Discutendo della transizione dalla società capitalistica a quella comunista. Qualche punto fermo.

Creato: 19 Settembre 2013 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 4223

Dalla  rivista  D-M-D' n °7

La società comunista non si sviluppa a partire dal regno dell’utopia o dalla Città del sole di Tommaso Campanella ma dalla società capitalistica così come essa sarà giunta all’erompere della rivoluzione comunista.

 

E’ fondamentale nell’approcciarsi alla questione Transizione avere sempre presente che, come evidenzia Marx nella Critica al programma di Gotha: “ Quella con cui abbiamo da fare qui, è una società comunista non come si è sviluppata sulla sua propria base, ma viceversa come sorge, dalla società capitalista; che porta quindi ancora sotto ogni rapporto, economico, morale, spirituale, le impronte materne della vecchia società dal cui seno è uscita.”[1]

Infatti, data la particolare natura dei rapporti di produzione capitalistici, contrariamente a quanto accaduto per la società borghese, i cui rapporti di produzione hanno potuto svilupparsi in osmosi con quelli feudali, è materialmente impossibile, permanendo un ambito capitalistico, la nascita, anche solo allo stato embrionale, di rapporti di produzione di tipo comunista. Così, mentre per la borghesia la rivoluzione e con essa la conquista rivoluzionaria del potere politico, si è resa necessaria per rimuovere gli ostacoli che la vecchia società opponeva all’ulteriore sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici già consolidati, per il proletariato la conquista del potere politico e l’instaurazione della sua dittatura, costituiscono il presupposto, previa rimozione dei vecchi rapporti di produzione, affinché i nuovi possano nascere e svilupparsi. Quindi ne discende come non possa che trattarsi di un processo rivoluzionario.

“Tra la società capitalistica e la società comunista- scrive Marx- sta il periodo della trasformazione rivoluzionaria dell’una nell’altra. Ad esso corrisponde anche un periodo politico transitorio il cui lo Stato non può essere altro che la dittatura rivoluzionaria del proletariato”[2].

Per Marx, dunque, la rivoluzione è la forza motrice di tutto il processo di trasformazione della società, ossia del processo di costruzione della società comunista a partire, però, dalla società capitalista.

Infatti, il proletariato, non avendo come propria base economica che la sola vendita della forza- lavoro, per il fatto di essere una classe priva di qualsiasi forma di proprietà, potrà porre le basi per la costruzione di una società fondata su rapporti di produzione di tipo comunista e porre fine al suo sfruttamento soltanto a partire dall’abolizione del lavoro salariato che, poi, costituisce l’essenza dei rapporti di produzione capitalistici e della società borghese. Ma la sola abolizione del lavoro salariato, pur se pone fine allo sfruttamento capitalistico della forza-lavoro, non costituisce di per sé l’approdo ultimo della società comunista. Infatti, con l’abolizione del lavoro salariato si ha, sì, la fine dello sfruttamento della forza-lavoro ma non anche l’automatico superamento di ogni disuguaglianza. In questa prima fase della società comunista, proprio perché essa porta ancora le impronte materne della società che l’ha preceduta, ossia quella capitalistica, ogni singolo produttore riceverà dalla società l’esatto equivalente della quantità di lavoro che egli avrà dato. “Per esempio – ci spiega Marx – la giornata di lavoro sociale consta della somma delle ore di lavoro individuale; il tempo di lavoro individuale del singolo produttore è la parte della giornata di lavoro sociale conferita da lui, la sua partecipazione alla giornata di lavoro sociale. Egli riceve dalla società uno scontrino da cui risulta che egli ha prestato tanto lavoro ( ... ) e con questo scontrino egli ritira dal fondo sociale tanti mezzi di consumo quanto equivale a un lavoro corrispondente. La stessa quantità di lavoro che egli ha dato alla società in una forma la riceve in un’altra”.[3]

