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L’America è semplicemente la capofila di un disastro più generale che sta già mettendo radici altrove e che si diffonderà ulteriormente in futuro. (Anne Case e Angus Deaton)
Hanno fatto molto scalpore le ultime previsioni del Fondo Monetario internazionale che danno nel 2021 il Pil statunitense in crescita del 6,5%, superiore anche a quello cinese che si attesterebbe al 6%. Ben ultima, invece, l’Unione Europea con il 3,9%. In considerazione di ciò, non pochi hanno dedotto come imminente il ritorno tout court degli Usa agli antichi fasti: «L’America di Biden –scrive per esempio F. Rampini- è pronta a sottrarre alla Cina il ruolo di locomotiva mondiale trainando anche la crescita degli altri»[1]. Il miracolo avverrebbe grazie ai «ristori dell’ordine di 1,9 trilioni di dollari (9% del Pil) [a cui - n.d.r.] si aggiungeranno gli investimenti pubblici in infrastrutture previsti dall’American Jobs Plan per 2,2 trilioni, da devolvere in otto anni (1,5% del Pil all’anno, in media) alla grave carenza nei trasporti, utilties, scuole, ospedali, ricerca. A fine aprile - ci informa Pier Luigi Ciocca- Biden prospettava un ulteriore piano di sostegni alle famiglie di 1,8 trilioni. Il complesso degli interventi si aggirerebbe nel tempo sui sette trilioni di dollari: una cifra smodata, pari a circa un terzo dell’attuale Pil».[2] E tutto ciò in aggiunta ai «900 mld di dollari (4% del Pil) di spesa pubblica deliberati dall’amministrazione Trump nel 2020 per sostenere l’economia messa in ginocchio dalla pandemia (-3,5% del pil nel 2020).»[3] Cifre davvero importanti, tanto che Biden, presentando la sua prima legge di Bilancio, ha potuto dichiarare: «La ripresa è già cominciata. L’America sta rinascendo. Ricostruiamo la nostra forza a partire dal ceto medio e dalle classi lavoratrici».[4]
È: «Il ritorno -continua Rampini- in forze dello Stato nell’economia che riscopre i modelli di Franklin Roosevelt, John Kennedy e Lyndon Johnson, ma prende anche qualche suggerimento dalle ricette economiche usate in Cina nella crisi precedente…Per avere un’idea della dimensione di spesa, il dato significativo è che al termine del decennio il rapporto fra debito e Pil negli Stati Uniti salirebbe dal 100% attuale (già un record) al 117% nel 2031»[5].
Biden come Roosevelt? L’America del 2021 come quella di Kennedy e Johnson, come non rilevare che, attenendosi a questa lettura, resterebbe del tutto inspiegabile la ragione per cui ciò che non ha finora dato i frutti sperati dovrebbe darli d’ora innanzi. Solo negli ultimi dieci anni la Federal Reserve, come peraltro tutte le maggiori banche centrali, ha incrementato la produzione di liquidità del 10 per cento all’anno, ma a trarne vantaggio è stato soltanto Wall street e quel famoso 1 per cento che continua ad accumulare ricchezze stratosferiche mentre il “ceto medio e le classi lavoratrici”, a cui Biden ora liscia il pelo, hanno continuato a sprofondare nella miseria più nera.
Con troppa disinvoltura si dimentica che è già dalla seconda metà degli anni ’70 del secolo scorso che l’America – come in più occasioni abbiamo avuto modo di argomentare- ha cessato di essere la maggiore potenza industriale del mondo per farsi, imponendo il dollaro come mezzo di pagamento universale, Banca centrale mondiale per l’appropriazione parassitaria di quote crescenti del plusvalore estorto su scala mondiale [6]. E così la fabbrica della finanza ha sostituito quella dell’industria.
Le bandiere americane made in China
Ne è derivata un’altra America: altra non solo rispetto a quella di Roosevelt ma anche di Kennedy e Johnson.
Già nel 2010, la giornalista italo-americana Sara Bongiorni, colpita dal gran numero di prodotti made in China con lo scopo di valutare fino a che punto le merci cinesi fossero penetrate nella quotidianità della vita degli americani, pensò di dividerle in due categorie: «Cina e non Cina. Il risultato fu: Cina, 25 - resto del mondo 14… [Volle così – n.d.r.] fare piazza pulita della Cina».[7] Ma dopo circa un anno dovette constatare che senza made in China era impossibile vivere: «senza regredire - come a suo tempo ebbe a scrivere lo stesso Rampini- «all’esistenza arcaica di Robinson Crusoue».
