Guerra in Ucraina. L’America di Trump e la Russia di Putin trattano per dividersi il bottino escludendo i paesi europei

Categoria: Europa
Creato: 10 Marzo 2025 Ultima modifica: 10 Marzo 2025
Scritto da Lorenzo Procopio Visite: 171

Mentre parlano di volere la pace in Ucraina, il capitalismo prepara il terreno a nuove guerre di ben altra portata.

 

Siamo nel quarto anno della sanguinosa guerra imperialista in Ucraina, che ha prodotto milioni di sfollati fuori dai confini nazionali per sfuggire alla furia del conflitto, centinaia di migliaia di morti e feriti e che ha di fatto trasformato il paese in un cumulo di macerie. Secondo gli ultimi dati forniti da varie organizzazioni internazionali la popolazione ucraina si è ridotta in questi anni di conflitto di oltre 10 milioni di persone, scappate nei paesi occidentali limitrofi per sottrarsi alla violenza di una guerra che, come tutte le guerre degli ultimi due secoli, è una guerra che trae le proprie origini dalle profonde contraddizioni in cui si dimena il capitalismo a livello mondiale. Vi è un unico responsabile nel conflitto ucraino ed è il capitalismo che pur di imporre la legge del profitto scatena guerre sull’intero pianeta ed impone a miliardi di proletari condizioni di vita e di lavoro sempre più disumane. Come abbiamo scritto nel nostro quaderno “Alle radici della guerra in Ucraina” il conflitto iniziato il 24 febbraio 2022 è soltanto un capitolo della guerra imperialista permanente che ormai da decenni imperversa ai quattro angoli del mondo¹.

Anche in questo teatro degli orrori la propaganda della classe dominante ha cercato costantemente di occultare le vere ragioni del conflitto. Se da un lato la borghesia russa giustifica la guerra come un atto dovuto per de-nazificare l’Ucraina, porre fine ai continui attacchi subiti dalle popolazioni russofone residenti in Donbass e non ultimo contenere l’avanzata verso i propri confini della Nato, il cosiddetto fronte occidentale, guidato dagli Stati Uniti e dalla stragrande maggioranza dei paesi europei, ha sostenuto militarmente e finanziariamente l’Ucraina in nome della libertà e della democrazia contro l’aggressore russo del tiranno Putin. Un sostegno finora concepito come un atto dovuto per contenere l’espansionismo putiniano e difendere la democrazia e la libertà dalle minacce imperiali russe. Quante volte abbiamo ascoltato o letto i pennivendoli occidentali del capitale sostenere il principio che se si lascia campo libero all’aggressione russa in Ucraina oggi, domani i soldati russi potremmo trovarceli sotto casa a Berlino Roma o Parigi; pertanto il sostegno all’Ucraina, per loro signori, ha il significato di difendere anche la nostra libertà e democrazia. È stata così violenta tale campagna ideologica che le poche voci discordanti, che denunciavano il pericolo di un allargamento del conflitto a causa dell’invio di armi in Ucraina, sono state violentemente zittite ed accusate di essere contro la libertà e la democrazia. È stata così forte la campagna di sostegno all’ex comico Zelensky che il solo porre in dubbio le ragioni della difesa militare dell’Ucraina per essere additati come agenti putiniani operanti nel cuore dell’occidente. In realtà entrambe le posizioni sono la plastica espressione degli interessi della borghesia e in quanto tali non si peritano di analizzare le vere ragioni del conflitto che sono tutte interne alle contraddizioni del modo di produzione capitalistico.

La svolta americana

La storia ci insegna che le contraddizioni del capitalismo scavano nel profondo delle strutture sociali, alimentando spinte centrifughe che possono di colpo determinare dei cambiamenti repentini in quelli che fino a non molto tempo prima apparivano in superficie come fronti compatti. Ed è proprio questo che è accaduto in queste ultime settimane tra gli Stati Uniti guidati dal Tycoon Trump e i paesi europei. Già in campagna elettorale il candidato presidente repubblicano aveva promesso che una delle sue priorità sarebbe stata quella di porre fine al conflitto in Ucraina, ed in quel momento nessun leader europeo si era preoccupato del cambiamento che si profilava all’orizzonte in quanto si pensava che il processo che doveva portare ad un cessate il fuoco e a una pace duratura sarebbe stato inevitabilmente condiviso da tutti i paesi del fronte occidentale. Niente di può sbagliato. Per l’America di Trump il leader russo Putin non è più il nemico da distruggere per consolidare nel mondo la democrazia, ma sta sempre di più assumendo il ruolo di serio interlocutore con cui dettare le regole del gioco che dovranno portare alla fine del conflitto. Nello stesso tempo Zelensky si è trasformato, sempre per il Trump pensiero, in un “dittatore senza consenso ed in un comico mediocre” e che dovrà rimborsare gli Usa di 500 miliardi di dollari per il sostegno ricevuto dal suo paese in questi ultimi 10 anni (dal 2014 in poi), ipotecando di fatto le attività estrattive dell’Ucraina per molti decenni.

