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Dalla rivista D-M-D' n°11
Una nuova fase storica si è aperta con l’elezione di Donald Trump a capo della Casa Bianca. Tanti sono i problemi che dovrà affrontare il nuovo presidente ed il suo programma economico poco potrà fare per arrestare il lento ed inesorabile declino della superpotenza americana.
Dopo il referendum che ha sancito l’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea anche i sondaggi preelettorali americani sono stati clamorosamente sconfessati dai risultati reali delle urne, tant’è che Donald Trump è diventato il 45° presidente degli Stati Uniti d’America sconfiggendo la favoritissima candidata democratica Hillary Clinton. Il multimiliardario indebitato e razzista Donald Trump, nonostante non godesse dell’appoggio incondizionato del partito repubblicano, ha sconfitto la candidata democratica appoggiata da molti settori dell’establishment dell’industria e della finanza statunitensi.
Forse la vittoria di Trump segna un punto di rottura con l’attuale quadro politico americano? Oppure ci troviamo di fronte ad un evento che solo in apparenza rompe gli schemi consolidati dell’establishment statunitense? Molti commentatori, e tra questi anche qualche sbiadita figura che si richiama velatamente al marxismo rivoluzionario, hanno visto nella vittoria di Trump un punto di svolta nel quadro politico americano; a detta di costoro Trump ha definitivamente posto fine ai soliti schemi democratici borghesi trasformando di fatto gli Stati Uniti d’America nella nuova frontiera dei sistemi dittatoriali.
A nostro modo di vedere questa è una lettura alquanto semplicistica dell’attuale quadro politico americano, che coglie soltanto alcuni e marginali elementi di superficie del quadro politico americano; in realtà Donald Trump incarna perfettamente gli interessi della classe dominante statunitense nel rispetto della logica elettorale fissata dai principi costituzionali. La vittoria di Trump è stata favorita dal sistema elettorale americano ma anche dai milioni di americani che delusi dal partito democratico e dalla sbiadita figura della Clinton sono stati attratti dalle promesse elettorali del tycoon newyorkese.
Il neo eletto presidente incarna in maniera compiuta gli interessi dell’establishment statunitense ed, in quanto espressione politica di tali interessi, è chiamato ad applicare una politica economica capace di affrontare le numerose contraddizioni della società americana avviata velocemente verso un inevitabile declino e sempre di più minacciata da altre realtà imperialistiche pronte ad insidiarla nel suo attuale ruolo dominante.
Con la nomina di Donald Trump non finisce la democrazia borghese negli Stati
Uniti, ma sicuramente diventa più evidente la vera funzione dei partiti politici trasformati di fatto in semplici macchine elettorali che vengono attivate, prescindendo dalla loro base elettorale, per tutelare gli interessi dei gruppi dominanti della società americana.
Non è una novità di queste ultime elezioni il fatto che i due partiti che si contendono la vittoria, i democratici e i repubblicani, siano in sostanza dei comitati elettorali; la vera novità è rappresentata dal fatto che per la prima volta abbiamo assistito all’affermazione di un candidato che non godeva dell’appoggio del suo stesso partito. A differenza di quanto avveniva in passato, quando erano i partiti a scegliere il proprio candidato dopo la lunghissima selezione delle primarie, in queste elezioni Donald Trump è riuscito dall’esterno ad imporsi come il candidato dei repubblicani. Tra le file di questi ultimi nessuno ha dimenticato che Trump era stato da sempre molto vicino al partito democratico, tanto da finanziare con lauti contributi anche alcune campagne elettorali dei candidati democratici. Nonostante il suo passato da sostenitore dei democratici, Donald Trump è riuscito ad imporsi tra i repubblicani come il loro candidato. Non è stato il partito a scegliere tra le proprie fila il candidato alle presidenziali ma è stato questi a scegliere il partito da utilizzare per candidarsi nella corsa alla Casa Bianca.
Tale questione può apparire di mera natura formale, in realtà evidenzia un salto qualitativo importante nel quadro politico americano in quanto rappresenta il primo passo verso il superamento degli attuali partiti statunitensi.
Ciò sta a significare che probabilmente stiamo assistendo anche al formale superamento della forma partito, così come l’abbiamo conosciuta nel corso degli ultimi 150 anni, e nelle prossime elezioni potremmo assistere allo scontro tra candidati che non hanno più bisogno della copertura dei partiti per concorrere alla corsa alla Casa Bianca.
