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La teoria della comunizzazione non vuole essere uno strumento programmatico al servizio della lotta di classe allo scopo di instaurare il comunismo. Il comunismo non lo costruisce il proletariato dopo la rivoluzione, tanto meno è necessario un partito che lo guidi. Sono gli individui nel corso delle stesse lotte contro il capitale che matureranno l'insostenibilità dell'azione rivendicativa, e decideranno di rompere le catene che li lega al sistema per intraprendere misure comunizzatrici. Pur riconoscendo valida la critica dell'economia politica di Marx, le argomentazioni proposte per il superamento del capitalismo si rivelano di un disarmante semplicismo che si dissolve nelle fitte nebbie dell'idealismo.
Non è semplice spiegare il significato preciso del termine comunizzazione, una concezione dello sviluppo della lotta di classe che indicherebbe, secondo i fautori di questo punto di vista, la strada per il comunismo. Essi dichiarano superate le tradizionali teorie legate, in qualche modo, alla esperienza della Terza Internazionale e che, sempre in nome del comunismo, alla prova dei fatti sono approdate disastrosamente da tutt'altra parte. I sostenitori della comunizzazione non hanno una dottrina pronta da offrire a coloro che vogliono battersi per una società senza classi perché, secondo loro, il comunismo non è un programma da affermare e neppure un cammino preventivamente indicato da intraprendere.
Essi non sono portatori di nessun programma politico, conseguentemente non intendono neppure costruire una forza organizzata o un partito la cui finalità sia quella di condurre e indirizzare il proletariato verso la rivoluzione comunista. Anzi, ritengono che più che di proletariato si dovrebbe parlare di individui appartenenti alla comunità umana che in un determinato momento dovrebbero liberare se stessi dalle catene del capitale, in una dinamica che si espanderebbe a macchia d'olio a livello mondiale. Per i comunizzatori il superamento del capitalismo avverrà per tappe successive. I lavoratori, la piccola borghesia declassata, i giovani emarginati, in una parola i senza riserve, cioè la stragrande maggioranza della società impoverita dalla dinamica della crisi capitalistica, dovrà sbattere contro il muro del rivendicazionismo. Una volta compreso che le proprie richieste rimarranno disattese, gli individui lotteranno senza più rivendicare nulla ma per aprirsi la strada che permetterà loro di comunizzare e di trasformare il mondo. Come questo possa avvenire tenteremo di comprenderlo citando direttamente le fonti, composte prevalentemente da alcune personalità e raggruppamenti facenti riferimento a diverse pubblicazioni.
Nessuna transizione ma immediatezza del comunismo
Va subito sottolineata la mancanza di un compiuto corpo teorico di riferimento e la presenza di posizioni differenziate tra i vari interpreti della comunizzazione che hanno in comune alcuni principi di base. Uno di questi è l'immediatezza del comunismo, del superamento del capitalismo e di tutte le sue categorie come il valore di scambio, il lavoro salariato, il capitale, il denaro, etc., attraverso misure che dovrebbero essere attuate nel processo stesso della comunizzazione e non dopo la rivoluzione. Anzi, la comunizzazione sarebbe la rivoluzione comunista in atto. E' nello svolgimento tangibile delle lotte che si compierebbe l'auto trasformazione individuale e conseguentemente l'abolizione del capitale, delle classi, dello Stato e della proprietà. Contrariamente a quanto prevede la dottrina rivoluzionaria classica, e anche il buon senso, per la concezione comunizzatrice il proletariato non deve ergersi a classe dominante dopo la rivoluzione per avviare successivamente l'edificazione del comunismo, e quindi non ci deve essere nessun periodo di transizione. Sarebbe la rivoluzione in atto, nel suo immediato svolgimento, con gli incalzanti bisogni scaturenti dalla crescente crisi del modo di produzione capitalistico che spingerebbe spontaneamente le persone verso misure comunizzatrici: “Non si può fare una rivoluzione senza mettere in atto delle misure comuniste, senza dissolvere il lavoro salariato e comunizzare l'alimentazione, l'abbigliamento e l'alloggio, senza procurarsi tutte le armi necessarie (quelle distruttrici, ma anche le telecomunicazioni, il cibo etc.), senza integrare i senza riserve, i disoccupati, i contadini in rovina, gli studenti squattrinati e senza legami... La dittatura del movimento sociale di comunizzazione è il processo d'integrazione dell'umanità nel proletariato sul punto di scomparire.”1
Come si vede, il processo rivoluzionario condurrebbe allo stesso tempo l'umanità a integrarsi nel proletariato, proprio mentre quest'ultimo sarebbe in procinto di scomparire, di auto estinguersi. Non si capisce allora cosa rimarrebbe in questo gioco di reciproco annullamento. Immaginiamo che il giro di parole volesse significare che sparirebbero le classi sociali. Allora quali sarebbero le misure comuniste una volta abolito il lavoro salariato? Comunizzare, si dice nella citazione, l'alimentazione, l'abbigliamento, l'alloggio, etc. Ma cosa vuol dire? Ecco come ci viene spiegato: “La distruzione dello scambio sono operai che attaccano le banche dove hanno depositati i loro risparmi, e altri operai che sono così costretti a cavarsela facendone a meno; sono i lavoratori che si trasmettono e trasmettono alla comunità le loro attività direttamente e senza mercato; sono i senza casa che occupano gli alloggi, obbligando così a produrre gratuitamente gli operai edili, i quali attingeranno liberamente dai magazzini, forzando la classe intera a organizzarsi per andare a procurarsi il cibo presso i settori ancora da collettivizzare etc.”2
Perciò, questo spontaneo processo di comunizzazione dovrebbe cambiare il mondo, eliminare il capitalismo e praticare immediatamente il comunismo. Dunque, quando si va al cuore del problema non si può non rilevare la superficialità del ragionamento e il linguaggio astruso, ancora più insignificante se preso alla lettera. Le citazioni sopra riportate sono tratte da “Meeting, Revue Internationale Pour la Communisation, n. 3, giugno 2006”, nella quale si fa una disamina dei cambiamenti avvenuti nel rapporto tra capitale e lavoro, cioè delle novità intervenute nella dinamica dello sfruttamento seguite alla ristrutturazione capitalistica degli anni '70. Nello scritto si dice che le conseguenze sono state il ridimensionamento delle grandi concentrazioni industriali, la fine dell'identità operaia, dei partiti comunisti e dei sindacati, fino all'esaurimento, a seguito della sconfitta, di tutto l'armamentario delle lotte e delle rivendicazioni sostenute e ritenute attuabili nell'ambito del sistema capitalista dalle forze della sinistra extraparlamentare.
