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“Una rivoluzione? No, una semplice redistribuzione delle carte…Questo governo difende gli stessi valori del precedente: il liberismo economico e l’arricchimento personale.” (Vladimir Ishchenko, sociologo e direttore del Centro di ricerca sulla società, di Kiev)
Majdan
Il composito puzzle ucraino emerso a partire dal febbraio di quest’anno ed emblematizzato dai fatti della Majdan, ha in effetti una gestazione assai più datata nel tempo, cogliendo il senso della quale si può seguire il filo logico degli avvenimenti evitando, così, un ricorrente ritualismo della stampa mainstream ma soprattutto le stramberie di chi si trastulla disinvoltamente coi doppi standard o, ancor di più, i pistolotti soporiferi alla Ceronetti il quale, finendo per alimentare una demonologia tuttora persistente, fa ricorso a vacue litanie che si rifanno a “La Russie éternelle” anche se – in un empito di bontà – ci risparmia l’evocazione del mitico 7° Cavalleggeri.
Non è certo utilizzando la partigianeria come criterio distintivo ma soprattutto come chiave di lettura che si comprende appieno cosa sta avvenendo a Kiev o a Damasco e neanche quello che è avvenuto a Tunisi, ad Ankara o al Cairo.
Fare riferimento alle moderne forme dell’imperialismo, nell’interpretare l’attuale crisi ucraina, non è certo esercizio blasfemo che possa far arricciare il naso laddove si staglia sempre più nitida la percezione che i veri protagonisti della vicenda vanno oltre i mazzieri neonazisti o i russofoni del Donbass come spiega con la sua usuale chiarezza Barbara Spinelli:” La Russia aspira a Riconquiste come la Nato e Washington. Fa guerre espansive in Cecenia mentre gli USA, passivamente seguiti dall’Europa, fanno guerre illegali cominciando dall’Iraq”[1] che va ad integrare quanto in precedenza evidenziato da Marco D’Eramo su “Pagina 99”, ossia che “Oggi la Russia di Putin e “l’Occidente” condividono un’identica visione basata sulla ricerca di profitto e di potere: in tutto tranne su un punto, e cioè a chi debbano andare profitto e potere.”[2]
Nessuno nega che la situazione ucraina abbia delle sue specificità che si manifestano anche e soprattutto in un contesto segnato da una contrapposizione irriducibile - tra due schieramenti – che viene da molto lontano e che è stata implementata in questi tormentati decenni, successivi alla disgregazione dell’impero sovietico, da una crisi economica, politica, sociale e demografica che ha avuto come epifenomeni più significativi una caduta verticale e generalizzata del reddito ed una massiccia emigrazione verso l’estero (negli ultimi anni quasi due milioni di persone hanno abbandonato il paese).
Prende avvio, a causa di ciò, il solito corollario di insorgenze, figlie di un malessere diffuso e sul quale si innestano risentimenti mai sopiti sui quali soffiano sapientemente primattori che mirano, in modo palese, ad un “regime change” a tutela dei loro interessi contingenti e, ancor di più, degli obiettivi da perseguire.
Perché deriva annunciata?
Per il fatto che i prodromi si manifestano già a partire dal 1991 quando Stati Uniti ed alleati europei si muovono per capitalizzare al massimo la nuova situazione politica venutasi a creare con l’implosione dell’impero sovietico, riproponendo una versione aggiornata del “Drang nach Osten” (Spinta verso l’Est) di hitleriana memoria, che si concretizza nell’inglobamento nella Nato – longa manus degli USA, unitamente al FMI – dei paesi dell’ex patto di Varsavia, dalle repubbliche baltiche fino all’Albania, repubbliche ex-jugoslave comprese. Ciò nonostante per l’analista geopolitico statunitense, Peter Zeihan, la sconfitta della Russia, nel 2004, non era ancora completa. Mancava evidentemente ancora qualche tassello per completare l’accerchiamento della Russia nello spazio post-sovietico e questo tassello era rappresentato dall’Ucraina ritenuta, già nel 1994, da Zbigniew Brzezinski paese fondamentale nei nuovi equilibri geostrategici da sottrarre alla Russia per trasferirla sotto l’egida della Nato e degli USA, precisando ulteriormente come tra il 2005 e il 2010 l’Ucraina avrebbe dovuto essere pronta per un serio confronto con la Nato in quanto – a suo dire – il principale nucleo della sicurezza in Europa sarebbe consistito in Germania, Francia, Polonia e Ucraina. Di converso, il politologo russo di estrema destra, Aleksandr Dugin, sosteneva, nel 2001, come ”La sovranità dell’Ucraina rappresenti per la geopolitica russa un fenomeno a tal punto pernicioso che, in linea di principio, può facilmente innescare un conflitto armato. L’Ucraina come stato autonomo e non privo di qualche ambizione territoriale, costituisce un enorme pericolo per tutta l’Eurasia. Sotto il profilo strategico l’Ucraina non deve essere che una proiezione di Mosca verso Sud e verso Occidente.” Si è voluto dar conto di queste dichiarazioni proprio per dare il segno non solo dell’inconciliabilità delle rispettive posizioni ma soprattutto per evidenziare come un certo lavorìo fosse stato avviato già da tempo, finalizzato all’acquisizione di una significativa regione vista come una sorta di “Lebensraum” (spazio vitale) dal quale non poter prescindere anche avendo piena cognizione delle resistenze da fronteggiare e dei prezzi da pagare.