Dalle organizzazioni partitiche, che si caratterizzavano per un proprio programma politico ed un’organizzazione stabile e ramificata sul territorio, siamo passati al partito-comitato elettorale, con proprio programma politico identico a quello del partito avversario e con tutta l’organizzazione strutturata per competere nelle varie tornate elettorali.
Per chiudere il cerchio: con la trasformazione di questi partiti/comitati in semplici macchine elettorali che si mettono in moto solo ed esclusivamente in occasione delle elezioni. E’ probabilmente finita l’era dei partiti negli Stati Uniti e la corsa alla Casa Bianca sarà come sempre appannaggio di multimiliardari che non avranno bisogno della copertura ideologica dei democratici e/o dei repubblicani per lanciarsi alla guida politica dell’attuale prima potenza imperialistica del mondo.
Una vittoria, quella di Trump, che in pochi davano come possibile e quasi nessuno degli analisti la ipotizzavano come probabile. Se Trump non rappresenta un elemento di rottura con l’establishment americano, per le ragioni che abbiamo sopra evidenziato, il programma economico lanciato durante l’interminabile campagna elettorale segna un punto di rottura con il passato. Un programma che rappresenta un primo importante messaggio con il quale la classe dirigente americana sembra prendere coscienza di essere una potenza in declino e lancia un primo vibrante segnale nel tentativo di contrastarne gli effetti. Come altrimenti interpretare i continui attacchi di Trump agli accordi internazionali siglati dalle precedenti amministrazioni statunitensi e la volontà di applicare dazi doganali alle importazioni cinesi ed europee se non come il tentativo di rimodulare la propria politica internazionale per rilanciare l’economia interna? Non è mai facile fare dei parallelismi storici con il passato, ma l’attuale quadro americano somiglia per alcuni aspetti alla situazione in cui si trovava nei primi anni ottanta del secolo scorso l’Urss e il progetto di Trump presenta delle analogie con il tentativo effettuato da Gorbaciov in Unione Sovietica quando l’allora seconda potenza imperialistica del pianeta riduceva il proprio raggio d’azione internazionale nel tentativo di risolvere le proprie contraddizioni interne. Sappiamo come il tentativo sia miseramente fallito con l’implosione dell’Urss e la fine dei regimi dittatoriali passati alla storia con il nome di socialismo reale. E’ lo stesso rischio che corrono gli Stati Uniti se non sapranno imporre, come attualmente stanno facendo, su tutto il pianeta il proprio dominio imperialistica, che passa ovviamente attraverso il mantenimento del dollaro come unità monetaria maggiormente usata negli scambi internazionali e il permanere della loro supremazia militare. Trump ha vinto la sua sfida elettorale incarnando l’American Dream in modo alquanto diverso rispetto al passato; il vecchio sogno americano, in base al quale tutti, attraverso il loro duro lavoro, avevano l’opportunità un giorno di arricchirsi, si è trasformato, in termini molto più sommessi e consapevoli di essere una potenza in declino, nella promessa di restituire il lavoro ai milioni di americani che negli ultimi 20 anni lo hanno perso a causa dell’invasione delle merci cinesi ed europee. Vediamo ora quale America si troverà a dover gestire il neo eletto presidente Donald Trump.
La crescita delle disuguaglianze
Il declino americano è già iniziato da qualche decennio e il neo eletto presidente Trump avrà l’arduo compito di dover gestire una situazione economica interna allarmante che rischia di far saltare il già precario equilibrio sociale su cui finora si è retta la società americana.
Il processo di concentrazione della ricchezza registrato in questi ultimi anni negli Stati Uniti non ha uguali nella storia del moderno capitalismo e rende la situazione inaccettabile da un punto di visto della distribuzione della ricchezza. Negli Usa lo 0,1% delle persone più ricche detengono quasi un quarto della ricchezza nazionale1. Soltanto nei primissimi decenni del secolo scorso la stessa percentuale della popolazione americana possedeva una quota di ricchezza nazionale pari a circa un quinto del totale, ma nei decenni successivi tale percentuale si è notevolmente ridotta fino a scendere al 7% alla fine degli anni settanta del ventesimo secolo. In seguito alla crisi finanziaria del 2008, innescata dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui sub-prime statunitensi, le diseguaglianze sociali sono cresciute in termini esponenziali; infatti mentre nei primi anni ottanta del secolo scorso il 90% della popolazione meno abbiente possedeva una quota di ricchezza pari al 35%, nel 2012 tale quota si è ridotta al 23%. In sostanza lo 0,1% della popolazione possiede la stessa quota posseduta dal 90% della popolazione statunitense2.