Nell’America di oggi il settore dei servizi ha superato a tal punto quello industriale che il solo settore cura del corpo «pesa più del doppio del settore della produzione manifatturiera».[8]
Perfino nella componentistica elettronica, in cui pure gli Usa vantano centri di ricerca e progettazione d’avanguardia, delle: «21 grandi aziende che si occupano di microprocessori …12… [sono] negli States, 4 in Europa e 5 in Asia [ma solo- n.d.r.] ... tra queste ultime rintracciamo le uniche tre che non si limitano a progettare chip, ma li producono realmente anche in scala globale. In rigoroso ordine di grandezza, la taiwanese Tsmc, la coreana Samsung e la cinese Smic».[9]
La stessa cosa vale per i PC, per gli smartphone, per le palline degli alberi di Natale, per le scarpe, i cappellini da baseball e perfino le bandiere a stelle e
strisce: «In un anno normale – ci racconta il corrispondente dalla Cina del New Yorker, Peter Hassler- il 70 per cento del fatturato della Kimzon (una delle maggiori fabbriche di scarpe sportive del mondo- n.d.r.) viene dagli Stati Uniti… A Yiwu, sede del più grande mercato all’ingrosso della Cina, al secondo piano, gli esportatori si stavano preparando per le elezioni negli Stati Uniti. Gli stand dei cappellini da baseball erano pieni di berretti con la scritta “Make America great again” …Mi sono fermato a parlare con un grossista di mezza età, Li Jiang…Il giorno in cui ci siamo incontrati aveva venduto diverse migliaia di bandiere di Trump. Dopo Yiwu, mi sono fermato in una grande fabbrica di bandiere che si chiama Johnin, nella città di Shaoxing. Il giovane manager, Jin Gang, mi ha fatto fare un giro. All’interno decine di donne cucivano bandiere con le scritte “North Dakota for Trump”, “Keep America great”, “Trump 2020” e “Trump 2024” “Ce le hanno ordinate”, mi ha detto Jin, quando gli ho chiesto degli striscioni del 2024. “Sono convinti che sarà di nuovo presidente”. Durante la campagna per le presidenziali del 2016 la Johnin ha venduto tra i due e i tre milioni di bandiere di Trump, più o meno a un dollaro l’una. Ora, a meno di quattro mesi dalle elezioni (del 2020 n.d.r.), i prodotti a marchio Trump rappresentavano circa il 70 per cento del fatturato dell’azienda».[10] Trump le avrebbe pagate il 15% per cento in meno senza i dazi che egli stesso ha imposto sulle importazioni cinesi. Quando si dice: la nemesi! Ma al di là di ogni facile ironia, l’America di oggi è esattamente questa: un gigante dai piedi di argilla strutturalmente dipendente dalle importazioni e dal debito necessario per finanziarle. Così, mentre un’élite prevalentemente finanziaria, a dimensione transnazionale, accumula e accentra in sé ricchezze stratosferiche, la gran parte della classe lavoratrice, i famosi blue collar (colletti blu) e più in generale la cosiddetta middle class, a causa della delocalizzazione industriale e della crescente automazione dei processi produttivi e gestionali, sprofonda ogni giorno di più nella povertà e nell’emarginazione sociale a tal punto che nel paese più ricco del mondo - meglio sarebbe dire: con più ricchi al mondo - si muore più che in qualsiasi altro paese a esso comparabile.
