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L’imperialismo contemporaneo è la più criminale forma di racket che ci sia mai stata nella storia del capitalismo e questa guerra lo conferma.
Per fermare la guerra occorre un nuovo partito comunista e internazionalista.
Versione Inglese[EN]
Versione Francese[FR]
Nel nostro tempo ogni guerra, anche se camuffata da guerra di religione o di liberazione nazionale, da guerra “umanitaria” per la difesa dei diritti umani e per il rispetto del diritto internazionale, e così via, è sempre un momento di quella guerra imperialista permanente che da decenni imperversa per il mondo intero, seminando morte, fame e distruzione.
Lo è stata quella appena conclusa in Afghanistan, lo sono quelle in corso in Medio Oriente, quelle in Africa e in Asia, e lo è anche quest’ultima appena iniziata con l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia. Putin dice che è stato costretto a farlo per difendere la popolazione russofona del Donbass dal “genocidio” perpetrato dall’esercito di Kiev.
In realtà, come George Bush fece al tempo dell’invasione americana dell’Afghanistan, anche Putin potrebbe dire ai suoi sodali: «Non commettiamo errori. Questo è per il petrolio. È sempre per il petrolio»[1]. E – aggiungiamo noi – per il gas e per la moneta con cui questi si scambiano.
«Oggi – scriveva già nel 2014 Marco D’Eramo – la Russia di Putin e “l’Occidente” [ossia, gli Usa – n.d.r.] condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere.»[2]
Condivisione e Conflitto
È pertanto uno scenario di condivisione e conflitto, da cui discende un tale groviglio di interessi che non è sempre facile distinguere dove finisce la condivisione e dove inizia il conflitto.
Sicuramente, in questa ennesima guerra, è condiviso da Stati Uniti, Russia e Cina l’interesse a impedire che l’UE si dia una politica estera e un esercito comuni, così da potersi porre sullo scenario geo-strategico mondiale in concorrenza con esse ad armi pari.
Sul piano del tornaconto immediato, vi è senz’altro condivisione almeno fra Russia e USA affinché sul mercato mondiale si formi un prezzo del gas e del petrolio il più alto possibile, essendo Russia e America paesi produttori ed esportatori.
La condivisione cessa, invece, quando si tratta di stabilire se sul mercato internazionale quel prezzo deve essere quotato in dollari, oppure in euro, rubli, in yuan o in qualsiasi altra valuta.
A tutt’oggi la gran parte del petrolio e del gas estratt nel mondo è venduta per mezzo del dollaro. Il che “regala” agli Stati Uniti un’enorme rendita finanziaria.
Da qualche tempo, però, la Russia ha cominciato a vendere una buona parte dei suoi prodotti energetici in cambio di euro, di rubli, di yuan o di apposite monete di conto; lo stesso sta facendo anche la Cina con le sue merci.
Si va restringendo l’impiego del dollaro e quindi declina anche la rendita che ne deriva. E si sarebbe ridotta ancor più qualora fosse entrato in esercizio il North stream 2. Grazie ad esso, infatti, dalla Russia sarebbero arrivati direttamente in Germania, senza passare dall’Ucraina, altri 55 miliardi di metri cubi all’anno, tutti pagati in euro. È per questa ragione che gli USA hanno provato a bloccarne in tutti i modi la costruzione senza però riuscirvi[3]. Ma ecco che, proprio quando stava per entrare in esercizio, la Casa Bianca, tramite la NATO, accende una miccia nella già incandescente polveriera ucraina. Fa intendere che sia imminente l’accoglimento nell’Alleanza Atlantica anche di Kiev dopo Polonia, Estonia, Lettonia, Romania ecc.. La tensione con la Russia sale alle stelle e inizia un vero tour de force, soprattutto da parte tedesca e francese, per trovare una soluzione diplomatica alla crisi.
Intanto il prezzo del gas e del petrolio, già in crescita per altre ragioni, raggiunge quotazioni che non si vedevano da almeno un decennio a questa parte.
Ma ecco che proprio quando lo sforzo diplomatico sembra possa coronarsi con successo, l’ineffabile segretario della Nato, il norvegese Stoltenberg (a voler pensar male, guarda caso, la Norvegia è il terzo Paese esportatore di petrolio dopo Arabia Saudita e Russia), dichiara Urbi et Orbi che, qualora la Russia avesse invaso l’Ucraina, le truppe della NATO non sarebbero intervenute in suo soccorso.
Il tornaconto di Washington e di Mosca
Dopo pochi giorni, la Russia, sorprendendo tutti[4], tranne la Casa Bianca, dà inizio all’invasione.
In un giorno solo, il prezzo del gas sale del 12,7%, raggiungendo quota 927 euro per metro cubo; dopo qualche giorno la Germania è di fatto costretta a rinviare sine die l’entrata in esercizio di quel North stream 2 tanto inviso all’America, alla quale meglio di così non poteva andare: ha ottenuto quel che voleva praticamente gratis et amore Dei. Il rovescio della medaglia – c’è sempre un rovescio della medaglia – è che questa guerra possa imprimere una forte accelerazione proprio a quel processo di integrazione dell’Unione europea, all’America tanto inviso.
E la Russia? È caduta nella trappola tesale dalla NATO oppure anche essa si è mossa in vista di un suo ben preciso tornaconto?