La crescita delle disuguaglianze sociali è testimoniata in maniera dettagliata da recente studio dell’Economic Policy Institute i cui dati statistici raccolti sono davvero sbalorditivi. Durante gli anni settanta del ventesimo secolo gli imprenditori guadagnavano mediamente circa 20 volte il salario medio di un operaio; tale rapporto è passato a 30 durante l’amministrazione Reagan (anni 80 del novecento) per diventare in questi ultimi anni addirittura 300 volte il salario medio di un operaio.
Tutto ciò non è solo il frutto di una leva fiscale che privilegia i redditi da capitale a tutto svantaggio dei redditi da lavoro3, ma va inquadrato nel più generale processo di concentrazione della ricchezza già descritto nel Capitale da Karl Marx e che oggi trova negli Stati Uniti una drammatica quanto puntuale conferma storica.
Sono numeri che non lasciano dubbi su come si sia notevolmente impoverita in questi ultimi anni la middle class americana ed è in un tale contesto sociale che ha potuto facilmente attecchire la propaganda del candidato repubblicano.
Trump ha vinto perché più della Clinton ha saputo rappresentare il disagio sociale di una fetta importante della società americana, quella fascia sociale che più delle altre ha avvertito sulla propria pelle i costi dell’attuale crisi economica. Perché non votare Trump quando questi promette di aumentare il numero degli occupati attraverso un rilancio della manifattura americana e un piano di investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture?
La propaganda elettorale ha fatto breccia nella pancia degli elettori perché è riuscita a dare speranza ad una fascia sociale che si è sentita tradita dall’amministrazione Obama e più in generale dal partito democratico e che negli ultimi venti anni ha visto il proprio tenore di vita repentinamente degradarsi ed ha subito un processo di impoverimento reso assai evidente da una disoccupazione reale a doppia cifra e con posti di lavoro precari e sotto pagati. Quanto poi le promesse di Trump potranno essere mantenute lo vedremo nel prosieguo di questo nostro lavoro.
Il programma economico di Trump
Uno dei punti qualificanti del programma del neo presidente statunitense è quello relativo al rilancio dell’occupazione nel settore manifatturiero, il settore che storicamente presenta salari più alti rispetto a quelli del terziario. I dati relativi all’emorragia di posti di lavoro nel settore manifatturiero americano esprimono in pieno la tendenza alla desertificazione industriale del paese, un fenomeno che affonda le proprie radici nella crisi di ciclo che si è aperta nei primissini anni settanta del secolo scorso4. Considerando soltanto i dati relativi al nuovo millennio, negli Stati Uniti si sono persi nei primi quindici anni del duemila qualcosa come sei milioni di posti di lavoro nel settore della manifattura5, posti di lavoro ben remunerati che sono stati trasferiti in Cina e nel sud est asiatico e in parte in Messico, paesi il cui costo del lavoro e decine di volte più basso rispetto a quello statunitense. Quando Trump promette di voler denunciare gli accordi commerciali del Nafta (accordi che regolano i rapporti con Canada e Messico siglato negli anni novanta dal presidente Clinton) e del Tpp (il Trans Pacific Partnership accordo sottoscritto dall’amministrazione Obama che dovrebbero regolare i rapporti con i paesi del pacifico, Cina inclusa) lo fa con il chiaro intento di illudere l’enorme massa di disoccupati e precari mal pagati che tali provvedimenti possano rilanciare l’industria americana e con essa la buona occupazione che non c’è più. In realtà quelle di Trump sono promesse che giungono ormai fuori tempo massimo, in quanto le dinamiche economiche del capitalismo su scala globale non possono consentire agli Stati Uniti di ripristinare i livelli occupazionali e salariali dei decenni passati. E’ ciò per una serie di ragioni che andremo a spiegare. Un primo dato strutturale che rende illusorie le promesse di Trump è quello relativo alla percentuale di lavoratori impiegati nel settore manifatturiero che è passata dal 24% degli anni sessanta del secolo scorso a solo l’8% nel corso del 2016. Anche se dovesse verificarsi un ipotetico quanto improbabile rilancio della manifattura statunitense l’impatto sui livelli occupazionali sarebbe alquanto marginale considerando il numero di lavoratori che potrebbero essere riassorbiti da tale ipotetico rilancio. Anche sul piano della crescita del Pil la manifattura incide relativamente poco, infatti l’intero settore rappresenta soltanto il 12% del prodotto interno lordo.