Morti per disperazione
Da uno studio degli economisti Anne Case e Angus Deaton apprendiamo che: «In quasi tutti i paesi ricchi i tassi di mortalità per le persone di età compresa fra i 45 e i 54 anni sono diminuiti a un tasso medio del 2% l’anno dalla fine degli anni ’70 al 2000… La mortalità nella mezza età ha continuato a diminuire in Francia, Gran Bretagna e Svezia; altri paesi ricchi…evidenziano progressi simili. Un andamento completamente diverso si è avuto per gli americani bianchi non ispanici. Non solo essi non hanno tenuto il passo con il declino della mortalità di altri paesi, ma nel loro caso la mortalità ha smesso del tutto di ridursi e ha iniziato invece a salire».[11]
E nel cercare le cause di questa frattura non hanno potuto non constatare che oggi: “Gli Stati Uniti si differenziano dagli altri paesi ricchi anche per il fatto di avere milioni di abitanti estremamente poveri, che probabilmente vivono in condizioni difficili quanto i poveri dell’Africa e dell’Asia». [12]
Ora, che negli Usa ci fossero sacche di povertà da terzo mondo non è una novità, ma il fenomeno aveva sempre riguardato soprattutto la popolazione afroamericana dei grandi centri urbani e alcuni stati del sud a vocazione prevalentemente agricola come il Mississippi. Oggi, invece, è diffusa a scala federale, ha valicato il confine razziale e riguarda anche i lavoratori bianchi, in particolare non laureati: «Ciò che è accaduto agli afroamericani dei centri urbani dopo la metà del secolo scorso è stata…un’anticipazione di quanto pensiamo stia succedendo ai bianchi nel XXI secolo… Con la globalizzazione, i cambiamenti tecnologici, l’aumento dei costi sanitari dei lavoratori dipendenti e il passaggio dalle attività industriali ai servizi, le aziende tagliano i costi sbarazzandosi della manodopera meno istruita, un tempo i neri e oggi i bianchi meno istruiti»[13]. Con il risultato che: «Per gli uomini i salari mediani negli Stati Uniti sono rimasti invariati per cinquant’anni e per i bianchi senza laurea si è verificata piuttosto una diminuzione media dei salari mediani tra il 1979 e il 2017, dello 0,2% annuo…Un colpo ai salari è stato inferto anche in Europa dalla Grande Recessione (quella del 2007-2008 n.d.r.) e dai suoi strascichi. Molti paesi hanno sofferto più degli Stati Uniti…ma in nessuno di questi paesi si è prodotta la prolungata stagnazione salariale che i lavoratori hanno subito negli Stati Uniti».[14]
Un autentico disastro occultato, però, dai dati ufficiali relativi all’andamento dell’occupazione che la danno sempre a livelli molto bassi, sicuramente molto più bassi di quelli europei. I dati americani, però, non dicono che generalmente i nuovi posti di lavoro, essendo meno qualificati, sono di gran lunga peggiori e meno retribuiti di quelli che sostituiscono e che «… Quando ci si dà per vinti e si smette di cercare un lavoro non si viene più considerati disoccupati».[15] Non solo disoccupati ma neppure facenti parte della popolazione attiva: si svanisce nel nulla. É stato calcolato che se si tenesse conto anche di costoro e della popolazione carceraria in età lavorativa, il tasso si aggirerebbe intorno al 20%.
Si perde il lavoro o diminuisce il salario si perde la casa e la copertura sanitaria e così se un tempo, per esempio, gli operai della General Motors - allora denominata, per via dei suoi alti salari, Generous Motors (Generosa Motors): «…Seguivano le orme dei loro padri, e talvolta addirittura dei loro nonni, in lavori sindacalizzati, ben remunerati …e guadagnavano abbastanza da poter condurre una vita da ceto medio, diventando proprietari di una casa, mandando i loro figli in buone scuole e andando regolarmente in vacanza. Aristocrazia operaia venivano suggestivamente definiti»;[16] oggi al posto della General Motors c’è solo un mucchio di ferraglia arrugginita quasi a voler simbolizzare un tempo che si è irrimediabilmente fermato e la completa disgregazione della stessa classe lavoratrice bianca.
Non occorre essere grandi esperti di psicologia sociale per capire quanto il venir meno di tutto ciò, peraltro in un paese in cui, la povertà è considerata una colpa, possa risultare, forse ancora prima che economicamente, moralmente devastante e indurre perfino al suicidio: «Non c’è parte del paese – scrivono ancora Case e Deaton- che non sia stata toccata dai suicidi; due terzi degli stati hanno visto un incremento dei tassi di suicidio dei bianchi [non laureati – n.d.r.] di mezza età di almeno il 50% tra il 2000 e il 2017. [Inoltre – n.d.r.] …Esiste una correlazione positiva tra mortalità per epatopatie alcoliche e povertà degli Stati…Nel 2017, 158.000 americani sono morti di quelle che chiamiamo morti per disperazione: suicidio, overdose, epatopatie alcoliche e cirrosi. L’equivalente di tre aerei 737 Max, pieni, che precipitano ogni giorno, senza sopravvissuti».[17]