Implicitamente i comunizzatori vorrebbero far passare l'idea che quelle forze e i loro obiettivi quali l'autogestione, l'autorganizzazione, la presunta autonomia della classe operaia, fossero portatrici della rivoluzione comunista. Al contrario, i gruppi e gruppettini di allora erano tutt'altra cosa, ovvero forze annoverabili nel campo riformista e non certo rivoluzionario.
Invece cosa si dovrebbe fare per i comunizzatori?: “Il proletariato si organizza ma non si autorganizza, in quanto il motore di questa autotrasformazione è prima di tutto la produzione di ciò che esso è come una costrizione esteriore: la sua ragione d'essere fuori di sé. Quando nel corso della lotta, il proletariato è costretto a rimettere in causa ciò che è, allora non c'è più autorganizzazione, poiché il corso della lotta non conferma più alcun soggetto preesistente tale quale sarebbe fuori dalla lotta.”3
Ancora una volta siamo di fronte a un vuoto gioco di parole. L'essere proletario sarebbe una costrizione esteriore, una specie di camicia di forza dalla quale ci si dovrebbe liberare nel corso della lotta. Il soggetto, negando se stesso in quanto proletario, metterebbe in atto una specie di metamorfosi trasformandosi in qualcos'altro di non ben specificato. E' doverosa un'obiezione: essere proletari è una condizione sociale e non una costrizione esteriore ovvero significa essere la classe fruttata dal capitale. Certamente quando i proletari entrano nei meccanismi produttivi diventano capitale variabile, sono parte del capitale complessivo e vengono utilizzati unicamente allo scopo di valorizzarlo. Ma questi proletari sono uomini in carne e ossa, hanno una coscienza e un cervello, anche se subiscono il pesante condizionamento della società borghese. Così è sempre stato per le classi subalterne. Negare l'intervento cosciente degli sfruttati quale potenziale antitesi e superamento della società presente costringe i comunizzatori a cercare espedienti che non porteranno a nulla perché non esistono surrogati alla lotta di classe contro il capitale.
Lo stesso vale per le lotte intraprese dagli individui, è impensabile che esse possano portare automaticamente al comunismo senza che nella società si siano create le condizioni oggettive da una parte, la crisi del capitale, e quelle soggettive dall'altra che vedano i proletari consapevoli di farla finita con questo sistema. Inutile dire della stretta relazione che deve intercorrere tra classe e partito; senza la presenza di quest'ultimo non si va da nessuna parte, esso è l'avanguardia della classe, la cui funzione di guida è necessaria per realizzare il comunismo. Naturalmente tutto questo suscita ilarità nei comunizzatori. Avendo mal digerito le cause del fallimento della rivoluzione in Russia nel 1917, addossano le responsabilità della sconfitta quasi unicamente al partito bolscevico e soprattutto a Lenin.
Quindi per i comunizzatori non ci sarebbe bisogno né di partito, né di programma perché sarebbero le lotte stesse che produrrebbero spontaneamente le risposte e le soluzioni. La tendenza di fondo delle lotte di qualche importanza, essi affermano, è la creazione di collettivi che segnano una distanza dalla classe operaia e dalle sue forme organizzative precedenti come l'autorganizzazione o l'autonomia: “I nostalgici del Gran Partito e dell'unità dei grandi battaglioni della classe operaia, si cullano nell'illusione che questa segmentazione sia subita; essa è più spesso voluta, costruita e rivendicata. La natura della segmentazione e dei collettivi, è – all'interno della lotta di classe – un'attività di estraneazione del proletariato in rapporto alla sua propria definizione come classe. Come potrà costruirsi, in un movimento generale di lotta di classe, una unità che non sia un'unità, ma un'interattività? Dobbiamo ammettere come estremamente positivo il fatto che le caratteristiche del nuovo ciclo di lotte non siano, per noi, già date, se non in proporzione alla lotta quotidiana ordinaria.”4
Ci sarebbe da chiedere ai comunizzatori dov'è il nuovo ciclo di lotte che hanno creato i collettivi citati? E se questi collettivi sono mai esistiti che fine hanno fatto, cosa hanno prodotto in questi anni? Assolutamente niente diciamo noi perché la lotta di classe negli ultimi decenni la sta facendo prevalentemente la borghesia contro il proletariato e malgrado l'aggravarsi e il protrarsi della crisi dopo il 2008 non abbiamo assistito a nessun tramonto del capitalismo. Anzi, il controllo della società si è fatto ancora più pervasivo e totalizzante da parte del potere borghese. In sostanza, malgrado le esplosive contraddizioni che il modo di produzione capitalistico mette in essere, oggi ancor più di ieri, da ciò non se ne può assolutamente dedurre, come sostengono i comunizzatori, che automaticamente si innesteranno meccanismi di auto esaurimento per moto proprio delle forze in campo: “L'attuale ciclo di lotte annuncia che il momento estremo della lotta rivendicativa può essere definito come quello in cui la contraddizione tra proletariato e capitale si tende a tal punto, che la definizione di classe diventa una costrizione esteriore, un'esteriorità che esiste semplicemente perché esiste il capitale. L'appartenenza di classe viene esteriorizzata come costrizione. Ecco il salto qualitativo nella lotta di classe. E' qui che c'è superamento e non transcrescenza. E' qui che si può passare da un cambiamento nel sistema ad un cambiamento di sistema.”5
Il fantasioso assioma, esaurimento della lotta rivendicativa uguale negazione di sé del proletariato e implosione del rapporto capitalistico e conseguente fuoriuscita dal sistema, si basa su affermazioni che non hanno nessuna solida base analitica e nessun riscontro nella realtà dei fatti. La distinzione tra il passare da una condizione di cambiamento nel sistema a una condizione di cambiamento del sistema, come viene affermato nella citazione e come si evince dal contenuto del testo da cui è tratta, fa riferimento al fallimento della rivoluzione russa. I comunizzatori indicano le cause del fallimento di quella esperienza nel fatto che il partito bolscevico avrebbe voluto costruire il comunismo non liquidando il capitalismo per un cambiamento di sistema, ma al contrario si sarebbe adoperato per trasformare dall'interno i perduranti e non aboliti rapporti economici borghesi, quindi credendo di poter affermare il comunismo attraverso un cambiamento nel sistema precedente. Come dire che la rivoluzione russa non ruppe il quadro borghese esistente, ma cercò semplicemente di trasformarlo. Questo significa attribuire alle intenzioni e alle azioni dei comunisti rivoluzionari e dei proletari che hanno tentato storicamente di superare realmente il modo di produzione capitalistico una valenza riformista, vale a dire l'esatto contrario del loro intendimento e delle loro aspirazioni. Niente di più falso, nei protagonisti la coscienza del fine era chiaro, ma la loro volontà si scontrò con le circostanze materiali avverse che si determinarono, innanzi tutto l'isolamento internazionale. Noi, oggi, dobbiamo fare tesoro degli eventi del '17, pur non sottovalutando gli errori commessi dal partito bolscevico.