In secondo luogo i posti di lavoro persi negli ultimi decenni a causa dello spostamento della produzione in aree il cui costo della forza lavoro era più basso non potranno essere recuperati con l’introduzione di dazi doganali da applicare alle merci messicane e/o cinesi, in quanto un rientro delle attività produttive all’interno del territorio statunitense avverrebbe in un contesto tecnologico completamente diverso rispetto a quello in cui le produzioni erano state delocalizzate. Non sono i bassi salari messicani o cinesi a rappresentare il vero pericolo per i lavoratori statunitensi ma i robot introdotti nei processi di produzione6. Un report della società Boston Consulting ci informa che “entro il 2025 i robot svolgeranno un quarto delle mansioni in ogni settore manifatturiero con benefici per la produttività aziendale”7, con la conseguenza che i livelli occupazionali saranno destinati a subire un’ulteriore contrazione nei prossimi anni a prescindere dall’applicazione dei promessi dazi doganali di Trump. Se nel 2012 lo stock di robot industriali impiegati nell’economia statunitense erano pari a quasi duecento mila (per la precisione 197962 unità), nel 2017, quindi soltanto dopo cinque anni, il numero dei robot sarà pari a 291900, con una crescita di quasi il 50%8. La Ball University ha pubblicato un report nel quale ha evidenziato che se i livelli di produttività del 2000 fossero applicati ai livelli di produzione del 2010, gli Usa avrebbero avuto bisogno di 21 milioni di lavoratori anziché dei 12 attuali9.
Le minacce del neo presidente Trump di applicare dei dazi doganali alle importazioni di merci cinesi e messicane se da un lato rappresentano delle mere illusioni per la massa di disoccupati statunitensi, per le ragioni che abbiamo sinteticamente sopra indicato, non avranno alcun impatto nel rilanciare la decrepita manifattura americana.
Non bastano dei dazi doganali ad invertire la rotta, nel breve e medio periodo, di un’economia che negli ultimi decenni ha strategicamente abbandonato intere linee della produzione manifatturiera.
Tutto ciò non è stato solo una scelta politica della borghesia statunitense ma è stato determinato dall’operare della legge della caduta tendenziale del saggio del profitto nelle attività industriali mentre il successivo sviluppo delle attività finanziarie è servito all’imperialismo statunitense per compensare globalmente la caduta dei saggi di profitti e alimentare parassitariamente i processi d’accumulazione attraverso la produzione di capitale fittizio.
Lo sviluppo delle attività finanziarie non è stata una scelta del mondo della politica ma è stato determinato dall’operare delle contraddizioni nei processi d’accumulazione del capitale; chi dimentica o fa finta di dimenticare ciò lo fa o per ignoranza o perché in mala fede.
Trump probabilmente è ignorante ma i suoi consiglieri sono ovviamente in mala fede e dimenticano che nel mondo vagano milioni di miliardi di dollari di capitale fittizio al solo fine di accaparrarsi la propria quota di plusvalore e tale meccanismo può funzionare solo a patto che tale montagna cresca sempre. Un semplice dato numerico può aiutarci a comprende meglio l’attuale situazione in cui versa il capitalismo a livello globale: ad ogni dollaro di ricchezza reale che circola nei mercati internazionali corrisponde un valore pari a 10 mila dollari di ricchezza finanziaria.
In altri termini, su una base materiale di un solo dollaro è stata finora prodotta una massa di capitale fittizio pari a 10 mila dollari che, in quanto capitale, vuole essere comunque remunerato come qualsiasi altro capitale. Nello stesso tempo, però, alimenta la spinta alla creazione di altro capitale fittizio spostando in tal modo sempre di più nel futuro il pagamento dei debiti così creati. Se questo è il quadro generale in cui verso il capitalismo internazionale ed in particolare quello statunitense è evidente che i dazi di Trump potranno far poco per rilanciare l’industria americana e con essa i livelli occupazionali.