Da un punto di vista puramente economico siamo già in una società comunista “ perché nella nuova situazione nessuno può dare niente all’infuori del suo lavoro, e perché d’altra parte niente può diventare proprietà dell’individuo all’infuori dei mezzi di consumo individuali. Ma per ciò che riguarda la ripartizione di questi ultimi fra i singoli produttori, domina lo stesso principio che nello scambio fra equivalenti: si scambia una quantità di lavoro in una forma contro una eguale quantità in un’altra.”[4] Pertanto, poiché gli individui sono diversi fra loro “…uno è fisicamente o moralmente superiore all’altro e fornisce quindi nello stesso tempo più lavoro, oppure può lavorare durante un tempo più lungo”, scambiandosi determinate quantità di lavoro con medesime altre quantità di lavoro, nonostante non si tratti più di lavoro salariato, vi sarà ancora chi avrà di più e chi di meno. Sono stati aboliti i rapporti di produzione capitalistici ma, nondimeno, la società comunista non può ritenersi ancora del tutto compiuta dato che nello scambio fra equivalenti vi è implicito il principio  di uguaglianza ancora così come lo concepisce il diritto borghese e, più in generale, l’ideologia borghese. In questa fase che è appunto “di transizione”, la società è sotto il profilo dei rapporti di produzione una società comunista e non l’ibrido “né comunista né capitalista”. Tuttavia non lo è ancora in modo compiuto. E lo potrà essere solo quando saranno stati aboliti anche questi ultimi residui della società borghese. Cioè: “ In una fase più elevata della società comunista, dopo che è scomparsa la subordinazione servile degli individui alla divisione del lavoro, e quindi anche il contrasto di lavoro intellettuale e corporale, dopo che il lavoro non è divenuto soltanto mezzo di vita, ma anche il primo bisogno della vita; dopo che con lo sviluppo generale degli individui sono cresciute anche le forze produttive e tutte le sorgenti delle ricchezze sociali scorrono in tutta la loro pienezza, solo allora l’angusto orizzonte giuridico borghese può essere superato, e la società può scrivere sulle sue bandiere: - Ognuno secondo le sue capacità, a ognuno secondo i suoi bisogni[5].

E’ importante sottolineare che qui Marx non fa alcun riferimento a forme di subordinazione residue derivanti dal lavoro salariato né tanto meno al permanere di alcuna categoria economica capitalistica: la società comunista superiore scaturisce dal già avvenuto superamento rivoluzionario dei rapporti di produzione capitalistici. In altri termini, non è con il superamento della divisione del lavoro che ha inizio la società comunista, ma è con l’instaurazione dei rapporti di produzione comunisti che si pone la premessa per il superamento della divisione del lavoro, dell’antagonismo fra lavoro intellettuale e lavoro manuale e così via. Nonché la definitiva liberazione degli individui, ormai “associati” fra loro, da qualsiasi possibile forma di subordinazione degli uni agli altri. D’altra parte anche da un punto di vista grammaticale “fase superiore”, avendo valore predicativo del medesimo campo semantico ”società comunista”, esclude che fra le due possa esservi un altro campo semantico che, nella nostra fattispecie, sarebbe una forma di società terza rispetto a quella borghese e comunista o anche un ibrido fra le due; indicando, al contrario, che è la medesima formazione sociale che si arricchisce, si completa fino al punto che la stessa “dittatura rivoluzionaria del proletariato” si estingue[6].

La lettura della Critica del Programma di Gotha non ci sembra lasci spazio ad altre interpretazioni: la società comunista inizia con l’instaurazione della dittatura del proletariato e l’abolizione del lavoro salariato e di tutte le categorie economiche che caratterizzano la società capitalistica (merce, denaro, capitale, valore di scambio, mercato). Purtroppo, nell’ambito del movimento comunista, ciò non sempre è stato tenuto nel debito conto e così ancora oggi c’è chi si approccia a questa questione avendo, per esempio, come punto di riferimento l’esperienza di Lenin e assumendo le indicazioni del rivoluzionario russo come metodologicamente valide per l’intero arco storico della società capitalistica.

La questione della transizione in Lenin

Lenin partendo dalla premessa che “… l’abolizione del capitalismo non dà subito le premesse economiche per un tale cambiamento ( la piena realizzazione del comunismo (ndr)”[7], giunge poi a qualificare come comunista solo la fase superiore della nuova società e come socialista la sua fase iniziale. La diversa qualificazione, rispetto a quella usata da Marx, presa in sé, non avrebbe particolare importanza se non fosse che Lenin la definisce tale, cioè socialista, per il fatto che in essa è stata abolita la proprietà privata; che si tratti, cioè, di uno “stato borghese senza borghesia” in cui: “ Tutti (il corsivo è di Lenin- n.d.r.) i cittadini si trasformano qui in impiegati salariati dello stato, costituito dagli operai armati. Tutti i cittadini diventano gli impiegati e gli operai d’un solo <<cartello>> ( anche qui corsivo e virgolette sono di Lenin – n.d.r) di tutto il popolo, dello Stato.” [8] Per Lenin, quindi, la concentrazione e la centralizzazione dei capitali nelle mani dello Stato determina di per sé il costituirsi di una formazione sociale altra, anzi socialista nonostante il permanere in essa del lavoro salariato e, quindi, dei rapporti di produzione capitalistici.