Ma se per i comunizzatori il comunismo è la rivoluzione in atto, ci chiediamo cosa essi intendano per comunismo. Tra le varie ipotesi avanzate dai comunizzatori vi è la seguente: “Nel comunismo non c'è più appropriazione, poiché è la nozione stessa di prodotto a essere abolita... Parlare di prodotto è presupporre che un risultato dell'attività umana appaia come in sé concluso di contro a un altro risultato o a un ambiente di altri risultati. Non è dal prodotto che bisogna partire, ma dall'attività. Nel comunismo l'attività umana è infinita poiché non è segmentabile. Ha dei risultati concreti o astratti, ma questi risultati non sono mai dei prodotti per i quali si porrebbe la questione della loro appropriazione o della loro cessione in una modalità qualsivoglia. Questa attività umana infinita sintetizza ciò che si può dire del comunismo.”6
Il comunismo, dunque, sarebbe l'attività umana infinita, mentre il prodotto una nozione da abolire. Ne deriva da questo ragionamento che gli individui della società comunista sarebbero impegnati in qualsivoglia attività a loro piacimento. Se queste attività hanno una qualche utilità per la collettività, non avrebbe nessuna importanza per i comunizzatori. Ciò che conta è l'attività per l'attività, non segmentabile per giunta. Per loro il prodotto è una nozione e non un risultato pratico, una relazione sociale di cooperazione di tutti per il soddisfacimento dei bisogni. Si tratta di argomenti di cui non c'è traccia nelle loro parole e di conseguenza siamo costretti a dedurre il loro pensiero da quel poco che dicono su questo tema. Dietro le argomentazioni dei comunizzatori si nasconde la preoccupazione che il prodotto possa essere ceduto o possa essere appropriato da qualcuno, e di conseguenza, deduciamo noi, il timore che tutto ricominci come prima, che il capitalismo ritorni sotto false sembianze. Noi crediamo che il successo o meno di una ipotetica rivoluzione comunista non dipenda da queste sciocchezze. Una cosa però è certa, quanto menzionato nel passo non è una sintesi di ciò che si possa dire del comunismo, come pomposamente viene affermato. Al contrario, pensiamo che qui si sia distanti anni luce da Marx e da quanto di meglio ha prodotto il movimento comunista rivoluzionario. Vedremo di seguito altre tendenze dichiarare esplicitamente Marx superato; altre ancora spiegarci cosa si debba fare praticamente per attuare il comunismo, proposte, anticipiamo, ancora più fantasiose e prive di fondamento di quanto abbiamo visto sino ad ora.
L'inadeguatezza di Marx oggi
Un altro orientamento che si ispira alla teoria della comunizzazione mette in primo piano le condizioni preliminari per poter definire la società comunista: l'abolizione della forma-valore e del capitale, quindi la soppressione del processo di accumulazione e del lavoro salariato. Tutto questo sarebbe attuato dalla comunizzazione immediatamente, nel senso, ovviamente, che il processo giungerebbe a pieno compimento in un determinato arco di tempo. Il proletariato non dovrebbe porsi la questione del potere per creare una “repubblica del lavoro”, nel senso del tradizionale concetto di conquista del potere. Al contrario, dovrebbe eliminare se stesso abolendo il lavoro salariato, fonte del lavoro astratto e del valore. Per raggiungere questi obiettivi sono banditi, come al solito, il programma e il partito. Per questa tendenza di comunizzatori lo stesso Marx è superato perché il capitalismo è cambiato: “Il cammino verso una teoria della comunizzazione nella quale il valore e il proletariato vengono aboliti è iniziata con la critica del programma di Gotha (1875) di Marx,... nella quale Marx ha delineato per la prima volta la sua concezione di uno stadio più avanzato e meno avanzato del comunismo. La comunizzazione allora, intesa come abolizione della forma-valore, sarebbe preceduta da uno stadio post-capitalista nel quale la legge del valore regolerà ancora produzione e consumo. Per quanto radicale, agli occhi di molti socialisti la ricetta di Marx è stata scritta nel 1875, mentre oggi, in un mondo capitalista dove la riproduzione del proletariato è minacciata dai rapporti sociali capitalisti, e dalla stessa esistenza della forma-valore, una visione del genere è completamente inadeguata.”7
Quest'ultima affermazione è singolare: se il proletariato fosse minacciato dal capitalismo sino a rischiare la sua stessa esistenza, avremmo il paradosso di un capitalismo senza proletariato, ovvero di un capitalismo impraticabile. Viceversa se tale possibilità fosse verosimile ci troveremmo di fronte a un capitalismo che si estinguerebbe da solo per moto proprio, che le classi scomparirebbero e che la strada verso il comunismo sarebbe spalancata. In definitiva, non dovremo fare altro che attendere, perché tutto si compirebbe spontaneamente e ineluttabilmente. Le cose non stanno così, sebbene il capitalismo odierno sia molto più globalizzato di quanto non fosse ai tempi di Marx. Proprio per questo oggi esisterebbero potenzialmente le condizioni favorevoli per attuare il comunismo a scala mondiale, ma è altrettanto vero che i rapporti di forza tra borghesia e proletariato non sono mai stati così favorevoli alla borghesia. La lotta fra le classi, lungi dall'essere scomparsa, è di una evidenza lampante in questa fase storica, vede all'attacco la classe borghese mentre il proletariato è palesemente sconfitto, colpito costantemente nelle sue condizioni di vita. Pensare di andare oltre l'attuale società attraverso individui che trasformano se stessi e il mondo, resi coscienti spontaneamente dalle lotte che indicherebbero loro il cammino da compiere, è una cosa che non sta né in cielo né in terra. Inoltre, considerare che 7 miliardi di abitanti di questo pianeta possano riprodurre le condizioni della loro esistenza in modo casuale, disorganico, senza un piano che razionalizzi le risorse disponibili e senza progetti chiari e definiti per il loro futuro, significa essere più vicini alle fantasticherie dell'anarchismo che ad una seria prospettiva comunista.