L’Europa al bivio

In questo capovolgimento di 180 gradi da parte dell’amministrazione Trump rispetto a quella guidata dal democratico Biden i paesi dell’Unione Europea sono rimasti a dir poco sorpresi e sbigottiti e in questa primissima nuova fase marciano a vista ed in ordine sparso. Chiamati a raccolta prima a Parigi dal novello Napoleone, alias Macron, per fronteggiare la nuova situazione determinata dalle prese di posizione dell’amministrazione Trump, i più importanti paesi europei non sono stati in grado neanche di fare un comunicato finale congiunto, decidendo di affidare sempre a Macron e al britannico Starmer l’incarico di andare alla corte di Trump per portarlo a più miti consigli. Subito dopo la clamorosa cacciata dalla Casa Bianca di Zelensky da parte di Trump e dei suoi più stretti collaboratori, accusato non solo di non volere la pace e di non sottoscrivere l’accordo per lo sfruttamento delle risorse minerarie ucraine da parte degli Usa ma anche di rappresentare un vero pericolo per lo scoppio di una terza guerra mondiale, è stata la volta del leader britannico a convocare a Londra un vertice con il presidente ucraino, i principali paesi europei, Turchia e Canada. Anche in quest’ultimo vertice si è inevitabilmente registrato un nulla di fatto, e ogni partecipante ha rilasciato le classiche dichiarazioni di rito in contrasto con quelle degli altri. La stessa Von der Leyen, in forte difficoltà come il resto dei partecipanti, ha annunciato solo dopo qualche giorno un piano di investimenti per la difesa europea per un ammontare di 800 miliardi di euro. Il Rearme Europe, presentato in pompa magma all’ultimo Consiglio europeo lo scorso 6 marzo, prevede un finanziamento di 650 miliardi di euro in deroga al patto di stabilità per consentire l’uso dei finanziamenti pubblici e della difesa a livello nazionale, con l’aggiunta di altri 150 miliardi di euro in prestiti da utilizzare per la difesa aerea e missilistica, i sistemi di artiglieria, i missili e le munizioni, i droni e i sistemi anti-drone. Questo piano di 800 miliardi di euro in realtà rischia di alimentare ulteriormente le divisioni all’interno dell’Unione europea in quanto non sono risorse destinate a costruire una difesa comune, ma saranno i singoli stati nazionali a spendere risorse senza che esse siano conteggiate nel patto di stabilità. La conseguenza è che per alcuni paesi tale opportunità, a causa di un debito e deficit pubblico disastrosi (vedi l’Italia), non si potrà concretizzare in un rilancio del proprio apparato militare, mentre altri paesi, con conti pubblici migliori (vedi Francia e Germania) sfrutteranno tale opportunità per aumentare il proprio peso militare nel panorama continentale ed accentuando di conseguenze le differenze tra i singoli paesi. Questa enorme massa di capitali messi a disposizione dall’Unione europea lascia però irrisolto il problema fondamentale, ossia come e da chi sarà comandato il costruendo arsenale. Non bastano i finanziamenti per costruire una difesa comune, senza aver a monte risolto il problema fondamentale dell’Unione Europea che è quello della sua unità politica e di conseguenza militare. E i problemi per l’Unione Europea non sono finiti qui, perché all’orizzonte si stanno per materializzare i tanto minacciati dazi doganali del 25% che gli Stati Uniti hanno deciso di imporre anche alle merci provenienti dal vecchio continente. Ed è facile immaginare come per le economie di Germania ed Italia, quelle più orientate all’esportazione del vecchio continente e già in ambasce a causa di una congiuntura che fa intravedere i primi segnali di difficoltà, tali dazi possano innescare delle spinte recessive scaraventando l’intera economia europea nel vortice di una gravissima crisi economica.