Persistendo notevoli difficoltà a far entrare l’Ucraina nella Nato e nella UE e nell’installarvi basi americane, gli USA, per sovvertire il governo filo-russo di Yanukovich, non si sono fatti scrupolo alcuno ad appoggiarsi a gruppi neo-nazisti come Pravy Sektor o Svoboda che operando di concerto con istituzioni e fondazioni americane come la la CIA, Freedom House, Open Society Institute, hanno realizzato quel “regime change” per il quale si erano attivati da lungo tempo.
A tutto questo ha corrisposto, simmetricamente, una risposta/ritorsione della Russia che, fomentando il nazionalismo grande-russo degli ucraini russofoni, ha portato alla secessione della Crimea ed alla autodeterminazione di alcune province del Donbass.
Eurasia
Spiegava, a suo tempo, Zbigniew Brzezinski: “Il crollo dell’Unione Sovietica ha fatto sì che gli Stati Uniti diventassero la prima e unica potenza veramente globale, con una egemonia mondiale senza precedenti e oggi incontrastata. Ma continuerà ad esserlo anche in futuro? Per gli Stati Uniti il premio geopolitico più importante è rappresentato dall’Eurasia, il continente più grande del globo, che occupa – geopoliticamente parlando – una posizione assiale dove vive circa il 75% della popolazione mondiale ed è concentrata gran parte della ricchezza del mondo, sia industriale che nel sottosuolo. Questo continente incide per circa il 60% sul PIL mondiale e per ¾ sulle risorse energetiche conosciute. L’Eurasia è quindi la scacchiera su cui si continua a giocare la partita per la supremazia globale.” [3]
E’ questo, in estrema sintesi, il pensiero forte che ha innervato la politica estera degli Stati Uniti dal disfacimento dell’Unione Sovietica in avanti, passando per la disintegrazione dell’ex-Jugoslavia per arrivare all’attuale vicenda ucraina.
Ma, in termini operativi, in che cosa si traduce questa filosofia? Quali sono o quali sono destinati a diventare i contesti entro cui si giocheranno certe partite geopolitiche? La vicenda georgiana con le appendici dell’Ossezia e dell’Abkhazia unitamente a quanto sta accadendo in Ucraina stanno a dimostrare come quest’area –Caucaso ed Ucraina – siano di fondamentale importanza per tenere sotto controllo l’intero continente asiatico. In termini più chiari significa tenere sotto controllo le tre grandi potenze: la Cina che si avvia a diventare la prima economia al mondo soppiantando proprio gli USA, l’India e, per l’appunto, la Russia.
Evidentemente Washington tiene particolarmente a questo premio geopolitico sebbene il contesto mondiale si sia profondamente modificato con la fine dell’unipolarismo e con l’emergere di nuovi attori nella geopolitica globale, i quali attori sono maggiormente interessati a provvisori allineamenti che non a vere alleanze.
Ciò determina una estrema precarietà e volatilità di posizioni e di situazioni che si traducono in una conflittualità più o meno latente ma che deflagra allorquando certe “linee rosse” vengono oltrepassate.
E’ il caso dell’Ucraina.