Secondo gli esperti, grazie alla mancata apertura del North stream 2, il prezzo del gas potrebbe raggiungere i 2000 euro a metro cubo. Se così fosse, la Russia incasserebbe solo dall’Europa la stessa quantità di euro di oggi vendendole la metà del gas che le vende ora, per dirottare i surplus verso la Cina.
Inoltre, salvo una totale quanto improbabile disfatta militare, si annetterà definitivamente le autoproclamate repubbliche indipendenti di Donetsk e di Lugansk, ossia della più industrializzata e ricca area del Donbass. Insomma, anche per Mosca, pur mettendo in conto gli effetti negativi delle sanzioni, che poi normalmente fanno più male a che le mette che a chi le subisce, potrebbe ricavarne un buon bottino. Anche qui ovviamente c’è un rovescio della medaglia. Corre il rischio, una volta chiusasi tutte le porte verso ovest, di ritrovarsi senza alcuna possibilità di svincolarsi dalle spire del dragone cinese.
Un tacito accordo?
Nondimeno, mettendo sul piatto della bilancia tutti i pro e i contro, non si può neppure escludere che fra l’inquilino del Cremlino e quello della Casa Bianca sia intercorso un qualche accordo, più o meno tacito, a spese della UE e della stessa Ucraina, che rischia di finire in un cumulo di macerie. Il tempo chiarirà ogni cosa.
In un mondo in cui domina incontrastato il profitto e dunque il denaro, il despota universale in cui esso si incarna, anche quel che in apparenza sembra impossibile diventa possibile. Lo aveva capito già Shakespeare che proprio a proposito del denaro faceva dire a Timone di Atene: «Tu, dio visibile che fondi insieme strettamente le cose impossibili, e le costringi a baciarsi!»[5]. Al suo cospetto non c’è vita, anche la più preziosa, che non possa essere sacrificata, oggetto e cosa che non possano essere distrutti, bellezza che non possa essere sfregiata e annientata. Niente lo vale e tutto lo vale, anche un bacio fra i più acerrimi nemici.
In ogni caso, accordo o non accordo, in ultima istanza, a farne le spese è il proletariato, tutto il proletariato, quello ucraino come quello europeo, quello russo come quello americano, quello cinese e quello di tutto il mondo.
Per la gioia dell’industria bellica, aumenta la spesa militare e automaticamente viene ridotta la spesa sociale. Aumenta il prezzo del gas e quello del petrolio, le compagnie petrolifere realizzano extra profitti da capogiro (negli ultimi mesi, solo in Italia l’Enel ha incrementato i suoi profitti del 33%), ma i salari vengono falcidiati dall’inflazione che ne consegue. Per non dire dei giovani proletari costretti a fare da carne da macello sui fronti della guerra, e delle immani sofferenze e privazioni che vengono inflitte alle popolazioni civili.
Sotto qualunque profilo la si guardi, economico, umano, civile, il proletariato e tutti coloro che vivono del loro lavoro e non di profitti e rendite varie, dalla guerra hanno solo da perdere. Contrastarla e rimuovere alla radice la dittatura del profitto da cui essa discende è davvero una inderogabile necessità. Tanto più che se permane la dittatura del denaro, ammesso che cessi la guerra in Ucraina, altri fronti e più virulenti si apriranno, come puntualmente è accaduto dopo il ritiro degli USA dall’Afghanistan.
Né si può escludere – data la forte instabilità degli attuali equilibri interimperialistici e lo scontro in atto per una loro ridefinizione, con gli Stati Uniti in declino e la Cina in grande ascesa – che essa si generalizzi mettendo a rischio la sopravvivenza della stessa umanità.
Occorre un nuovo partito comunista e internazionalista
Il proletariato, però, versa in uno stato di totale disarmo politico, ideologico e organizzativo, per cui è più facile che resti irretito nella logica della guerra imperialista a seguito di questa o quella frazione della borghesia internazionale piuttosto che si erga contro la guerra e le cause che la provocano. Occorre prendere atto che si sono prodotti tali e tanti mutamenti nell’organizzazione e nella divisione internazionale del lavoro, che è semplicemente impossibile il superamento di tanta subalternità, rimanendo ancorati allo stesso impianto teorico e organizzativo che è stato quello della Terza Internazionale. Va detto chiaramente: il percorso che nel 1917 condusse alla Rivoluzione d’Ottobre in Russia è irripetibile nei suoi termini specifici, avendo lo stesso sviluppo capitalistico superato molti dei suoi presupposti peculiari.
Occorre prenderne atto e procedere a una nuova sistematizzazione di tutti gli elementi inerenti alla condizione del moderno proletariato, e da qui procedere per individuare i percorsi lungo i quali sviluppare il processo di costruzione di un nuovo partito comunista su scala mondiale, senza il quale la stessa parola d’ordine “disfattismo rivoluzionario” – nonostante tutta la sua stringente attualità – è destinata a rimanere priva di qualunque significato.
[1] San Francisco Chronicle, 2 Novembre 2001.
[2] Marco D’Eramo, Pagina 99, 25 febbraio 2014; cit. tratta da Gianfranco Greco, Ucraina, cronaca di una deriva annunciata, a cui rimandiamo.
[3] Cfr Siria, Iraq, Kurdistan, Libia: il mondo prigioniero della guerra imperialista permanente.
[4] E, per quel che può valere nel nostro piccolo, anche noi.
[5] W. Shakespeare, Timone di Atene (ca. 1605-1608), cit. tratta da K. Marx, I manoscritti economico-filosofici (1844), Einaudi, Torino 1962, p. 153.