Mentre in Marx il primo compito della dittatura del proletariato è l’abolizione del lavoro salariato, per Lenin, invece, il primo compito dello Stato costituito dagli operai armati è la trasformazione di tutti i cittadini in lavoratori salariati. Inoltre: perché definirlo Stato costituito dagli operai armati e non dittatura del proletariato? Eppure- come vedremo fra poco - non sono proprio la stessa cosa.

E Lenin conosce bene tutta l’opera di Marx e in particolare la teoria marxista dello Stato e di conseguenza anche quella sulla transizione dalla società capitalistica a quella comunista. Allora come spiegare questo discostamento? Proviamo a capire evitando, come si suol dire, di buttare insieme all’acqua sporca anche il bambino: Lenin rimane una pietra miliare nella storia del movimento comunista e uno dei più grandi interpreti del marxismo rivoluzionario.

Il fatto è che mentre Marx affronta la questione da un punto di vista teorico e parte presupponendo una società capitalistica economicamente già matura per la sua trasformazione rivoluzionaria, Lenin, all’opposto, opera, invece, in un contesto storico ben determinato e ben lontano da quello ipotizzato da Marx in via di astrazione teorica.

Non bisogna dimenticare che Lenin scrive Stato e Rivoluzione sul finire del 1916 e poco prima della rivoluzione di Febbraio. Peraltro, lo scrive per confutare, da un lato, le tesi anarchiche sull’abolizione dello Stato e, dall’altro, la tesi menscevica secondo cui in Russia, non essendoci stata la rivoluzione democratico- borghese, non poteva esserci neppure la rivoluzione socialista come pure, - seppure per ragioni completamente diverse - il cosiddetto “economismo imperialistico” il quale negava che nei paesi oppressi dall’imperialismo ( che oggi chiamiamo periferici), date appunto le nuove forme del dominio imperialistico basate sull’esportazione del capitale finanziario, potessero confluire, in uno stesso movimento di liberazione nazionale, sia le istanze del proletariato e dei ceti sociali ad esso assimilabili (piccoli contadini, contadini poveri e parti della piccola borghesia) sia le istanze di indipendenza della borghesia nazionale dalle metropoli imperialistiche di riferimento.

Di fatto, costituivano entrambi la negazione della teoria leninista, desunta dalla legge dello sviluppo ineguale enunciata da Marx, della doppia rivoluzione e del cosiddetto anello debole della catena per cui:Il socialismo sarà attuato dall’azione unita dei proletari, non di tutti i paesi, ma di una minoranza di paesi, giunti allo stadio di sviluppo del capitalismo avanzato” e più in generale La rivoluzione sociale non può avvenire se non nelle forme di un periodo che unisce la guerra civile del proletariato contro la borghesia nei paesi avanzati a tutta una serie di movimenti democratici e rivoluzionari, compresi i movimenti di liberazione nazionale, nelle nazioni poco sviluppate, arretrate e oppresse”.[9]

Vi è, quindi, in Lenin, da un lato, la consapevolezza che la Russia non era la Germania e che i paesi capitalisticamente avanzati fossero un’esigua minoranza e, dall’altro, che, comunque, essendo il modo di produzione capitalistico pervenuto alla sua fase suprema, la rivoluzione avesse più probabilità di erompere, a causa del congiungersi delle forme di sfruttamento imperialistiche con quelle delle classi dominanti locali, nei paesi più periferici. Da qui la previsione di uno stadio - in attesa del ricongiungersi della rivoluzione in questi paesi con quella dei paesi capitalisticamente più avanzati - in cui fosse lo stesso proletariato a governare uno stato borghese senza borghesia. Che poi, in ultima istanza, è solo un modo diverso di denominare il “capitalismo di Stato”.

Si scorge qui, come del resto in tutta l’opera di Lenin, chiaramente lo sforzo di sistematizzare l’elaborazione teorica di Marx in relazione a quel determinato contesto socio-economico in cui egli si trovava ad agire al fine di trarne le necessarie indicazioni tattico- strategiche senza le quali l’azione politica verrebbe meno.

