Alcune considerazioni sul salario minimo

Creato: 18 Luglio 2022 Ultima modifica: 18 Luglio 2022
Scritto da A.E Visite: 1146

La direttiva europea sul salario minimo

uomini o topiL’accordo raggiunto in seno al Parlamento Europeo sui “salari minimi adeguati nell'Unione europea”[1] rappresenta, davanti al problema del crollo verticale dei salari, uno dei tentativi della borghesia di garantire almeno il minimo indispensabile per la sopravvivenza dei lavoratori negli Stati europei.

«A differenza di quanto si è spesso sentito ripetere negli ultimi tempi, non si tratterà di un provvedimento che impone necessariamente all’Italia di adottare un valore espresso per ogni ora di lavoro, (ossia un importo predefinito per legge, per esempio: 8 euro all’ora) poiché la direttiva lascia liberi gli Stati che sono privi di un sistema legale che regoli la contrattazione collettiva. (come ad es. i paesi scandinavi) di adottare misure, ancora da definire in dettaglio, semplicemente dirette a promuovere la contrattazione collettiva nazionale»[2].

L’obiettivo principale di questa direttiva è ricercare una maggiore uniformità delle politiche salariali nell’Unione, e garantire almeno livelli minimi di sussistenza ai venditori di forza lavoro.

Il capitale e la determinazione del salario

Nel modo di produzione capitalistico, a causa della sempre maggiore divisione del lavoro, dell’impiego sempre più esteso e significativo dei macchinari, e dell’ampliamento costante della scala in cui vengono sfruttati la divisione del lavoro e il macchinario stesso, dietro la spinta della concorrenza, si osserva che «il modo di produzione, i mezzi di produzione, sono costantemente sconvolti, rivoluzionati, che la divisione del lavoro porta con sé necessariamente una maggiore divisione del lavoro; l’impiego di macchine, un maggior impiego di macchine, il lavoro su vasta scala, un lavoro su scala ancora più vasta»[3].

Questi processi hanno un impatto specifico sulla determinazione del salario. Come scrive Marx:

«La maggiore divisione del lavoro rende capace un operaio di fare il lavoro di cinque, di dieci, di venti; essa aumenta quindi di cinque, di dieci, di venti volte la concorrenza fra gli operai. Gli operai si fanno concorrenza non soltanto vendendosi a più buon mercato l’uno dell’altro; essi si fanno concorrenza in quanto uno fa il lavoro di cinque, di dieci, di venti, e la divisione del lavoro, introdotta dal capitale sempre accresciuta, costringe gli operai a farsi concorrenza in questo modo.

Inoltre, nella stessa misura in cui la divisione del lavoro aumenta, il lavoro si semplifica. L’abilità particolare dell’operaio perde il suo valore. Egli viene trasformato in una forza produttiva semplice, monotona, che non deve più far ricorso a nessuno sforzo fisico e mentale. Il suo lavoro diventa un lavoro accessibile a tutti. Perciò da ogni parte si precipitano su di lui dei concorrenti; e ricordiamo inoltre che quanto più il lavoro è semplice, quanto più facilmente lo si impara, quanto minori costi di produzione occorrono per rendersene padroni, tanto più basso cade il salario, perché, come il prezzo di qualsiasi altra merce, esso è determinato dai costi di produzione»[4].

Con l’attuale sviluppo del sistema delle macchine a un grado semplicemente inimmaginabile in un passato anche recente, molti lavori che, fino a qualche decennio fa, richiedevano lunghi corsi di formazione, oggi possono essere svolti facilmente pressoché da chiunque. L’avvento della microelettronica, infatti, ha stravolto il meccanismo che era presente nei cicli produttivi precedenti, cioè quel processo in cui la base della produzione nel nuovo ciclo di accumulazione tendeva ad allargarsi, così da assorbire la forza-lavoro espulsa dal ciclo precedente[5]. Oggi, al contrario, proprio con le nuove tecnologie sono iniziati a scomparire molti più posti di lavoro rispetto ai nuovi che vengono poi effettivamente creati[6].