Le torri gemelle del debito americano
Uno dei principali cavalli di battaglia del programma elettorale di Trump è stato il piano straordinario di ammodernamento delle infrastrutture pubbliche che di fatto sono state letteralmente abbandonate negli ultimi decenni. Con l’ammodernamento delle decrepite infrastrutture statunitensi Trump ha previsto un piano d’investimenti decennale di oltre 1000 miliardi di dollari; tale piano dovrebbe, sempre nelle intenzioni di Trump, rilanciare l’occupazione e nello stesso tempo rendere ancor più competitiva l’economia americana. Quello che di sicuro determinerà, se si dovesse concretizzare nei fatti il programma d’investimenti pubblici nel settore delle infrastrutture, è l’aumento del debito pubblico con tutto ciò che ne consegue sul piano della ripresa delle spinte inflazionistiche interne. Non è proprio un caso che la Federal Reserve, dopo moltissimi mesi abbia in via preventiva iniziato ad alzare il tasso d’interesse, bloccando sul nascere focolai inflazionistici e nello stesso tempo alimentare l’afflusso di capitali dall’estero.
Attualmente il debito pubblico americano è in termini assoluti il più alto al mondo superando i 19 mila miliardi di dollari, pari al 105% del Pil. Se vengono sommati anche i debiti pubblici dei singoli stati e quello dei comuni, la percentuale sale al 120%. Soltanto dieci anni fa il debito pubblico americano era pari a “soli” 9 mila miliardi di dollari, pari al 65% del Pil. Tale crescita è stata determinata dal colossale pacchetto di sostegno varato a favore del sistema finanziario e bancario statunitense messo in crisi dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui sub-prime del 2007/2008.
Grazie al quantitative easing il bilancio della Federal Reserve è aumentato in questi ultimi 9 anni da 800 a 4500 miliardi di dollari. Se al debito pubblico si sommano i debiti delle imprese e delle famiglie l’intero debito statunitense arriva a sfiorare l’astronomica cifra di 70 mila miliardi di dollari. Una vera mina vagante che rischia di travolgere l’economia americana e con essa l’intero capitalismo internazionale.
Se il piano straordinario di ristrutturazione delle infrastrutture del paese avrà delle ripercussioni negative sul debito pubblico statunitense, potrebbe innescare un processo virtuoso nel favorire la ripresa economica della manifattura americana e con essa dell’occupazione? In realtà a beneficiare della spesa pubblica statunitense, almeno nel breve e medio periodo, saranno quelle economie industriali più aperte ai mercati internazionali e le cui merci sono più competitive. In altre parole è facile prevedere che un eventuale aumento della domanda di acciaio, determinato dalla ristrutturazione dei decrepiti viadotti delle autostrade americane, sarà soddisfatto dall’industria cinese anziché da quella americana, visto che gli Stati Uniti hanno di fatto abbandonato in questi ultimi decenni intere linee di produzione industriale. Per rimanere nell’esempio della produzione dell’acciaio, mentre la produzione cinese nel mese di ottobre 2016 è stata pari a 68 milioni di tonnellate, quella statunitense è stata solo di 6,4 milioni10.
Con questi numeri è evidente che un aumento di domanda di acciaio debba obbligatoriamente essere soddisfatta dal mercato estero, andando ad aggravare il già pesantissimo deficit commerciale statunitense. Nel mese di novembre 2016 il deficit della bilancia commerciale americana ha fatto registrare un saldo negativo record pari a 65,3 miliardi di dollari, in aumento rispetto al mese precedente del 5,5%.
Il paese che maggiormente esporta negli Stati Uniti è ovviamente la Cina che nel corso del 2015 ha realizzato un surplus nello scambio commerciale con gli Usa pari a 367 miliardi di dollari, e la tendenza per l’anno 2016 è ancora di un aumento del saldo attivo da parte cinese. Il surplus dell’Unione Europea, nello stesso periodo nei confronti degli Stati Uniti, è stato pari a 122,7 miliardi di dollari; di tale montagna di dollari quasi la metà appartiene alla Germania che hanno negli Usa il primo partner commerciale internazionale. Anche la malmessa economia italiana fa registrare con gli Stati Uniti un saldo commerciale attivo pari a 21,8 miliardi di dollari. Dal 1976 al 2015 il saldo negativo medio della bilancia commerciale americana è stato di circa 750 miliardi di dollari annui.
Solo la forza dell’imperialismo statunitense ha finora permesso la contemporanea presenza di un mostruoso debito pubblico con un saldo negativo della bilancia commerciale. Infatti in una situazione di “normale” funzionamento dell’economia di mercato un alto debito pubblico dovrebbe essere accompagnato da un saldo attivo della bilancia commerciale, al fine di attivare flussi finanziari necessari alla sottoscrizione dei titoli dello stesso debito pubblico.