L'inconsistenza teorica e pratica dei sostenitori della comunizzazione viene ammessa, almeno in riferimento agli anni settanta e ottanta, anche da uno dei suoi esponenti più importanti, il quale afferma: “Non soltanto la comunizzazione si è mostrata poco incisiva sul piano sociale, ma non è riuscita di fatto a darsi una formalizzazione e ad approdare a delle espressioni se non coerenti, quantomeno convergenti... Così, appena venuta alla luce, l'intuizione della rivoluzione come comunizzazione si è subito sbriciolata. Il comunismo rimane un'astrazione dogmatica. Il punto di rottura possibile nella continuità del capitalismo contemporaneo (il luogo, le forme d'organizzazione, i metodi, etc.) non si manifesta né nella pratica né nella teoria.”8
L'autore di queste parole non poteva essere più eloquente anche se egli continua a perseverare nell'idea da lui stesso criticata dato che individua i problemi nei limiti soggettivi dei componenti le diverse anime della dottrina della comunizzazione, quando invece si tratterebbe di individuare le carenze nei presupposti metodologici della stessa teoria.
L'impossibilità di comprendere il concetto di comunizzazione
Nella stessa direttrice va un altro esponente di lungo corso e di primo piano della teoria della comunizzazione come Gilles Dauvé. Egli in un lontano scritto del 1972 intitolato “Capitalismo e Comunismo” firmato col suo solito pseudonimo Jean Barrot, nella prima parte del testo fa un'ottima disamina dello sviluppo del capitalismo, delle sue leggi e delle dinamiche di crisi che si innescano immancabilmente. Quando si giunge alla questione sociale, al problema di come superare il capitalismo, tutto cambia; al rigore precedente dell'analisi si sostituiscono sconcertanti affermazioni inerenti i nuovi sviluppi della lotta di classe. Pur restando il proletariato come classe sociale, la rivoluzione come primo atto della negazione di questa società, nel suo scritto cominciano a presentarsi enunciati a dir poco equivoci: “Il proletariato è un rapporto storico. Esso è in permanenza la distruzione del vecchio mondo allo stato potenziale, e passa allo stato attuale soltanto in un momento di tensione sociale, costretto dal capitale a diventare l'oggetto del comunismo. Il proletariato diviene sovversione della società costituita solo al momento in cui si unifica, in cui si costituisce in classe e si organizza, non per farsi classe dominante come a suo tempo la borghesia, ma per distruggere la società di classe: non vi è più allora che un solo agente sociale, l'umanità.”9
Ancora una volta dobbiamo ribadire che il proletariato non è un rapporto storico ma una classe sociale, è la parte maggioritaria della società sfruttata. Inoltre che non diventa oggetto del comunismo, che non è a questo costretta dal capitale secondo l'aberrante concezione ribadita con l'affermazione che si legge più avanti: “la rivoluzione comunista è un meccanismo che il proletariato mette in moto senza sapere di farlo”. Semmai, secondo noi, il proletariato diventerebbe il soggetto dell'azione rivoluzionaria qualora prendesse coscienza della necessità di distruggere la società di classe. Tutta la proposizione, sia nel contenuto che nel linguaggio, denota uno sviluppo meccanicistico di causa ed effetto degli eventi, come se si trattasse degli ingranaggi di un orologio svizzero. Leggendo Dauvé, si ha la sensazione del muoversi di marionette prive di coscienza al posto degli uomini, sottoposte a un divenire storico in cui tutto avviene spontaneamente e meccanicamente. Salvo nel finale in cui, cacciato finalmente il capitalismo, la redenzione trionferà sulla terra e l'“umanità” sarà l'unico agente sociale quale risultato del processo rivoluzionario. Il rifiuto del partito e del programma per il comunismo, il respingere il ruolo della coscienza collettiva trasformatrice, in una parola il disconoscere il ruolo fondamentale della dittatura del proletariato finisce, non a caso, per condurre a questo inconsistente idealismo.
In uno scritto successivo Dauvé sintetizza il suo pensiero dopo avere fatto una disamina su pregi e difetti di quelle che considera le tre principali correnti storiche del comunismo europeo, la Sinistra comunista tedesca, la Sinistra comunista italiana e l'Internazionale Situazionista. Secondo lui, quelle esperienze, pur superate, hanno elementi positivi da tenere in considerazione. Con questo presupposto la sua teoria della comunizzazione procede per sviluppare una propria visione del mondo ritenuta più adeguata ai tempi ma ribadendo che la rivoluzione comunista non vuol dire la presa del potere del proletariato e il mutamento del modo di produzione capitalistico, ma la trasformazione della realtà nei diversi aspetti della esistenza individuale: “... dalla produzione del cibo al modo di mangiarlo, passando per il modo di spostarsi, di abitare, di apprendere, di viaggiare, di leggere, di oziare, di amare, di non amare, di discutere e di decidere del nostro avvenire etc. ...Comunizzare non significa rendere gratuito e disponibile per tutti ciò che già esiste, dal telefono cellulare alla centrale nucleare, dalla casa della cultura fino alla panetteria all’angolo. Se così fosse, noi conserveremmo questi mezzi e questi luoghi di produzione e di consumo, semplicemente epurandoli del loro carattere mercantile: la nostra vita sarebbe la stessa, soltanto senza il denaro, il padrone e lo sbirro.”10
Beh! Non sarebbe male, al contrario, per le nostre vite non avere tra i piedi il denaro, il padrone e lo sbirro, tanto per cominciare.