Si, si muore per disperazione e solo per garantire a una ristretta élite l’unico valore che ritiene degno di essere perseguito: arricchirsi spudoratamente. Basti pensare a quanto di criminale c’è nei profitti stratosferici realizzati dalle case farmaceutiche. Spacciando come comuni antidolorifici oppiacei di sintesi, hanno letteralmente distrutto la vita di milioni di americani che, senza volerlo, ne sono diventati dipendenti. «Gli Oppioidi legali hanno fatto guadagnare enormi somme di denaro ai produttori. Secondo vari rapporti, incluso il lavoro di indagine del “Los Angeles Times”, Purdue Pharmaceutical… ha venduto OxyContin per un valore compreso tra 30 e 50 miliardi di dollari. Documenti giudiziari recentemente resi di pubblico dominio mostrano che i proprietari hanno guadagnato tra 12 e 13 miliardi di dollari. Hanno prosperato anche gli spacciatori illegali, molti di questi provenienti dal Messico, ma i produttori legali hanno il vantaggio che l’arresto e la violenza non figurano tra gli ordinari rischi commerciali».[18]
Ma a parte gli oppioidi, è tutto il sistema sanitario americano che è finalizzato più alla massimizzazione dei profitti dell’industria farmaceutica e delle società assicuratrici, che a garantire il più elementare diritto alla salute dei cittadini e quel che è peggio, contribuisce al deterioramento e all’impoverimento anche di buona parte del ceto medio. Infatti, il costo delle polizze assicurative è così alto che ben il: «60% dei non assicurati è al di sopra della soglia di povertà – la soglia al di sotto della quale si ha diritto all’assistenza sanitaria pubblica (Medicaid) n.d.r.- ma con un reddito inferiore a quattro volte questa soglia».[19]
E senza copertura assicurativa l’accesso alle cure è diventato un lusso che solo pochi possono permettersi. Negli Stati Uniti, infatti: «I prodotti farmaceutici sono circa tre volte più costosi. Il farmaco anticolesterolo Crestor costa 86 dollari al mese (scontato) contro 41 dollari in Germania e appena 9 dollari in Australia. L’Humira, un farmaco per l’artrite reumatoide, costa 2.505 dollari al mese negli Stati Uniti, 1749 in Germania e 1.243 in Australia…Una protesi d’anca più di 40.000 dollari negli Usa contro 11.000 in Francia… Una risonanza magnetica 1.100 dollari e circa 300 in Gran Bretagna»[20]. E ovviamente ne soffre anche il bilancio Federale a cui fa capo la sanità pubblica riservata ai cittadini con un reddito inferiore alla soglia di povertà (Medicaid) e a coloro che hanno superato i 65 anni di età (Medicare). La spesa sanitaria, infatti, vi incide per ben Il 18%, quattro volte più di quanto lo Stato spende per la difesa e il triplo per l’Istruzione. Nondimeno ben 28 milioni e 566 mila americani (circa l’8,9% della popolazione)[21] sono privi di qualunque assistenza sanitaria. Il risultato è che, per esempio. in Svizzera, che ha la spesa sanitaria più alta d’Europa ma comunque inferiore di ben il 30% di quella statunitense, la vita media è di 5,1 anni più lunga che in America.
La povertà, la malattia, ivi compresa la dipendenza più o meno volontaria da oppiacei e da alcol, e la roulotte sono ormai così diffuse nella quotidianità statunitense da costituire un motivo ricorrente anche in molta della più recente narrativa e cinematografia americane.
Che si tratti della vita dei contadini poveri del Kansas descritta da Sarah Smarsh nel suo Heartland[22]; dei passeggeri del tassista di Lee Durkee nel suo Last taxi driver[23]o del film Nomadland della regista Chloé Zhao, si narra sempre la vita agra e di stenti di lavoratori oberati dai debiti, che – come racconta Sarah Smarsh - vivono da «tre generazioni» spostandosi continuamente da un posto all’altro per mettere insieme almeno un pasto al giorno, in povere e sgangherate roulotte. Ed essendo la loro unica casa, rischiano anche di morirci perché se si ammalano gli ospedali «pazienti del genere…li dimettono mica perché sono guariti; li dimettono perché non c’è nessuno che paghi il conto» come testimonia il tassista Lou Bischoff, alias Lee Durkee.
I ricchi non pagano le imposte
A fronte di una realtà così drammaticamente frantumata e a rischio di implosione, lascia esterrefatti il coro degli atlantisti nostrani che salutano il fiume di dollari con cui la Federal Reserve si accinge a inondare i mercati finanziari mondiali come la ricetta miracolosa che salverà l’America e, al suo traino, l’economia mondiale. Per cecità, quando non per puro servilismo, tracima euforia da tutti i pori per questo ritorno dello zio Tom alla guida del mondo dopo la disastrosa parentesi di Trump; eppure basterebbe spostare lo sguardo dai grattacieli scintillanti di New York alle periferie urbane del Middle West per accorgersi che dietro questo fiume di denaro (fittizio) si nasconde il tentativo di ricucire il tessuto sociale di un paese che rischia di implodere visto che ormai sono davvero tanti coloro per i quali «Il capitalismo ha cominciato ad apparire più come un racket di redistribuzione dei profitti verso l’alto che come un motore della prosperità generale»[24]. La qualcosa detta da due economisti che precisano: «Non siamo anticapitalisti. Crediamo nel potere della libera concorrenza e del mercato»,[25] dovrebbe suggerire una certa prudenza nel ritenere che basti stampare dollari perché automaticamente la carta si trasformi in oro e la ricchezza reale inizi a piovere dal cielo come la manna di biblica memoria.