Se gli Stati Uniti finora hanno potuto mantenere in piedi le due torri gemelle del debito pubblico e del deficit commerciale è dovuto alla propria forza imperialistica che ha consentito loro di ottenere dal resto del mondo la sottoscrizione dei titoli del debito e, con tali flussi finanziari, alimentare la domanda interna e di conseguenza anche il deficit commerciale. Le due torri gemelle rischiano di crollare e con esse anche il dominio statunitense sul mondo anche per la repentina riduzione del peso dell’economia americana nel contesto di quella mondiale. Mentre nell’immediato dopoguerra l’intera economia americana vale oltre il 50% del valore di quella mondiale, nel 2015 tale incidenza si è ridotta a poco più del 20%. Nello stesso arco temporale la Cina ha fatto un bel salto in avanti passando da pochi decimali di punto percentuale al 15,1%11. Il ridursi della forbice nei valori del peso delle due economie sta rapidamente cambiando anche il quadro nei rapporti imperialistici tra i due paesi, e l’ora in cui Pechino intende chiamare il conto da saldare a Washington sembra proprio dietro l’angolo.
I possibili scenari futuri
Non è proprio un caso che Trump abbia individuato nella Cina il vero antagonista nello scontro imperialistico e il principale obiettivo delle sue esternazioni elettorali ed abbia inserito nel suo programma tutta una serie di misure che dovrebbero, almeno nelle intenzioni, ostacolare l’ascesa cinese12. La Cina è il maggior creditore degli Stati Uniti, sia per quanto riguarda la bilancia commerciale che la sottoscrizione dei titoli del debito pubblico detenuti da investitori stranieri. Oltre il 30% dei titoli del debito pubblico statunitense è sottoscritto da investitori internazionali, e di questa quota la metà è in mano ad investitori giapponesi e cinesi. Cosa accadrebbe se la Cina decidesse di spostare i propri risparmi dal mercato statunitense verso altre aree monetarie? La prima conseguenza sarebbe ovviamente un repentino calo del corso del dollaro rispetto alle altre valute e un parallelo aumento dei tassi d’interesse dei titoli del debito pubblico statunitense; tutto ciò determinerebbe un aumento dei costi di gestione del debito pubblico e la sua insostenibilità nel corso degli anni a venire.
Vista l’enorme massa di capitali che ruotano intorno al debito pubblico statunitense la diversificazione degli investimenti da parte della Cina non può ovviamente avvenire in maniera repentina in quanto, con la svalutazione del dollaro, si andrebbero a svalutare anche i loro risparmi. Se ciò si dovesse verificare i cinesi subirebbero delle enormi perdite in termini reali, circostanza che di fatto obbliga il governo di Pechino ad azioni di diversificazioni ponderate, sapendo in ogni caso che nel medio e lungo periodo hanno il coltello dalla parte del manico potendo contare sul fatto di essere ormai diventata la vera fabbrica del mondo . Di ciò è ovviamente consapevole il governo cinese e negli ultimi mesi è iniziata una lenta ma costante opera di diversificazione dei propri investimenti verso aree monetarie diverse dal dollaro.
L’elezione di Trump è il frutto di questa nuova fase che si è aperta nell’ambito dei rapporti interimperialistici su scala globale in cui il dominio degli Stati Uniti è sempre di più messo in discussione da altri competitori globali. La crisi americana e l’inesorabile declino statunitense affondano le proprie radici nella sovraccumulazione di capitali che negli Usa, in quanto paese più avanzato al mondo, si è manifestato in maniera più massiccia.
La crisi da sovraccumulazione, originatasi proprio negli Usa, ha generato una perdita di potere relativo dell’economia statunitense a tutto vantaggio di altre aree come la Cina e nello stesso tempo ha aumentato la conflittualità tra le diverse aree economiche del globo. Con la crisi del 2007/2008 la conflittualità è aumentata in maniera esponenziale anche per il fatto che gli Stati Uniti, proprio a causa del loro ridimensionamento su scala globale, non riescono più a svolgere il tradizionale ruolo trainante per l’intera economia mondiale mediante le importazioni. Troppo bassa è stata negli ultimi anni la crescita economica degli Stati Uniti per essere ancora la locomotiva del mondo, ed è proprio in questo vuoto che s’inseriscono prepotentemente le istanze imperialistiche di potenze rivali che non sono più disposte a subire il dominio del dollaro e l’attuale distribuzione della rendita finanziaria globale. Tale rendita, proprio grazie al ruolo del dollaro nel contesto monetario internazionale, viene intascata principalmente dal capitalismo statunitense.