Per concludere, i comunizzatori non hanno un progetto economico da perseguire perché per loro il lavoro, considerato per se stesso, dovrebbe diventare un'attività tra le tante dell'esistenza; esso dovrebbe perdere la connotazione che gli impone il capitalismo, cioè quella di essere un’attività separata dagli uomini e totalizzante, per trasformarsi in qualcosa d’altro che insieme alle altre attività umane trasformerebbe gli individui della società. Se così fosse, andrebbe comunque detto qualcosa di più su questo argomento, si dovrebbe spiegare prima di tutto come l'umanità potrebbe soddisfare i suoi bisogni vitali una volta che fosse uscita dal capitalismo. Arrivati al dunque, su tutta la faccenda si ammette, a riprova dell'inconsistenza delle sue affermazioni, che la teoria della comunizzazione alla fin fine si sorregge sul nulla: “Qualunque valore si voglia attribuire al concetto di comunizzazione, esso permette tutt’al più di porre il problema, non già di risolverlo, cosa, del resto, che né questa né altre nozioni potrebbero fare.”11
Finalmente un po' di chiarezza
Chi tenta di addentrarsi maggiormente nei meandri della teoria della comunizzazione per chiarirne il senso è un altro rappresentante di punta di questa corrente, Bruno Astarian. Nel suo opuscolo “Il comunismo. Tentativo di definizione”, già il titolo è tutto un programma se dopo due secoli di capitalismo ci dobbiamo ancora chiedere cosa sia il comunismo, comincia a spiegarci cosa sicuramente esso non è: “La crisi del programmatismo ci ha lasciati senza una visione positiva del comunismo. La bancarotta dell'affermazione del proletariato in quanto contenuto della rivoluzione, ha allo stesso tempo fatto fallire i piani, le società dei consigli e le altre dittature del proletariato, che rappresentavano la conclusione naturale delle analisi teoriche del movimento sociale e delle sue crisi. Il riconoscimento dell'impossibilità dell'affermazione del proletariato come soluzione alla crisi capitalista, ha per corollario una definizione del comunismo che – passando per la negazione del proletariato e non avendo dunque alcuna base attuale – deve necessariamente restare molto più astratta rispetto alle definizioni fondate sull'affermazione del proletariato.”12
Sostanzialmente si dice che le vecchie dottrine comuniste che vedevano nel proletariato la classe che una volta conquistato il potere avrebbe dovuto avviare il processo di transizione sociale ed economico attraverso la pianificazione conforme ai propri interessi di classe, sono fallite (si evita sempre accuratamente di menzionare il partito quale portatore della coscienza e del programma rivoluzionario). E si dice anche che nella nostra epoca il proletariato non può affermarsi ma al contrario, dissolversi. Questa asserzione non avendo una base reale sulla quale poggiare non può che rimanere su un piano astratto; mentre, viceversa, l'autore riconosce, contraddicendosi visto che poco prima le aveva sconfessate, la fondatezza delle classiche posizioni del comunismo rivoluzionario sulla necessità della conquista del potere del proletariato mediante la rivoluzione. Astarian, esattamente come gli altri comunizzatori considerati precedentemente, mette le mani avanti e ci lascia a bocca asciutta, non dicendoci assolutamente niente di sostanzioso sulla società futura. A essere sinceri una premessa e alcuni esempi concreti ce li dà. Cominciamo dal preambolo: “Se è in quanto singolo individuo che partecipo a un'attività – alla quale l'altro m'invita e verso la quale io lo esorto – ciò implica che questa attività non è il punto geometrico d'incontro delle nostre mediane, ma piuttosto che essa è il luogo rivelatore delle nostre personalità, delle nostre differenze, della nostra ricerca l'uno dell'altro.”13 Dopo questo ecumenismo geometrico e la spiegazione che la rivoluzione comunista “abolisce la produttività come criterio che giustifica la produzione”, e che pertanto “l'assenza di risultati materiali dell'attività non rappresenta un ostacolo, nella misura in cui è nel suo stesso svolgimento che ogni attività produce la sua ragion d'essere”, Astarian passa agli esempi concreti: “Il bisogno naturale di patate non genera il cieco sviluppo di forze produttive per produrre patate, ma trova delle forme di soddisfacimento nelle quali l'attività primeggerà sul risultato – pur ottenendo il medesimo risultato finale. Non si dirà più: produciamo delle patate perché sono nutrienti e bisogna nutrirsene; ma: immaginiamo un modo per incontrarsi, per non annoiarsi, che ci permetta di produrre patate... L'attività produttrice di patate sarà organizzata in modo tale da essere simultaneamente e indistintamente rapporto ludico, avventura amorosa, creazione formale etc...”14
Non ha importanza se per produrre patate ci metterò un tempo infinito, perché ciò che conta è l'attività in se stessa, l'incontro conviviale, l'avventura amorosa, mentre la misura del tempo sembrerà una cosa assurda: “Nel comunismo, dunque, la categoria della produzione materiale scompare, a favore di un'attività intra-individuale totalizzante che trova in se stessa la propria ragion d'essere.”15
In uno scritto più recente, il nostro autore, ribadisce l'immediatezza dell'avvento del comunismo non avendo più senso la conquista del potere da parte del proletariato, l'alleanza con altre stratificazioni sociali e il processo di transizione a un nuovo modo di produzione. Secondo Astarian i rivoluzionari aboliranno subito il lavoro, il valore, la famiglia, la patria etc. Sarà la crisi del capitalismo a mettere spontaneamente in moto i proletari, che non saranno più in grado di riprodurre la propria condizione, quindi se stessi come proletari. La crisi accelererà la loro individualizzazione/demassificazione, processo già avviato dal capitale post-fordista, e li farà approdare alla comunizzazione. Per Astarian allorché le altre alternative proletarie controrivoluzionarie avranno dato prova della loro inutilità, si metterà in moto automaticamente la comunizzazione per far compiere il salto nella non-economia. La produzione senza produttività si affermerà, non ci sarà più bisogno di misurare il tempo, gli uomini socializzeranno, e così il comunismo si imporrà per moto proprio. Adesso analizziamo un nuovo esempio concreto di comunizzazione passando dalle patate al pane: “Nel quadro della rivoluzione comunista, l'atto della produzione non sarà mai unicamente produttivo. Lo scopo degli individui che hanno deciso di aprire un panificio, non sarà quello di fabbricare una certa quantità di pane, bensì quello di socializzarsi e di coltivare le loro affinità producendo pane. Inoltre, questi proletari non produrranno del pane come categoria generale, ma un tipo di pane particolare da cui quel dato giorno si sentono solleticati. Infine, l'approvvigionamento in farina dei nostri fornai, almeno in un primo tempo, rischia di essere aleatorio, se coloro che si trovano al mulino seguono gli stessi princìpi. Vi saranno momenti in cui non ci sarà farina, poiché quelli che sono al mulino avranno preferito parlare d'amore e del senso della vita. È il caos? Diciamo semplicemente che quel giorno non ci sarà pane.”16