Con troppa facilità si dimentica che quel fiume di dollari con cui la Federal Reserve si accinge a inondare i mercati mondiali, altro non è che debito e che in un modo o nell’altro, prima o poi qualcuno dovrà pagarlo.
Secondo quanto afferma l’amministrazione Biden, basterà elevare l’imposta sugli utili societari dall’attuale 21% al 28% e introdurre una global minimum tax di circa il 21% per costringere le grandi corporation americane a pagare le imposte in patria. Ma si tratta solo di propaganda di pura marca elettorale. Biden, infatti, non può non sapere come funziona realmente il sistema delle imposte americano che, ispirato al principio che, se i ricchi diventano più ricchi, tanto più la ricchezza “sgocciola” nel tessuto sociale fino a raggiungere anche gli strati più poveri della società, di fatto, li esenta dal pagamento delle imposte. Durante l’amministrazione Obama, di cui egli era vicepresidente, l’aliquota sugli utili, era al 36%; eppure come recentemente ha reso noto la testata americana on line ProPubblica, ripresa in Italia dal Manifesto: «Nel 2011 l'uomo più ricco del mondo non ha pagato un dollaro di tasse federali: con una fortuna di 18 miliardi, Jeff Bezos ha chiesto un credito di 4.000 dollari per i figli. L'ha ottenuto. Nel 2018 il secondo uomo più ricco del mondo, Elon Must, non ha pagato alcuna tassa federale. Dal 2014 al 2018 il decano mondiale dei finanzieri, Warren Buffett, ha pagato in tasse federali lo 0,98% dei 24 miliardi che ha accumulato»[26]. E nessuno di loro è finito sotto processo o in galera come accadde al loro antesignano, Al Capone.
Biden come Trump
In ogni caso, le dimensioni del debito statunitense sono ormai tali che, anche se questi signori pagassero le imposte dovute e l’aliquota fosse il triplo di quella attuale, esso non sarebbe sostenibile se una buona parte non circolasse, in quanto denaro mondiale, all’estero e che quindi si configurasse, di fatto, come un debito “senza scadenza” a carico di tutti i paesi esteri che impiegano il dollaro per regolare le loro transazioni internazionali sia economiche(acquisto e o vendita di materie prime quotate in dollari) che finanziarie (crediti concessi dal FMI, la Banca mondiale, grandi banche e/o Istituzioni finanziarie ).[27] Ecco, quindi, la ragione per cui, pur nella diversità degli approcci diplomatici, la politica estera di Biden non può discostarsi granché da quella del suo predecessore. Per entrambi è stato, ed è, di importanza vitale che a farsi carico del debito americano direttamente o indirettamente sia il resto del mondo con in testa gli “alleati” e non è un caso che entrambi, seppure con formule diverse, rivendichino il “diritto” degli Usa a comandare il mondo: «Che si tratti di porre fine alla pandemia di Covid – 19 ovunque, di soddisfare le esigenze di un’accelerazione della crisi climatica o di affrontare le attività dannose dei governi di Cina e Russia, gli Stati Uniti devono guidare il mondo da una posizione di forza». Queste le parole di Biden prima di recarsi in Cornovaglia per partecipare all’ultimo G/7, agli incontri della Nato a Bruxelles e di incontrare Erdogan a Istambul e il “killer” Putin a Ginevra.[28]
Viene in mente l’epigramma che P. Paolo Pasolini dedicò al critico cinematografico Gianluigi Rondi: «Sei così ipocrita che quando l’ipocrisia ti avrà ucciso sarai all’inferno e crederai di essere in paradiso». Ci vuole una bella faccia tosta nell’accusare gli altri - in questo caso Cina e Russia – di attività dannose, quando tu, è da decenni che appoggi le più spietate dittature e vai seminando guerre e morti civili in ogni angolo del pianeta, pur di difendere gli interessi della élite al vertice del tuo impero. Ma questo non si può dire e allora ecco inventarsi una contropartita del tutto fittizia: “tu paghi il mio debito e io ti proteggo dai nemici” Che non possono essere ovviamente che la Cina e la Russia. La prima per essere ormai la maggiore potenza industriale del mondo e la seconda per essere comunque ancora una potenza militare di tutto rispetto.