Il nuovo presidente americano dovrà quindi gestire una fase storica piene d’insidie in cui gli Stati Uniti avranno sempre più difficoltà nell’indirizzare a proprio vantaggio l’attuale ripartizione della rendita finanziaria. Quest’eventualità, neanche troppo remota viste le disastrose condizioni in cui versano molti settori dell’economia americana e le sempre più accese mire della concorrenza imperialistica, potrebbe aprire degli scenari interni agli Stati Uniti finora inimmaginabili, con l’emergere di posizioni politiche fortemente critiche rispetto all’attuale asseto costituzionale della federazione13. Non si tratta di prefigurare una nuova guerra di secessione come quella che insanguinò gli Stati Uniti tra il 1861 e 1865, ma osservare come l’eventuale ridimensionamento dell’imperialismo americano e conseguente impossibilità di garantirsi l’attuale rendita finanziaria potrebbe aprire la porta a pericolose istanze di svincolo rispetto allo stato federale americano. Questa ipotesi non sarebbe una novità nella storia del capitalismo (vedi quanto è accaduto nella federazione russa o in quella jugoslava alla fine del secolo scorso), ma se ciò si dovesse verificare nel cuore del capitalismo mondiale, ed in assenza di un’azione proletaria su scala internazionale che sappia porre all’ordine del giorno l’alternativa del comunismo, le conseguenze avrebbero una portata tale che rischierebbe di scaraventare nel baratro della barbarie l’intera umanità.
Note
1 Il dato è tratto dal libro di Michel Floquet “Triste America. il vero volto degli Stati Uniti” pubblicato in Italia da Neri Pozza – pagina 18
2 Ibidem – pagina 20
3 Ibidem – pagina 21 nella quale Floquet testualmente scrive “Nessuno più lo ignora dal 2012 e dalla candidatura alle presidenziali del miliardario mormone Mitt Rommey. Costretto dall’usanza tradizionale democratica americana di pubblicare le proprie dichiarazioni fiscali, Rommey confessò un tasso d’imposta del 15%, quando la sua segretaria veniva tassata più del 20%”.
4 Non riprendiamo in questa sede l’analisi sull’origine della crisi strutturale del capitalismo su scala internazionale, determinata dall’operare della legge sulla caduta del saggio medio di profitto, e rinviamo i lettori ai numerosi articoli apparsi negli ultimi anni su questa stessa rivista e al libro “La crisi del capitalismo. Il crollo di Wall Street” Edizioni Istituto Onorato Damen pubblicato nel 2009.
5 Vedi il libro di Andrew Spannaus “Perché vince Trump? La rivolta degli elettori e il futuro dell’America” Edizioni Mimesis. I dati sono tratti dal capitolo “Il terreno fertile della rivolta”.
6 Per approfondire l’impatto che hanno i robot sui livelli occupazionali si rinvia all’articolo “La rivoluzione la faranno i robot” di Antonio Noviello e Rosaria Nappa che appare su questo stesso numero della rivista.
7 Riportato nell’articolo di Federica Bianchi “Trump piange in cinese” apparso sull
’Espresso del 05/12/2016
8 Ibidem
9 Ibidem
10 Il dato sulla produzione di acciaio in Cina e negli Usa è preso dall’articolo di Domenico Moro “Trump, risposta alla crisi secolare e apertura della seconda fase della globalizzazione” pubblicato sul giornale online www.controlacrisi.org nel mese di novembre 2016.
11 Il dato è stato preso dall’articolo “L’America americana” pubblicato sulla rivista Limes L’agenda di Trump n.11/2016
12 Sull’ascesa dell’imperialismo cinese in questi ultimi anni si rinvia all’articolo
Un nuovo centro imperialistico si afferma in oriente“ di Carmelo Germanà che appare su questo stesso numero della rivista.
13 Interessate è la lettura dell’articolo “California padrona del suo destino” di J.O. Goldsborough apparso su Limes L’agenda di Trump n.11/2016 in cui si evidenziano i molti vantaggi che avrebbe la California se fosse uno stato indipendente dalla Federazione statunitense.