“Washington non vuole vedersi sfilare alcuno dei “premi” conquistati dopo la fine della Guerra Fredda. Il bottino è notevole: tutti i paesi del Patto di Varsavia ora sono saldamente ancorati all’Occidente e parte della Nato. Lo stesso vale per le repubbliche baltiche. Noi ci siamo accaparrati il 95% di quel che la fine della Guerra Fredda ha messo in palio. L’Ucraina è parte del 5% rimasto. E’ facile capire la determinazione di Mosca nel preservare le briciole.” A sostenerlo è un esperto americano di storia diplomatica e militare, Andrew Bacevich, che mette in guardia dalla possibilità di una escalation tanto più verosimile se si considera che in ballo potrebbe esserci “ la balcanizzazione e la disintegrazione del più grande Stato al mondo, dotato di un inestimabile tesoro minerario e di un arsenale nucleare più che ragguardevole.”[4] Se aggiungiamo la semplice considerazione che, nel caso l’Ucraina dovesse, fattivamente, entrare nella zona d’influenza occidentale, ciò comporterebbe il fallimento del progetto di Unione Euroasiatica, ossia la ricostituzione, nelle intenzioni di Mosca, di una forza geopolitica alla quale legare la Bielorussia, le repubbliche centroasiatiche, il Caucaso, capace, quindi, di ricostituire lo spazio sovietico e controbilanciare, in tal modo, l’Occidente, si spiega allora come Mosca non esiti a ricorrere a pressioni economiche e militari per difendere interessi che ritiene legittimi. L’Ucraina così come il Caucaso sono il “cortile di casa”, per meglio dire: niente di dissimile da quello che ha sempre fatto l’Occidente nelle proprie zone di influenza. Si ha memoria della dottrina Monroe?
Sanzioni: Adelante, Pedro, con juicio
Il Manzoni non ce ne voglia se abbiamo attinto ai suoi “Promessi Sposi” per dare rappresentazione, purtroppo, ad uno sconcio balletto che vede volteggiare i diversi attori tutti presi a calibrare – pro domo propria e rigorosamente in ordine sparso – le sanzioni economiche da applicare nei confronti della Russia dopo l’annessione, manu militari, della Crimea.
Non occorreva di certo la sfera di cristallo per presagire una mossa del genere. Era dalla “rivoluzione arancione” del 2004 che Mosca, a mò di precauzione, nel caso la situazione si fosse evoluta in senso sfavorevole, si era attivata per una intensa campagna di russificazione della popolazione. Non solo. C’era Sebastopoli. C’era la flotta russa nel Mar Nero. C’era da prendere fattivo possesso dell’unica porta di accesso al Mediterraneo. Da qui le sanzioni.
Sin dall’inizio appare evidente come sia soprattutto l’America a volerle in ragione del fatto che, dopo tutto, le relazioni economiche USA-Russia sono modeste: soltanto 40 miliardi di interscambio all’anno a fronte dei 460 miliardi fra Russia e Unione Europea.
Ciò spiega a iosa le resistenze europee ma non solo. Infatti a non essere d’accordo non è la sola Germania in quanto la stessa Inghilterra, solitamente al traino degli USA, manifesta una certa opposizione legata al fatto che i russi sono tra i principali investitori nella City. Perfino il modesto Belgio mostra segni di nervosismo per il motivo che i diamanti grezzi lavorati ad Anversa provengono in larga parte dagli Urali. Esilarante, a dir poco, è che a queste geremiadi a più voci si sia associato finanche il mercato immobiliare di Manhattan in cui sono presenti gli immancabili oligarchi russi.
IMPERIALISMO MODERNO E MULTINAZIONALE
Ovviamente non si può sottacere l’effetto che tali sanzioni avrebbero sull’export di gas russo che per un buon 70% è destinato in Europa. Friedbert Plueger, esperto di risorse energetiche, lancia un monito:” I russi hanno bisogno di venderci gas come noi abbiamo bisogno di comprarlo. La dipendenza è reciproca: noi siamo dipendenti dal gas russo, la Russia dai proventi. Stiamo attenti tutti a non avviare una spirale di escalation di sanzioni che farebbe male a entrambe le parti e che genererebbe incertezze che andrebbero a pesare sulla congiuntura europea.”[5]
Evidentemente a Washington e Bruxelles prevalgono valutazioni diverse se il professore Gabriel Felbermayer dell’Istituto di studi economici di Monaco di Baviera chiarisce quale sia il peso del dilemma per Berlino:” Per la Germania, numero due mondiale dell’export, una guerra commerciale con la Russia comporterebbe un grande danno. La Germania esporta in Russia il 3% del suo export. Se cade questo export, nel caso peggiore, la Germania perderebbe l’1,2% del suo PIL. Nella UE nel suo insieme la perdita di PIL sarebbe circa l’1%.”[6]
A risentirne maggiormente sarebbero le economie dei paesi esportatori e, nel caso specifico della Germania, verrebbero colpiti comparti come quello dei macchinari, quello automobilistico, quello chimico, determinando una situazione in cui il governo federale, da un lato, deve solidarietà agli alleati ma, dall’altro, deve affrontare l’ostilità dell’industria, dei sindacati e della società civile a varare misure che si ritorcerebbero contro la Germania. Misure che, a gioco lungo, inficerebbero le seppur teoriche possibilità di ripresa dell’intera Unione Europea.