Non hanno truppe schierate in ogni angolo del pianeta ma violano i diritti umani, sono nemici della democrazia e minano le fondamenta stesse dei sacri valori dell’Occidente. Ma soprattutto, precisa uno dei più influenti opinion maker borghesi l’italiano Ernesto Galli della Loggia: «Nella concezione dei dirigenti cinesi, il capitalismo è, e deve restare, solo una struttura produttiva, di fatto riducibile alla semplice proprietà privata dei mezzi di produzione e alla libera formazione dei prezzi sul mercato… Al dunque il capitalismo per Pechino è una sorta di prigione con dentro delle macchine. Non già invece, come un certo Carlo Marx (sic! n.d.r.) sosteneva a suo tempo, una formazione storico-sociale complessa che è fondata su un principio di libertà, sia pure inizialmente «astratta e formale» quanto si vuole, che però ha finito per improntare di sé tutte le relazioni tra gli uomini, dando vita a infinite contraddizioni destinate tuttavia a rivelarsi un formidabile motore di progresso storico».[29] Ovviamente resta un mistero la ragione per cui il “capitalismo cinese” che pure si fonda “sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e la libera formazione dei prezzi” sarebbe solo “una struttura produttiva…una sorta di prigione con dentro delle macchine” e quello “occidentale” che pure – come si evince dalla lettura di un qualsiasi manuale di economia politica -si fonda sulla proprietà privata dei mezzi di produzione e la libera concorrenza, sarebbe invece “una formazione storico-sociale complessa fondata su un principio di libertà”. Per quanto riguarda poi “la prigione con delle macchine” è evidente che il nostro ideologo non ha mai messo piede in una fabbrica e neppure – giusto per richiamare i tempi moderni di Chaplin, in un sito dell’odierna logistica. Ah, quanto si dice l’onestà intellettuale e la coerenza! Ma è storia vecchia: quando il Re chiama c’è sempre qualcuno più realista di lui che imbraccia il megafono per amplificarne la voce e stordire i sudditi.
E così eccoci alla seconda “guerra fredda”. Ora non più “capitalismo e libertà” contro “comunismo e dittatura” ma: capitalismo buono contro capitalismo cattivo, quasi come il colesterolo con una spruzzatina di diritti umani minacciati dal colesterolo cattivo e dunque: o di qua o di là. L’Italia e l’Europa, ovviamente di qua con gli Usa.
Ora, a parte il fatto che in quanto a libertà e rispetto dei diritti umani non è che di qua sia tutto oro quel che luce. Per le strade americane se sei nero rischi di buscarti una pallottola solo perché respiri. Ed è sempre in America che per milioni di neri e di bianchi poveri il diritto di voto è di fatto inesistente, tanti sono gli ostacoli escogitati per impedire loro di recarsi alle urne. E che dire del diritto alla salute negato a milioni di americani perché funzionale agli interessi delle assicurazioni e dell’industria farmaceutica? Vuoi veder che il diritto alla salute in Cina e in Russia è parte integrante dei diritti umani, mentre in America è un peccato mortale? E Guantanamo? Se poi si guarda ai suoi alleati è come vedere un film horror: Israele che tratta otto milioni di palestinesi come la Cina gli Uiguri. E se Putin non usa con i suoi oppositori i guanti di velluto, ecco di qua il principe saudita Mohammed bin Salaman, che gli oppositori, come il giornalista Jamal Khashoggi- semplicemente li fa ammazzare servendosi di killer, peraltro, addestrati proprio negli Usa[30]. In realtà, la libertà (che non sia quella della classe dominante di sfruttare a proprio piacimento i proletari) e i diritti umani, stanno a cuore a Biden né più né meno di quanto non lo stiano a Xi Jinping o Putin, ossia: per nulla. L’unica vera posta in palio è l’appropriazione di quote il più grandi possibile del plusvalore estorto al proletariato mondiale. Da un punto di vista di classe sono tutti parimenti criminali sociali.
“Segui il denaro e troverai il colpevole!”
In questo caso, seguire il fiume di dollari che l’amministrazione Biden ha stanziato nel tentativo di tamponare le numerose fratture interne che mettono a rischio la tenuta dello stesso Stato federale. Poiché si tratta di ulteriore debito, per essere sostenibile è necessario che si ampli il più possibile la platea dei sottoscrittori esteri.