Con gli attuali livelli di sviluppo scientifico e tecnologico, i capitalisti non devono più investire – come in epoca fordista – nella formazione dei lavoratori da immettere nelle proprie aziende. I lavoratori sono diventati intercambiabili, proprio perché la maggioranza delle operazioni sono svolte dalle macchine.

«Con il trasferimento al sistema delle macchine di una sempre maggiore quantità di competenze, che prima erano prerogativa del lavoro operaio, è radicalmente mutata l’organizzazione del lavoro in fabbrica e il rapporto di forza tra capitale e lavoro a tutto vantaggio del primo. Inoltre, con il rivoluzionamento del sistema dei trasporti e delle telecomunicazioni è radicalmente mutata anche la divisione internazionale del lavoro. Con i nuovi sistemi di gestione e di controllo dei processi produttivi, infatti, è stato possibile frazionare uno stesso ciclo produttivo in tanti segmenti collocati, anche separati fra loro, ognuno nell’area dove i salari erano più bassi con il risultato non solo di pagare per un medesimo lavoro salari decine di volte inferiori ma anche di ridurre considerevolmente il numero dei lavoratori. […] Le nuove tecnologie, trasferendo al sistema delle macchine gli ultimi saperi e competenze ancora in possesso degli operai, hanno determinato, insieme alla loro totale dequalificazione e alla riduzione dei posti di lavoro, una facilissima intercambiabilità dei lavoratori rendendoli fungibili fra loro così come un qualsiasi oggetto che assolve la medesima funzione e di cui siano disponibili diverse versioni con il risultato, frutto della combinazione di tutti questi diversi fattori, che si è costituito il più grande esercito industriale di riserva di tutta la storia del capitalismo moderno che ha impresso un’ulteriore spinta alla concorrenza fra i lavoratori cosicché la tendenza alla svalutazione dei salari è divenuta un dato strutturale e permanente dell’attuale fase del capitalismo»[7].

Il rifiuto del lavoro su larga scala: un segnale

Con il processo di dequalificazione della forza-lavoro, a cui segue inevitabilmente una diminuzione significativa dei salari, il capitalismo riesce a imporre ritmi di lavori letteralmente estenuanti e quasi sempre per una paga da fame: non a caso in giro per il mondo si sono manifestate alcune forme di rifiuto al lavoro, cui vale la pena in questa sede fare almeno menzione.

Molto significativo è il caso della “Great Resignation” negli Usa. «Le persone che non partecipano più al mercato del lavoro: la forza lavoro rappresenta attualmente il 61% della popolazione civile adulta. Da decenni non era così alto il numero di persone che non lavorano né cercano lavoro. Per descrivere il fenomeno, decisamente anomalo in un periodo di ripresa, è stato coniato il termine Great Resignation: da aprile [2021] si sono dimessi ogni mese 4 milioni circa di lavoratori americani»[8].

In Cina ha fatto scalpore qualche mese fa il fenomeno del Tang Ping. «Un mercato del lavoro competitivo e al tempo stesso precario, un costo della vita sempre in crescita, un peso politico poco rilevante: in Cina i giovani hanno creato una filosofia di vita per dire basta a tutta questa pressione sociale. Si chiama “Tang ping”, che letteralmente significa “sdraiarsi a terra”: Scrive Magnet: una ribellione silenziosa alle interminabili ore in ufficio e alle esigenze di un mondo materialista. Se la società chiede di essere più produttivi per misurare il successo personale e sociale, la risposta non fare nulla. Sdraiarsi a terra. Il trend, come spesso accade per le mode nate nell’ultimo periodo, si è diffuso grazie ai social. Su Tieba, una delle piattaforme più popolari in Cina, qualche settimana fa è apparso questo messaggio: Dal momento che non c’è mai stata una tendenza ideologica che esalti la soggettività umana nel nostro Paese ne creerò una io stesso: Tang ping è il mio movimento razionale»[9].

Il crollo verticale dei salari sembra pertanto persino minacciare, nelle stesse grandi metropoli imperialiste, delle vere e proprie rivolte per il pane, come peraltro già accade in molte aree periferiche. Un rischio di cui crescenti settori della borghesia sembrano essere coscienti.