Tale sciocchezza sarebbe l'alternativa, l'antidoto, rispetto ai pericoli degenerativi derivanti da un'organizzazione sociale basata sulla pianificazione economica centralizzata in quanto impedirebbe a chi detenesse posizioni altolocate di approfittarsene. Viceversa il rischio sarebbe la restaurazione del capitalismo, la possibilità che tutto torni come prima con lo spettro della disoccupazione e dei salari non pagati. Sempre secondo l'autore, nella società comunizzata a circolare sarebbero gli individui nelle varie attività e non i beni dei produttori associati. I “luoghi della produzione” non avrebbero un personale permanente ma sarebbero degli ambienti d'incontro e di vita dove sarebbe importante l'attività e non il risultato. Gli individui circolanti esplicherebbero le loro affinità e nel contempo adempierebbero alla loro riproduzione. Qui abbiamo il terzo esempio concreto, dopo le patate e il pane ora è il turno delle salsicce: “I prodotti circoleranno insieme agli individui, ma senza che vi sia scambio. Coloro che hanno fabbricato delle salsicce, le invieranno a una mensa locale senza preoccuparsi di ottenere alcunché in cambio, poiché quelle salsicce non sono costate loro niente, tanto meno del lavoro... Tutto è gratuito e resterà tale, poiché tutto è prodotto da persone per le quali, in qualche modo, le salsicce non sono che il sottoprodotto di qualche giorno di discussioni sul senso della vita”17
Arrivando alla conclusione, all'autore qualche perplessità gli viene: “l'abolizione del valore, la distruzione del capitale e l'auto-negazione del proletariato, possono apparire momenti misteriosi o mistici” si domanda, confrontando le sue affermazioni rispetto alla concretezza delle storiche esperienze rivoluzionarie del movimento operaio. Ma subito dopo il dubbio gli svanisce: “A partire dalla crisi degli anni '60-'70, lo stesso processo della contraddizione tra le classi si è incaricato di liberarci del problema. L'evoluzione recente dei rapporti di classe ci permette di comprendere, meglio di quanto potesse fare lo stesso Marx, la natura profonda della società capitalistica: il valore, il lavoro, e dunque la loro abolizione. Essa ci consente, dunque, di approcciare più da vicino il contenuto del comunismo e del processo rivoluzionario (comunizzazione) che lo determinerà. Più la crisi si approfondirà, più si avanzerà su questa via.”18
Addirittura l'evoluzione dei rapporti di classe farebbero comprendere a noi tutti e soprattutto al nostro autore della comunizzazione più di quanto Marx avesse capito del capitalismo e del comunismo. Veramente uno sfoggio di modestia! E' vero, Marx non aveva valutato a sufficienza l'essenza profonda delle patate, del pane e delle salsicce!
Chi si richiama alle comunità tribali precapitalistiche
C'è chi, deluso dai fallimenti di tutte le esperienze rivoluzionarie che si sono richiamate al comunismo, guardando all'indietro nella storia scorge la soluzione. E' il caso di Dino Erba. Il presupposto da cui parte è che nel mondo il modo di produzione capitalista sarebbe dominante ma non prevalente. Erba ritiene che una formazione socio-economica possa essere definita capitalista solamente quando quantitativamente e qualitativamente sarebbe in grado di imporre relazioni sociali specificatamente capitalistiche. Data la premessa, come afferma Erba nel suo ultimo libro, ne deriverebbe che: “Se il modo di produzione capitalistico è prevalente ma non dominante, significa che sussistono aree sociali non capitalizzate, ancorché proletarizzate, dove, per dirla con Marx, non prevale ancora la sussunzione reale del lavoro al capitale. Condizione che lascia presumere la sopravvivenza di aggregazioni sociali (comunità) tipicamente precapitalistiche, per esempio di tipo tribale, in cui perdurano rapporti solidaristici o familistici. Queste aggregazioni potrebbero non solo diventare, in loco, momento centrale della lotta contro sfruttamento, oppressione e miseria ma (forse) potrebbero poi saldarsi alle lotte dei proletari delle metropoli, ossia dei Paesi capitalistici più avanzati, trovando il reciproco punto di incontro nella comunizzazione. Per il superamento del modo di produzione capitalistico”19
Per Erba, conseguentemente a questa concezione, la rivoluzione d'Ottobre sarebbe stata un evento funesto in quanto il movimento proletario e contadino sarebbe stato soggiogato politicamente e ideologicamente dal bolscevismo-leninismo. Il livore contro Lenin accusato di essere la causa prima dell'affermazione del capitalismo in Russia, di essere il principale impedimento all’affermarsi delle primordiali tendenze alla comunizzazione della società russa, così viene espresso: “Il leninismo è una forma di ideologia politica borghese, tipica della fase di sviluppo delle forze produttive, oggi tramontata.”20
In sostanza per l'autore sarebbe stato possibile passare dalla vecchia comune rurale russa (obščina) direttamente al comunismo senza attraversare le forche caudine del capitalismo, proprio come sostenevano i populisti rivoluzionari russi dell'epoca in contrapposizione alle tesi di Lenin e del partito bolscevico. Per Erba, tutt'altra direzione avrebbero perseguito le opposizioni politiche allo zarismo: “Le altrettanto difficili condizioni di clandestinità non avevano infatti impedito ai populisti prima e ai socialisti rivoluzionari dopo di dar vita ad associazioni embrionalmente assimilabili al concetto di comunizzazione, come la Società dell'amore fraterno, sorta per iniziativa di Viktor Černov (1899), il cui statuto offrì l'abbozzo programmatico al futuro PSR.”21
Diversamente dall'esperienza della rivoluzione russa, prosegue Erba, nella Spagna del 1936 il movimento rivoluzionario avrebbe fatto un grande passo in avanti. Secondo lui i comitati rivoluzionari di difesa non fecero la rivoluzione, essi erano già la rivoluzione stessa, e non posero il problema della presa del potere perché i proletari erano già il potere e allo stesso tempo la sua negazione. Sostanzialmente Erba sostiene, concordemente agli altri propugnatori della teoria della comunizzazione, la spontaneità delle lotte, la non necessità del partito e del programma politico per il comunismo. Contraddistingue la sua visione la particolare attenzione e simpatia per le aggregazioni tribali precapitalistiche ancora sporadicamente esistenti sul pianeta e presenti in alcuni paesi islamici, in America Latina, in Amazzonia, in Cina, in India e nel Sud Est asiatico.