Come ottenere ciò? Innanzitutto, esercitando la massima pressione affinché cessi la fuga in atto già da diversi anni dall’impiego del dollaro come mezzo di pagamento e di riserva internazionale, come fanno già Russia, Cina e Iran. E come prevedono anche il Comprehensive Agreement on investment (Cai) - l’accordo raggiunto fra Cina e Ue lo scorso gennaio e ora in via di perfezionamento- e il Regionale Comprehensive Economic Partnerships (RCEP) sottoscritto lo scorso anno fra la stessa Cina con Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda.
Evitare che questi accordi si concretizzino in un’ulteriore riduzione dell’impiego del dollaro come denaro mondiale è dunque per gli Usa una questione di vitale importanza. Da qui la necessità di fare della Cina e della Russia il nuovo male assoluto con lo scopo di ricondurre all’ovile tutti gli “alleati” di un tempo.
Così mentre ritirano le loro truppe dall’Afghanistan, consegnando di fatto il paese proprio a quei talebani che solo fino a ieri erano Satana in persona, agitando lo spauracchio russo-cinese, nel contempo premono affinchè gli “alleati” incrementino la loro spesa militare versando annualmente nelle casse della Nato il 2% del loro pil. Alla Nato perché, come scrive sul Corriere della Sera l’ex ambasciatore Sergio Romano, consente loro: «di avere un posto a tavola anche quando si tratta di affari europei» e- aggiungiamo noi – ora anche senza pagare il conto. Per aver un’idea dell’entità dell’esborso richiesto, prendendo come parametro di riferimento il pil del 2020, pari a circa 1.450 mld di euro, l’Italia dovrebbe versare qualcosa come 29 miliardi di euro che diventerebbero più di trenta nel 2021 quando si prevede che il pil crescerà di almeno quattro punti percentuali. Trenta e passa miliardi all’anno da regalare al Pentagono e all’industria militare statunitensi sottraendoli evidentemente alla spesa pubblica e in particolare a quella socio-sanitaria visto che il debito pubblico italiano, per i provvedimenti in deficit presi per fronteggiare la crisi pandemica, è destinato a superare il 160% del pil. Si dovrebbero tagliare, pensioni, stipendi e spesa sanitaria per acquistare armi destinate a contrastare un nemico immaginario almeno quanto quello del romanzo Il Deserto dei Tartari di Dino Buzzati; in realtà per consentire il dispiegamento a spese altrui dell’esercito statunitense in quegli angoli del pianeta che gli strateghi del pentagono ritengono di interesse vitale per il loro paese. Ora: servi sì ma fino all’autolesionismo ci pare un po’ troppo. Non si comprende infatti quale possa essere, per esempio, l’interesse della Russia ad aggredire l’Europa o viceversa. «Con i russi – osserva Massimo Fini sul Fatto quotidiano -non abbiamo materia di contendere, ci sono utili ai fini energetici, ci sono più vicini geograficamente e culturalmente perché Dostoevskij, Tolstoj, Gogol e gli altri appartengono all’Europa… [né]… si vede in nome di che cosa noi dovremmo rinunciare a un mercato enorme, in ascesa e molto promettente come quello cinese». E soprattutto -aggiungiamo noi- perché farsi carico del debito altrui quando in seguito alla pandemia non sai neppure se riuscirai a far fronte al tuo? Questo vale per l’Italia, per l’intera Ue ma anche per il Giappone e gli altri paesi del RCEP, l’Iran o l’India. Sarà la preoccupazione per la situazione interna o soltanto perché accecati da quella hybris che fa sentire i potenti al pari degli dèi, la sensazione è come se a Washington si usi lo specchietto retrovisore per guardare avanti.
È che la globalizzazione e il progresso tecnologico non hanno modificato soltanto la struttura economico- produttiva e il mercato del lavoro statunitensi, ma radicalmente anche l’organizzazione e la divisione internazionale del lavoro talché anche se produci auto elettriche in America non puoi prescindere dalla produzione di batterie cinesi. Quindi anche se vuoi non puoi mandare al diavolo il drago senza rischiare il soffocamento fra gli artigli dell’aquila americana. È cambiata la geografia economico-produttiva del mondo e di conseguenza sono mutati anche i rapporti di forza fra le varie potenze e non certo a favore degli Usa. Nel pieno della pandemia, per esempio, mentre gli Usa, a protezione dei profitti della loro industria farmaceutica - l’altra sopravvissuta oltre a quella militare - facevano incetta di vaccini salvo tenerli inutilizzati, Russia e Cina, e in parte anche la Ue, donavano o offrivano i loro a prezzi stracciati accrescendo così la loro influenza in area strategiche come l’Africa e persino l’America Latina.