Le ragioni della svolta trumpiana e le difficoltà europee

Per non cadere vittima di una visione soggettivistica dei processi in atto, utilizzando correttamente lo strumento d’indagine del materialismo storico che ci ha lasciato in eredità Marx, è importante sottolineare anche in questa occasione come la nuova linea politica ed economica tracciata da Trump non è il frutto di un colpo di testa, anche se il personaggio potrebbe farlo pensare, ma è determinata da una situazione economica e sociale interna a dir poco spaventosa con un debito pubblico fuori controllo e un deficit commerciale che cresce a dismisura ogni mese. La stessa competitività dell’industria americana è indietro rispetto alla concorrenza cinese o dei paesi del vecchio continente e certamente non basteranno i tanto minacciati dazi doganali a rilanciare nel breve e medio periodo la produzione economica degli Usa. Solo partendo da questa situazione interna catastrofica si possono interpretare le scelte di Trump di imporre dazi al resto del mondo ed avviare quella che si prospetta essere come una vera e propria spartizione dell’Ucraina con il vecchio nemico russo².

È evidente che la svolta di Trump, il riallacciare un rapporto diretto con la Russia, apre nuovi scenari nei rapporti imperialistici su scala globale che mettono i paesi europei nella difficile posizione di dover fare delle scelte radicali nel processo di unificazione politica e di conseguenza militare. La fase che si è aperta in queste ultime settimane mette i paesi dell’Unione Europea di fronte a sfide epocali, che potrebbero da un lato accelerare il processo d’integrazione politica, ma nello stesso tempo innescare dei processi di disgregazione tali da far collassare la stessa Unione. Quello che possiamo osservare in questi primi momenti di svolta e che gli stati dell’UE si sono mossi in ordine sparso e come singoli stati nazionali, tanto che ai due incontri di Parigi e Londra non hanno partecipato tutti i 27 paesi dell’Unione europea, ma soltanto quelli con il maggior peso economico e politico. L’attuale architettura politica dell’Unione europea, con in particolare il diritto di veto che ogni singolo stato può imporre nelle scelte strategiche, mal si concilia con la necessità di costruire una vera unità politica e militare nel vecchio continente, da qui le difficoltà per la borghesia europea di assumere un ruolo di primo piano nel panorama imperialistico globale. Attualmente la vecchia Europa somiglia sempre di più ad un grosso vaso di coccio tra altrettanto grandi vasi di ferro, e come nelle vecchie favole basta un piccolo urto affinché il vaso di coccio possa andare letteralmente in frantumi.

Se nel breve periodo l’apertura di Trump alla Russia porterebbe alla spartizione dell’Ucraina, lasciando ai russi le regioni militarmente conquistate e agli americani lo sfruttamento delle risorse minerarie e il grosso delle commesse per la ricostruzione del paese, nel medio e lungo periodo si profila all’orizzonte anche il problema del rapporto tra riarmo dei paesi europei e la stessa sopravvivenza della Nato. Gli Stati Uniti di Trump hanno iniziato di fatto a sfilarsi dalle varie organizzazioni internazionali, nel tentativo di contenere la voragine del debito pubblico, ed in questo processo non è difficile ipotizzare che la stessa Nato possa essere da loro abbandonata aprendo ancor di più la strada verso il riarmo dei paesi dell’Europa occidentale. E se nell’immediato gli Stati Uniti guardano di buon occhio l’aumento delle spese militari nel vecchio continente, non è difficile immagine come tutto questo nel medio e lungo periodo, soprattutto se dovesse affermarsi la spinta verso l’integrazione politica e militare dell’Unione europea, possa rappresentare un serio problema per il dominio statunitense sul mondo.

Dopo la svolta di Trump per la martoriata Ucraina si apre un barlume di speranza per far cessare il rumore delle armi. I due maggiori contendenti, russi e americani, dopo aver di fatto distrutto il paese, grazie alla connivenza della borghesia ucraina, si apprestano a spartirsi il bottino di guerra lasciando a bocca asciutta gli avvoltoi del vecchio continente. E mentre si parla di pace in Ucraina, l’accumularsi delle contraddizioni del capitalismo su scala mondiale prepara il terreno a guerre di ben altra portata che rischiano di scaraventare l’intera umanità nella barbarie. È questo il futuro che ci riserva il capitalismo, a noi proletari il compito di seppellirlo per evitare di essere seppelliti.

 

[1] Il quaderno dell’Istituto Onorato Damen dedicato alla guerra in Ucraina è disponibile gratuitamente al seguente indirizzo https://www.istitutoonoratodamen.it/images/immagini/I_quaderno.pdf

[2] Su questi aspetti della situazione americana si rinvia a quanto scrive Giorgio Paolucci nell’articolo “Le minacce di Trump: prova di forza o di grande fragilità?” disponibile al seguente link https://www.istitutoonoratodamen.it/index.php/internazionale/56-americhe/611-le-minacce-di-trump-prova-di-forza-o-di-grande-fragilita