Che dire di questa prospettiva che guarda alla semplicità delle comunità arcaiche, che vorrebbe mescolare la società tribale con il comunismo? Noi diciamo che questo è un punto di vista idealistico. Marx parte dalle conquiste realizzate dal capitalismo nel campo scientifico e tecnologico per prefigurare la futura società comunista capace di soddisfare le necessità di un mondo tanto complesso come l'attuale. Nelle opere di Marx mai si guarda al passato, tanto meno alle comunità precapitalistiche, per indicare la strada che l'umanità dovrebbe intraprendere per la propria emancipazione. Pensare che il disastroso sistema capitalista possa essere sostituito con il ritorno al passato, o a qualche cosa di simile, senza utilizzare le moderne forze produttive per soddisfare gli attuali bisogni umani e governare il mondo, non soltanto contraddice Marx, ma significa non avere nessuna idea di comunismo concretamente praticabile. Questo problema si palesa sempre tra i teorici della comunizzazione e l'autore del testo citato è costretto a confessare che: “Entrando nel merito del concetto di comunizzazione, devo dire che, a mio avviso, siamo ancora in alto mare. Molte questioni restano da chiarire.”22
Anche l'anarchismo entra nel grande calderone
Per concludere merita una sottolineatura la convergenza tra i teorici della comunizzazione e le concezioni anarchiche. Nel 2009 un esponente della rivista “Il lato cattivo” e del relativo blog inviò un questionario a Gilles Dauvé e Karl Nesic, principali promotori e redattori della rivista “Troploin”, dove a un certo punto venne chiesto qual'è la differenza di concezione tra loro e gli anarchici per quanto riguarda la rivoluzione, la distruzione del capitale e dello Stato. Questa è stata la risposta: “Per attenerci qui alla comunizzazione - e diffidando delle parole, poiché esistono tante varietà di anarchici quante ve ne sono di marxisti (e com'è noto Marx rifiutava l'etichetta di marxista) - possiamo dire che, al contrario della maggior parte dei marxisti, molti anarchici hanno affermato il contenuto concreto del comunismo, e talvolta hanno cercato di metterlo in pratica fin da subito: superamento della famiglia, scuola capace di stimolare lo spirito dell'allievo, messa in comune delle risorse, alimentazione differente, tentativo di vivere al di fuori del sistema salariale, solidarietà immediata etc. Sebbene questi sforzi siano talvolta sfociati nel settarismo, nello spiritualismo o nella ricetta, vi ritroviamo una concezione della rivoluzione come pratica di relazioni sociali liberate dallo Stato e dal lavoro salariato, e come auto-produzione di un individuo immediatamente sociale. Questa prospettiva è molto vicina a quella che noi chiamiamo comunizzazione.”23
Le larghe maglie della prospettiva comunizzatrice permette a chiunque si illuda di potere affermare la propria estraneità al sistema, magari credendo di cambiare se stesso e il mondo come risultato del puro atto della volontà, di sentirsi parte di quell'idea. Il radicalismo di una concezione di tale natura, appunto la comunizzazione, tanto nella lotta come nella vita personale, consentirebbe di intraprendere la via al comunismo nel presente, nel permanere del rapporto di produzione capitalistico e in una sorta di fai da te a piccola scala finalizzato al vivere “diverso” intrapreso individualmente o con pochi altri individui facendo a meno della tecnologia e dei prodotti avanzati della produzione capitalistica. Siamo indubbiamente alle prese con un sistema di idee completamente avulso dai problemi che la società capitalistica sta ponendo all’intera umanità e che hanno dimensione, all’opposto di quanto concepiscono i comunizzatori, di grande, grandissima scala, addirittura di scala planetaria. Non a caso su questo essi non dicono nulla. Inoltre, considerando le esperienze storiche del proletariato e dei partiti rivoluzionari dei ferri vecchi inutilizzabili, perché complicarsi la vita quando la soluzione sarebbe a portata di mano con tanta semplicità? Per di più, il potere sarebbe pericoloso, basterebbe considerare la fine che hanno fatto il partito bolscevico e i suoi capi, a cominciare da Lenin, argomentano semplicisticamente i comunizzatori a sostegno del loro incipiente anarchismo. Anche in questo caso si tratta di banale idealismo incapace di fare i conti con la realtà, le forze in gioco e i mezzi per trasformare realmente a scala globale l’attuale società, cosa che richiede una strumentazione concettuale ben più corposa e ancorata alla realtà di quella che ispira le concezioni comunizzatrici. E' evidente la preoccupazione dei sostenitori di questa dottrina del fatto che il potere corromperebbe l'uomo e quindi l'unica soluzione sarebbe bandire ogni forma di autorità ovvero, controbattiamo noi, bandire la conditio sine qua non per la riuscita dell'evento rivoluzionario trasformatore del mondo.
L'estremizzazione degli aspetti anarchici della comunizzazione trovano l'apice nella corrente insurrezionalista. L'anarco-insurrezionalismo teorizza la rivolta per rimettere in discussione il proletariato in quanto classe, esistente come costrizione imposta dal capitale. Vale a dire che l'individuo dovrebbe rifiutare di riconoscersi nella classe nel momento in cui combattesse contro il sistema e dovrebbe rappresentare, nel suo auto trasformarsi nel corso della lotta, la rottura personificata, ovvero “la comunizzazione in atto”. Per questo motivo anche gli insurrezionalisti si richiamano alla comunizzazione: “Il problema di questo tipo di posizione, è che essa si distacca dal corso della lotta di classe e si pone di fronte alla lotta come la rottura personificata, la comunizzazione in atto... Gli insurrezionalisti cercano dunque, né più né meno, di ricreare le condizioni della rivolta ovunque vi sia contestazione... Questa corrente si richiama alla comunizzazione ritualizzando la rivolta come azione diretta: il danneggiamento, lo scontro con la polizia, il saccheggio etc.; o ancora ideologizzando la rivolta come alternativa: critica delle identità sociali, negazione della proprietà e della legalità, sperimentazione collettiva di nuovi rapporti tra gli individui; per dare infine vita a un'identità riproducibile e riconoscibile all'interno del corso quotidiano della lotta di classe: la corrente insurrezionalista.”24
A tanto conduce l'individualismo in tutte le sue varie sfumature. Siamo al ribellismo spontaneista più radicale, privo di organizzazione, di programma comunista, di qualsiasi ancoraggio alla realtà dei proletari che vivono di fatica e di costrizione e che sono lontanissimi, giustamente, da qualsiasi concezione di opposizione fatta senza che a questa si accompagni la visione prospettica della lotta, l’organizzazione e il programma concreto del cambiamento sociale. Pur nella polemica tra i comunizzatori doc e gli insurrezionalisti, non vi è dubbio che una ideazione della rivoluzione e del comunismo nei termini idealistici che abbiamo visto finiscono sostanzialmente per convergere. Noi riteniamo che rimuovere il programma comunista, la necessità del partito e dell'organizzazione, non libera assolutamente l'individuo, non lo porta a nessuna coscienza comunista ma al contrario porta allo svilimento della prefigurazione teorica della futura società comunista.