Ma allora: questa guerra per interposta persona è solo contro la Russia o non è anche, o soprattutto, contro l’Europa?
Se molti indizi fanno una prova, ebbene in questo caso ci sarebbe soltanto l’imbarazzo della scelta. Citiamone solo qualcuno, tra i più significativi:
E’ stato sempre sottodimensionato il fatto che gli USA – attraverso il “cavallo di Troia” chiamato NATO – abbiano prontamente inserito gli ex paesi satelliti dell’URSS nell’Alleanza Atlantica, ma, soprattutto, il fatto che si siano sempre spesi a che gli stessi potessero entrare a far parte della UE nonostante le riserve avanzate da quest’ultima. Come spiegare tutto questo interesse?
Per tre ordini di motivi:
- L’espansione della UE verso Est costituiva di per sé un antemurale rispetto alla Russia
- Sempre l’espansione, col proprio effetto di dilatazione, per legge fisica, significava diluire il peso specifico della UE
- L’avanzata della UE verso l’Est faceva un tutt’uno con l’avanzata, in parallelo, della Nato.
In poche parole: si trattava di cogliere tanti piccioni con una sola fava!
Ma c’è altro ancora: la vicenda ucraina si presta ad una interpretazione che mostra talune analogie con la guerra, nel 1973, del Kippur e con lo shock petrolifero – non necessariamente pianificato , ma comunque supportato dal patto di ferro tra Washington e Riyadh[7]- che ne derivò. Si trattava anche allora di far lievitare – per mezzo di una guerra – il prezzo del petrolio.
E il prezzo del petrolio in quale moneta era ed è denominato? In dollari.
Oggi scatenando una guerra in Ucraina si impedirebbe, di fatto, alla Russia di esportare il proprio gas all’Europa, cosa che consentirebbe di mantenerne alto, da un lato, il prezzo – consentendo con ciò di riassorbire gran parte di quel “quantitative easing” (ufficialmente 80 miliardi di dollari al mese) allontanando quindi lo spettro di una iperinflazione - e, dall’altro, indurre l’Europa a ripiegare sul gas shale made in USA.
Conti un po’ sbrigativi a dire il vero. Geologi americani un po’ più seri e assai meno servili di tanti nostri opinion maker asseriscono, infatti, come le principali formazioni di scisto negli Stati Uniti, siano destinate ad un declino produttivo “assoluto” in meno di sette anni. Da qui l’accelerata che gli USA stanno cercando di imporre all’esportazione del gas shale passando disinvoltamente sopra il fatto che tale esportazione non può prescindere dalla costruzione sui porti costieri americani di appositi e complessi terminali e di adeguati impianti di rigassificazione in Europa con tempi, tra l’altro, che si contano anch’essi in parecchi anni.
“Si mettono solo a sognare ed è quello che sta accadendo con il boom dello shale” così sintetizza al meglio un investment manager come Tim Gramatovich.
La iattura però è che dietro questi sogni si palesa, in termini sempre più perentori, una visione del mondo per cui “Non finisce il diritto degli Stati Uniti ad intervenire, anche militarmente, in qualsiasi luogo del pianeta dove gli interessi americani vengono minacciati.”[8] Cioè, dappertutto, ciò comportando inevitabili collisioni con gli interessi di altre potenze imperialistiche.
