Tagli occupazionali alla General Motors: quando i fatti smentiscono le chiacchiere.

Creato: 02 Dicembre 2018 Ultima modifica: 02 Dicembre 2018
Scritto da Carlo Lozito Visite: 1234

gmlayoffs“America first!”, gridava neanche due anni fa Trump appena eletto. Dichiarava guerra alle produzioni cinesi, si impegnava a riportare negli Usa le produzioni americane allocate all'estero e a rilanciare l'occupazione nell'industria. Gli ingenui lavoratori, prima e dopo le elezioni del plutocrate, hanno abboccato e acclamato con le bandierine stelle e strisce in mano.

Poi la guerra commerciale tra gli Usa e l'Europa a suon di dazi. Il trionfo del protezionismo. Abbiamo detto allora che era un frutto avvelenato innanzi tutto per i lavoratori americani. Dopo meno di due anni la General Motors, la più grande industria automobilistica del paese, annuncia tagli del 15% all'occupazione, la chiusura di quattro stabilimenti in Usa e uno in Canada, due all'estero. La guerra commerciale, così ci dice il Financial Times, ha comportato un aumento dei costi per l'azienda di un miliardo di dollari nell'acquisto delle materie prime e di conseguenza la necessità di un piano di ristrutturazione. L'obiettivo è ridurre i costi, entro il 2020, di 4,5 miliardi di dollari e ridurre la spesa in conto capitale di 1,5 miliardi di dollari all'anno. Almeno in questo il giornale parla chiaro.

Laconico l'annuncio di United Auto Workers, il sindacato dei metalmeccanici americano:

"La decisione spietata di Gm di ridurre o fermare le operazioni in impianti americani, aprendo o aumentando quella negli stabilimenti in Messico e in Cina, danneggia profondamente i lavoratori americani. Le decisioni di Gm, alla luce delle concessioni ottenute durante la crisi e il salvataggio con soldi pubblici, mettono i profitti prima della famiglie che lavorano". Dichiarazione di rito, falsa come Giuda.

Aggiunge Trump: “Sono qui per tutelare i lavoratori americani. Sono molto deluso per le chiusure degli impianti degli impianti in Ohio, Michigan e Maryland. Niente viene chiuso in Messico o Cina. Gm ha scommesso sulla Cina quando ha costruito nel Paese i suoi impianti (e anche in Messico). Non penso che sarà una scommessa che pagherà". Altro falsissimo rituale.

I fatti sono fatti, le parole volano. Le attese degli operai, poveri incoscienti, che hanno votato Trump sono state amaramente deluse.

Due anni fa, nel numero 11 di DemmeD', dopo l'elezione di Trump dicevamo: “le minacce del neo presidente Trump di applicare dei dazi doganali alle importazioni di merci cinesi e messicane se da un lato rappresentano delle mere illusioni per la massa di disoccupati statunitensi, per le ragioni che abbiamo sinteticamente sopra indicato, non avranno alcun impatto nel rilanciare la decrepita manifattura americana. Non bastano dei dazi doganali ad invertire la rotta, nel breve e medio periodo, di un’economia che negli ultimi decenni ha strategicamente abbandonato intere linee della produzione manifatturiera. Tutto ciò non è stato solo una scelta politica della borghesia statunitense ma è stato determinato dall’operare della legge della caduta tendenziale del saggio del profitto nelle attività industriali mentre il successivo sviluppo delle attività finanziarie è servito all’imperialismo statunitense per compensare globalmente la caduta dei saggi di profitti e alimentare parassitariamente i processi d’accumulazione attraverso la produzione di capitale fittizio”1.

Già ora, dopo un anno e mezzo, il proclama America first ha mostrato il suo volto nascosto: profit first!. Viviamo il tempo in cui le mistificazioni si consumano velocemente.

1Vedi l'articolo di giugno 2017 Donald Trump e la crisi dell’impero americano in http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/internazionale/56-americhe/437-america-americano