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E’ disponibile il numero 17 della nostra rivista DMD’.
La rivista è quasi interamente dedicata all’analisi dello scontro imperialistico in atto tra le grandi potenze, prestando particolare attenzione agli ultimi eventi della politica internazionale.
L’articolo di apertura “Dall’Afghanistan all’Ucraina: la guerra imperialista non si ferma” offre uno sguardo d’insieme sulle vicende internazionali di questi ultimi mesi in cui sono sempre gli Stati Uniti, nonostante il perdurare del loro declino, i protagonisti assoluti dello scontro imperialistico in atto. E seppur lo scontro diretto fra le maggiori potenze imperialistiche per ora sembra escluso, non di meno la pace resterà sempre una chimera finché ci sarà il capitalismo.
Il secondo articolo “Capitalismo contemporaneo e crescente proletarizzazione della società” mette ancora una volta in risalto la validità delle tesi di Karl Marx. Il capitalismo moderno super-tecnologico riscopre le peggiori forme di sfruttamento dei suoi esordi. Gli ideologici della borghesia da una parte vedono con preoccupazione la concentrazione della ricchezza in poche mani, per le possibili conseguenze sul piano sociale; dall’altra devono operare sul piano ideologico imbastendo una enorme campagna di falsificazione utilizzando dati statistici fasulli per negare l’esistenza delle classi sociali. Però i disastri prodotti a tutti i livelli dal vigente sistema proseguono inesorabilmente evidenziandone la decadenza e la necessità del suo superamento
Un nuovo capitolo della guerra imperialista permanente rischia di essere scritto nel cuore dell’Europa. E’ sempre più alta la tensione sul fronte orientale del vecchio continente, Le schermaglie dialettiche della politica stanno pericolosamente lasciando il posto alle armi e alle dimostrazioni di forza da parte dei contendenti imperialisti.
Intorno all’Ucraina si stanno scontrando senza esclusioni di colpo i principali protagonisti dell’imperialismo del XXI secolo. Se a uno sguardo superficiale lo scontro è soprattutto tra gli Stati Uniti e la Russia, a essere pesantemente coinvolta, per gli strettissimi legami economici e politici, è soprattutto l’Unione Europea, con la Cina spettatrice interessata a non vedere interrotto il suo traffico commerciale con l’area più industrializzata al mondo.
E’ in questo contesto di guerra sempre meno fredda che il presidente americano Biden negli ultimi tempi ha pericolosamente alzato i toni accusando pesantemente la Russia di essere sul punto di invadere l’Ucraina e, benché non vi fosse un solo indizio che le cose stessero realmente in questi termini, ha concesso a Kiev un primo aiuto militare di 2,5 miliardi di dollari a cui ha fatto seguito, lo scorso novembre, l’invio di: «Altre 88 tonnellate di munizioni nel quadro di un “pacchetto” da 60 milioni di dollari, comprendente anche missili Javen già schierati contro i russi del Donbass. Allo stesso tempo gli Usa hanno inviato in Ucraina oltre 150 consiglieri militari che, affiancati da quelli di una dozzina di alleati Nato, dirigono di fatto le operazioni»[1]. E contemporaneamente il segretario generale della Nato, il norvegese Stoltenberg, rilasciando una serie di dichiarazioni ha dato per scontato e ormai imminente l’ingresso nella Nato anche di Kiev dopo Estonia, Lettonia, Lituania, Polonia e Romania, andando così a completare l’accerchiamento militare della Russia.
Migliaia di lavoratori manifestano contro il carovita, scoppia una rivolta duramente repressa nel sangue dal governo Tokayev. Ora è il gigante dell’Asia centrale che rischia di trasformarsi in un nuovo fronte della guerra imperialistica permanente.
L’ordine è ristabilito nella capitale Nur Sultan, ma rimangono ovviamente irrisolti i problemi e le contraddizioni che sono all’origine delle violente proteste che hanno scosso il Kazakistan all’alba del nuovo anno. La violentissima repressione imposta dal presidente Tokayev, con la collaborazione dell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva (Csto), la struttura militare di pronto intervento composta da russi, kazaki, armeni, tagiki, bielorussi e kirghizi, ha spezzato in pochi giorni la rivolta ma non ha diradato le nuvole nere che si addensano sul cielo dell’intera area centro-asiatica.
La cosiddetta “transazione ecologica” ha senso per il vigente modo di produzione alla sola condizione che si creino opportunità di profitto, con buona pace dei propositi di facciata a difesa dell’ambiente e ancora meno per la tutela della salute della collettività
Il processo di accumulazione capitalistico ha quale unico scopo spremere la maggiore quantità possibile di plusvalore dai lavoratori. A tal fine l’essere umano, la natura, o qualunque altra cosa sono semplici strumenti subordinati alla logica del massimo profitto, tutto il resto non ha importanza. Pensare che il capitalismo possa invertire la rotta e accogliere gli allarmi che da tutte le parti vengono lanciati sul degrado del pianeta e quindi sui pericoli per la stessa sopravvivenza dell’umanità, è pura illusione. La COP26 (26esima Conferenza delle Parti), meeting annuale sui cambiamenti climatici organizzato dalle Nazioni Unite, svoltosi recentemente a Glasgow, è l’esemplare dimostrazione dell’impotenza dei rappresentanti delle varie borghesia nazionali di poter agire al di sopra delle ferree leggi impersonali del capitale.
Con o senza green pass, ciò che veramente conta per il capitale è spremere profitto da ogni cosa ed essere vivente a esclusivo vantaggio della borghesia.
La pandemia, aggravando ulteriormente la crisi in cui versa già da qualche decennio il modo di produzione capitalistico, ne ha messo a nudo tutte le sue contraddizioni e il suo essere ormai in conflitto inconciliabile non solo con il proletariato e in generale con la stragrande maggioranza della classe lavoratrice, ma con la vita stessa degli uomini e del pianeta. Non c’è ormai un solo istante della vita che non sia sottoposto a quella autentica dittatura che subordina ogni attività umana alla realizzazione del profitto; tutto deve essere profittevole e quando non lo è, è considerato uno scarto al pari di un rifiuto ingombrante. Il virus imperversava e mieteva vittime, come e più che in una guerra, e la parola d’ordine della classe dominante era sminuirne la gravità pur di non interrompere o solo rallentare il processo di estrazione del plusvalore. I governi hanno decretato la sospensione di alcune attività produttive (In Italia, per esempio, non è stata sospesa neppure la produzione delle armi destinate all’esportazione) soltanto quando è divenuto concreto il rischio che la pandemia, dilagando ulteriormente, avrebbe potuto provocare la totale paralisi di ogni attività e quindi anche del processo di accumulazione del capitale (DmD’).[1]