Ecco quindi che lo Stato, il capitalista collettivo per eccellenza, per evitare che si determini un mercato del lavoro in cui, pur in presenza di un gran numero di disoccupati, scarseggi la manodopera nei settori in cui è richiesta forza-lavoro, interviene con riforme ad hoc: il salario minimo imposto per legge è una di queste. Ma in Europa, dal piano Hartz tedesco al reddito di cittadinanza italiano, è possibile ricostruire un fil rouge di articolati e diversificati interventi borghesi in questa direzione.

L’Europa sembra difatti essere un laboratorio a cielo aperto, in cui si sperimentano soluzioni diversificate: riforme del lavoro pensate per garantire una relativa pace sociale, per sostenere la produzione capitalistica e promuovere il consumo; l’imposizione per legge (o con altre vie) di un salario orario minimo, che assicuri il “minimo vitale”[10]; interventi come il reddito di cittadinanza e il sistema dei minijob tedeschi, per garantire la sopravvivenza di un imponente “esercito industriale di riserva”, da cui poi la borghesia possa attingere la manodopera di cui necessita, per il tempo strettamente necessario e per un salario pari a – o che superi di poco –  il sussidio dello Stato. Ed è in questo contesto che rientra anche quest’ultima direttiva europea.  

Conclusioni

«Nella misura in cui il capitale si accumula, la situazione dell'operaio, qualunque sia la sua retribuzione, alta o bassa, deve peggiorare»[11].

Se è questo il quadro entro cui si inserisce la direttiva sul salario minimo, un tetto minimo salariale può contribuire a dare dignità ai lavoratori, a rendere la vita di milioni di proletari migliore o quantomeno accettabile?

Non sarà una legge – e non conosciamo ancora in che modalità e con quali condizioni verrà ratificata nei singoli Paesi – a garantire una vita dignitosa ai lavoratori europei; qualunque riforma la borghesia penserà di adottare dovrà sempre fare i conti con la realtà dei fatti: o si toglie al Capitale o si toglie alla forza-lavoro, non ci sono vie alternative.

Proprio in virtù della mancanza di una terza via, il costo di queste riforme è in ultima analisi pagato dal proletariato. Da una parte perché viene scaricato sulla fiscalità generale, intaccando il salario indiretto dei lavoratori, dall’altra perché sul piano complessivo tende a implicare l’intensificazione dello sfruttamento.

Scriveva Marx in Salario prezzo e profitto: «Invece della parola d'ordine conservatrice: “Un equo salario per un'equa giornata di lavoro”, gli operai devono scrivere sulla loro bandiera il motto rivoluzionario: “Soppressione del sistema del lavoro salariato”»[12]. Oggi più che mai la soppressione del sistema salariato è l’unica prospettiva per realizzare una società veramente umana.

[1]  https://eur-lex.europa.eu/legal-content/IT/TXT/PDF/?uri=CELEX:52020PC0682

[2]  Vincenzo Ferrante, L’Europa e il salario minimo: l’Italia è (quasi) pronta, IPSOA, 13(06/2022.

[3] Karl Marx, Lavoro salariato e Capitale, marxists.org.

[4] Ibidem.

[5] Cfr., tra gli altri, Giorgio Paolucci, Capitale senza lavoro, in Prometeo, 8 (1984).

[6] Il grande disaccoppiamento. La produzione è in crescita, ma i lavoratori non partecipano al banchetto, in Harvard Business Review, Giugno 2015.

[7] Umberto Paolucci, La disoccupazione crescente: un problema senza soluzione, in DMD’, 7 (2013).

[8]  Luca Celada, Capitalismo in tilt nei porti della California, in il Manifesto, 22/10/2021.

[9]"Tang ping", la filosofia apatica dei giovani cinesi stufi del lavoro e della pressione sociale, in Huffington Post, 08/06/2021.

[10]Cfr. Karl Marx, Manoscritto sul Salario, marxists.org.

[11]Karl Marx, Il Capitale, Utet, Milano 2017, pag. 795.

[12] Karl Marx, Salario, prezzo e profitto, marxists.org.