Biden come Gorbaciov?
Perfino l’Ungheria, che insieme alla Polonia è forse uno dei paesi più filoatlantici, per vaccinare la sua popolazione ha usato soprattutto il sinovax cinese e lo sputnik russo.
È cambiato il mondo e l’America, più che a quella di Roosevelt, di Kennedy e Jhonson, fa pensare molto all’Urss di Gorbaciov. Anche Gorbaciov sperava di salvare l’Urss, scappando dall’Afghanistan e lisciando il pelo all’Europa, in particolare alla Germania offrendole Berlino Est in cambio di pace, sicurezza e soprattutto quattrini. Sappiamo come è andata a finire! L’America è però l’avamposto del capitalismo mondiale nonché l’epicentro da cui ha preso l’avvio la crisi epocale in cui da decenni si dimena tutto il sistema capitalistico. E poiché, contrariamente a quel che scrive Galli della Loggia, nella sostanza il capitalismo è uno e uno soltanto, quel che accade oltreoceano è solo un’anticipazione di quel che potrebbe accadere anche altrove. L’alternativa alla catastrofe non può essere dunque né il capitalismo buono né tantomeno quello cattivo ma soltanto la sua liquidazione tout court.
[1] F. Rampini – Sorpasso Sulla Cina – ora è l’America a trainare il mondo – La Repubblica del 06.04.2021
[2] Pier Luigi Ciocca - I rischi della politica economica di Biden – Il Manifesto del 22.05.2021.
[3] Ib.
[4] Cit. tratta da: F. Rampini – La manovra record di Biden – La repubblica del 29.05.2021.
[5] Ib.
[6] Vedi anche: G. Paolucci- Sul declino degli Usa e l’inasprirsi della guerra imperialista permanente- D-M-D’ n.16/2021- http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/internazionale/56-americhe/556-sul-declino-degli-usa-e-l-inasprirsi-della-guerra-imperialista-permanenteRita
[7] Qui Finanza – Un anno senza made in Cina – Quanto ci costerebbe fare a meno dei prodotti del dragone - 4 ottobre 2009 – https://quifinanza.it//soldi/made_in_china-2/31601/
[8] Rita di Leo -L’età della moneta – Il Mulino -pag 120.
[9] G. Gianetti - Le (nuove) auto sono rimaste in panne – Il Fatto Quotidiano del 4 giugno 2021.
[10] Peter Hessler – Il Potere del Commercio – The New Yorker, ripreso da: Internazionale n. 1411 del 28 maggio 2021
[11] Anna Case (alias, Alexander Stewart, professore emerito di economia e Relazioni pubbliche nella Princeton University) e Angus Deaton (alias, Dwight D. Eisenhower, anche egli professore emerito di Economia e Affari Internazionali nella University of Princeton e Nobel per l’Economia nel 2015) – Morti per disperazione – il futuro del capitalismo- Ed. Il Mulino – pag. 47
[12] Ib. pag. 174.
[13] Ib. pag. 91, 93
[14] Ib. pag 202.
[15] Ib. pag.191.
[16] Ib. pag. 208.
[17] Ib. pag. 123 e 180.
[18] Ib. pag. 149 – 150.
[19] Cfr: https://www.truenumbers.it/assicurazione-sanitaria-usa/
[20] Ib. pag.257
[21] Cfr: https://www.truenumbers.it/assicurazione-sanitaria-usa/
[22] Sarah Smarsh – Heartland – Ed.
[23] Lee Durkee – Last taxi driver- Ed. Black coffe -
[24] Op. cit. pag. 192.
[25] Ib. pag. 277.
[26] R. Zanini – Too big to pay: le zero tasse dei miliardari Usa – Il Manifesto del 10 giugno 2021.
[27] Al riguardo vedi: G. Paolucci – Sul declino degli Usa e l’inasprirsi della guerra imperialista permanente - http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/internazionale/56-americhe/556-sul-declino-degli-usa-e-l-inasprirsi-della-guerra-imperialista-permanente
[28] Cit. tratta da Simone Pieranni – Biden in Europa per contrastare Cina e Russia ed espandere a est la Nato – il Manifesto del 9 giugno 2021.
[29] Ernesto Galli della Loggia – Le illusioni coltivate dalla Cina - Il Corriere della sera del 23 giugno 2021.
[30] Al riguardo vedi: https://www.agi.it/estero/news/2021-06-23/killer-khashoggi-si-addestrarono-usa-13019018/