Alcuni cenni storici
Non esiste un momento storico preciso di nascita del concetto di comunizzazione fatto proprio da un singolo o da un gruppo politico. Piuttosto possiamo parlare di un milieu all'interno del quale prende corpo questa idea nel corso del tempo. Sommariamente possiamo far risalire ad alcune analisi di Jacques Camatte una linea di tendenza verso l'idea di comunizzazione i cui sviluppi si faranno sentire successivamente. Nel 1966 Camatte, in rottura col Partito Comunista Internazionale, insieme a Dangeville darà vita alla rivista Invariance. Le posizioni assunte in riferimento ai rapporti di classe di quel periodo, in particolare il suo punto di vista sul rifiuto del lavoro e sul passaggio dal dominio formale al dominio reale del capitale sul lavoro, lo convinsero a pensare all'impossibilità del proletariato di affermarsi come classe dominante, al quale, non sarebbe restata altra alternativa che lottare contro il suo dominio, negando se stesso come classe e contemporaneamente distruggendo il capitale. Siamo ai prodromi della concezione, poi meglio formulata, del comunismo in atto, dell'immediatezza della rivoluzione.25
Nel dopoguerra le forze della tradizione rivoluzionaria presenti sulla scena politica erano i consiliaristi della Sinistra comunista tedesco-olandese e la Sinistra comunista italiana portatrice di una precisa visione del partito e del programma in continuità con il metodo materialistico di Marx e della concezione di Lenin sul processo di formazione della coscienza e quindi sulla necessità del partito rivoluzionario. Intanto scoppiava il sessantotto e le carte si rimescolavano. L'Internazionale Situazionista (1957-1971) assunse in quegli anni un ruolo di rilievo nel rigoglioso clima di ribellione sociale. Essa spaziava dalla critica dell'arte, all'urbanistica, all'introspezione dei vari momenti della vita personale. Quest'ultimo aspetto assunse un particolare rilievo tanto da indurre a teorizzare il significato della rivoluzione come trasformazione delle condizioni di esistenza individuali e il comunismo come attività di cambiamento immediato. Da questo singolare miscuglio prese forma l'idea della comunizzazione. Lasciamo la sintesi conclusiva a uno dei suoi massimi interpreti, Gilles Dauvé: “Riassumendo, la Sinistra comunista tedesca (intesa in senso lato, e quindi includendo sia la Sinistra olandese, sia in generale gli eredi di questa corrente, anche quelli ingrati come Socialisme ou Barbarie) insiste su una concezione della rivoluzione intesa come auto-attività, cioè come auto-produzione della propria emancipazione da parte degli sfruttati. Da qui, il rifiuto di tutte le mediazioni: parlamento, sindacato e partito. La Sinistra comunista italiana (che travalica i confini dell’Italia, e si sviluppa anche altrove, principalmente in Belgio) ci ricorda che il comunismo non è scindibile dalla distruzione del sistema mercantile, del lavoro salariato, dell’impresa come tale, e di ogni economia in quanto sfera separata dell’attività umana. L’Internazionale Situazionista, infine, dimostra che, ciò che per Bordiga e i bordighisti era un programma da attuare all’indomani della distruzione del potere politico borghese, non ha alcuna possibilità di realizzazione, se non si concretizza in un deperimento immediato dello scambio mercantile, del lavoro salariato e dell’economia, attraverso un rovesciamento di tutti gli aspetti della vita quotidiana... Non si tratta né di prendere il potere, né di ignorarlo, bensì di distruggerlo, trasformando contemporaneamente l’insieme dei rapporti sociali.”26
Su questo terreno di coltura prenderà corso la teoria della comunizzazione con i suoi ulteriori sviluppi come abbiamo cercato concisamente di tratteggiare.
1
http://illatocattivo.blogspot.it/2013/01/dallautorganizzazione-alla.html
2 Ibidem
3 Ibidem
4 Ibidem
5 Ibidem
6 Ibidem
7 http://connessioni-connessioni.blogspot.it/2012/06/la-teoria-della-comunizzazione-e.html
8 http://mondosenzagalere.blogspot.it/2008/11/sulla-comunizzazione-1_2550.html
[Estratto da K.Nesic, L’Appel du vide, Trop Loin 2002, tratto da Meeting - Revue internationale pour la
communisation, n.1, 2004, trad. it. Faber]
9 http://www.left-dis.nl/i/capcom72.htm. Capitalismo e comunismo (Supplemento a Le Mouvement communiste, n. 3,
Parigi, 1972)
10 http://mondosenzagalere.blogspot.it/2011/04/dalla-sinistra-comunista-alla.html
[tratto da Gilles Dauvé (Jean Barrot), Le Roman de nos origines. Alle origini della critica radicale.
A cura di Fabrizio Bernardi, Dino Erba, Antonio Pagliarone, Quaderni di Pagine Marxiste, Milano, 2010]
11 Ibidem
12 http://illatocattivo.blogspot.it/2012/01/il-comunsimo-tentativo-di-definizione.html
Bruno Astarian “Il comunismo. Tentativo di definizione” [Hic Salta, 1998]
13 Ibidem
14 Ibidem
15 Ibidem
16 http://illatocattivo.blogspot.it/2011/12/la-comunizzazione-come-via-duscita.html
Bruno Astarian “La comunizzazione come via d'uscita dalla crisi” 2009
17 Ibidem
18 Ibidem
19 Dino Erba, Quale rivoluzione comunista oggi, All'insegna del gatto rosso, Milano 2014, pag. 13.
20 Ivi, pag. 19.
21 Ivi, pag. 55.
22 Ivi, pag. 132.
23 http://illatocattivo.blogspot.it/2012/12/lessenziale-sullessenziale.html
24 http://illatocattivo.blogspot.it/2014/02/linsurrezionalismo-come-una-delle.html
25 Vedi prefazione a Il capitale totale di Jacques Camatte (1970)
http://illatocattivo.blogspot.it/2012/08/prefazione-il-capitale-totale.html
26 Cfr. http://mondosenzagalere.blogspot.it/2011/04/dalla-sinistra-comunista-alla.html