò in aggiunta ai «900 mld di dollari (4% del Pil) di spesa pubblica deliberati dall’amministrazione Trump nel 2020 per sostenere l’economia messa in ginocchio dalla pandemia (-3,5% del pil nel 2020).»[3] Cifre davvero importanti, tanto che Biden, presentando la sua prima legge di Bilancio, ha potuto dichiarare: «La ripresa è già cominciata. L’America sta rinascendo. Ricostruiamo la nostra forza a partire dal ceto medio e dalle classi lavoratrici».[4]