L’Ucraina ne è una plastica rappresentazione. Il corto circuito innestatosi vede una divaricazione di interessi con la Russia che non si accontenta del rango di potenza continentale e non fa mistero, quindi, di ambire a rientrare nel gioco delle grandi potenze, con forti argomentazioni quali un inestimabile patrimonio minerario e di risorse energetiche, un arsenale nucleare che si assomma a forze armate in via di rapida modernizzazione, consistenti riserve valutarie legate all’export del petrolio, ed un Occidente che marcia apparentemente unito anche se gli obiettivi a lungo termine tendono a divergere. Per entrare più nel merito: se la Germania (utilizziamo questa “reductio ad unum” data l’irrilevanza della restante parte della UE) considera l’Ucraina una tappa della sua espansione verso Est intesa come mercato di sbocco per le proprie merci ma anche acquisizione di forza-lavoro a basso costo in quella che è la sua preminente vocazione produttiva industriale, tenuto conto del proprio nanismo finanziario e militare rispetto alla potenza americana. La stessa Ucraina di cui Brzezinski, nel suo citato libro, rimarcava l’importanza tanto da fargli sostenere che “ senza l’Ucraina la Russia smetterebbe di essere un impero in Eurasia” e che, nella visione strategica russa, dovrebbe far parte di quel connettore tra l’Europa e la regione Asia-Pacifico, ossia del corridoio euro-asiatico “Razvitie”.
In mezzo al guado
Verso cosa stia evolvendo la situazione è esercizio difficile tenuto conto, in particolar modo, della piega che stanno prendendo gli avvenimenti nel Donbass. E’ palese, infatti, oramai, che la Crimea ha fatto dottrina talché i russofoni delle province sudorientali – le più ricche, detto per inciso – hanno dato corpo alle loro posizioni radicali creando l’autoproclamato stato di Malorossija (Piccola Russia). Tutto questo è forse divenuto inevitabile dopo che Kiev non ha mai dato pratica attuazione allo statuto di autonomia di cui, formalmente, avrebbero dovuto godere le province ucraine a preminente connotazione russa. Per di più l’abolizione del russo – tra i primi provvedimenti del nuovo governo - come seconda lingua ufficiale in aggiunta all’entrata nel governo dei rottami nazisti di Pravy Sektor , hanno dato fuoco alle polveri di una rivolta patrocinata da Mosca, molto abile nel vellicare quel sentimento, di appartenenza, grande-russo, quel codice identitario che è proprio delle minoranze russe che vivono nelle ex repubbliche sovietiche.
Ma è l’Ucraina tutta che sull’orlo del default per una situazione economica al limite del sostenibile liberatasi dal ricatto energetico russo potrebbe piombare in un nuovo ricatto: quello della solidarietà pelosa del FMI che trova espressione nelle misure tanto in auge col neo-liberismo: tagli di bilancio per il 15% con annessa austerità, scomparsa di molte aziende, congelamento dei salari e l’azzeramento dello stato sociale.
Inviluppato nella rete dell’idiotismo nazionalista – sia esso in salsa ucraina, filorussa o tatara – il proletariato ucraino è incamminato sulla stessa china del proletariato egiziano, tunisino, brasiliano, turco, siriano: essere manipolato, venire usato come massa d’urto dalle varie frange della borghesia internazionale il cui scopo è l’arricchimento esclusivo passando anche e soprattutto sulla distruzione di interi paesi.
La chiusa di un documento prodotto dalla organizzazione AWU (Autonomous Workers Union) di Kiev ne è più che eloquente dimostrazione:
“Questa non è la nostra guerra, ma la vittoria del governo significherà la sconfitta dei lavoratori. La vittoria dell’opposizione, inoltre, non promette niente di buono. Non possiamo chiamare il proletariato a sacrificarsi per il bene dell’opposizione e dei suoi interessi. Noi pensiamo che i criteri di partecipazione in questo conflitto siano una questione di scelte personali.”[9] Insomma: non chiamiamo i proletari a sacrificarsi per l’opposizione ma se la patria chiama…
[1] Barbara Spinelli - “Ritorno all’Ottocento” - La Repubblica 05 marzo 2014
[2] Marco D’Eramo – Pagina 99 25 febbraio 2014
[3] Zbigniew Brzezinski: La Grande Scacchiera
[4] Lucio Caracciolo- Il destino in gioco – La Repubblica 08 febbraio 2014
[5] Andrea Tarquini - No all’escalation delle minacce, quel gas ci serve – La Repubblica 16 marzo 2014
[6] A. Tarquini - Se ci saranno sanzioni contro Mosca l’UE perderà l’1% del PIL – La Repubblica 30 marzo 2014
[7] Paolo C. Conti, Elido Fazi - Euroil
[8] Alberto Flores D’Arcais:Obama- Obama:”Nostra la guida del mondo” – La Repubblica 29 maggio 2014
[9] Autonomous Workers Union, Kiev - Dichiarazione sulla situazione in Ucraina 21 febbraio 2014