La storia successiva si è poi incaricata di dimostrare che lo Stato borghese senza borghesia, col consolidare e favorire l’ulteriore sviluppo dei rapporti di produzione capitalistici seppure nell’ambito dello Stato, anziché facilitare il ricongiungimento con la rivoluzione comunista internazionale sarebbe divenuto esso stesso un pilastro della controrivoluzione e della conservazione borghese.

Si potrebbe discutere a lungo se queste indicazioni fossero, dato quel particolare contesto storico, economico e sociale, le uniche possibili. Chissà, forse.

Quel che possiamo dire con una certa fondatezza è che oggi quelle indicazioni, proprio perché il contesto socio-economico di riferimento è mutato radicalmente, non possono in alcun modo essere ritenute ancora attuali.  D’altra parte, così facendo si attribuirebbe ad esse una valenza teorica che le renderebbe integrative dell’elaborazione di Marx, la qualcosa contrasterebbe non poco con l’insegnamento dello stesso Lenin secondo cui l’azione politica non può prescindere da una precisa valutazione critica del particolare contesto in cui i rivoluzionari si trovano ad operare. In tal senso, la tesi secondo cui ancora oggi sarebbe necessario che il processo di trasformazione rivoluzionario della società includa necessariamente una fase in cui lo Stato proletario debba necessariamente gestire i rapporti di produzione capitalistici senza la borghesia, ci sembra davvero poco leninista.

In realtà, la società capitalistica contemporanea è molto più prossima a quella assunta da Marx in via teorica, quella basata, cioè, sulla grande industria, la produzione su vasta scala e l’internazionalizzazione del modo di produzione capitalistico, di quanto non lo fosse realmente quella del XIX e gran parte del XX secolo.

La società comunista non si sviluppa a partire dal regno dell’utopia o dalla Città del sole di Tommaso Campanella, ma dalla società capitalistica così come essa sarà giunta all’erompere della rivoluzione comunista. Cosa, questa, che ci dice anche che ogni anticipazione attinente alla durata della fase di transizione o agli specifici provvedimenti che la dittatura rivoluzionaria del proletariato dovrà adottare per il raggiungimento del suo scopo, essendo essi in stretta relazione con il grado di sviluppo raggiunto dalle forze produttive, dal grado di concentrazione e centralizzazione dei capitali, dal grado di mondializzazione dei mercati, a cominciare da quello della forza-lavoro, nonché dal grado di polarizzazione della ricchezza e della società nelle due classi fondamentali: borghesia e proletariato, è destinato inevitabilmente a risolversi in un puro esercizio di fantasia. D’altra parte, data la moderna organizzazione e divisione del lavoro dove, nella stragrande maggioranza dei casi, le qualità “fisiche o morali degli individui” e perfino i saperi e le loro competenze individuali non contano più nulla, lo stesso esempio di Marx mostra evidenti i segni dell’inesorabile passare dei tempi.

E’ un punto fermo che Marx ribadisce ad ogni piè sospinto. Lo fa non solo in tutte le sue maggiori opere teoriche ma anche in quelle più immediatamente divulgative quali Lavoro Salariato e Capitale, Salario prezzi e profitto e in quel piccolo immenso tesoro che è tuttora Il Manifesto dei Comunisti dove questo principio trova la sua migliore sintesi nella celebre parola d’ordine: Proletari di Tutto il mondo Unitevi! In contrapposizione all’inevitabile mondializzazione del modo di produzione capitalistico.

Per Marx, la rivoluzione comunista erompe non già perché il capitalismo non è in grado di completare il suo sviluppo, ma perché a un certo punto il suo ulteriore sviluppo entra in collisione con il progresso sociale e civile della società. Per esempio, aumenta, grazie al progresso scientifico e tecnologico, la produttività sociale del lavoro e peggiorano le condizioni di vita e di lavoro dei proletari e così via. Pertanto nella critica marxista della società capitalista, l’abolizione del lavoro salariato si configura, prima ancora che come principio fondamentale di giustizia ed eguaglianza sociale, come una necessità, una conditio sine qua non, affinché ad ogni ulteriore balzo in avanti del progresso tecnico e scientifico corrisponda un altrettanto balzo in avanti del progresso civile e sociale dell’intera collettività e dei singoli individui che la compongono. Costituisce, cioè, ad un tempo, la soluzione di un problema economico e il presupposto per la liberazione degli individui da ogni sorta di subordinazione affinché lo sviluppo della personalità di ciascuno possa aversi insieme a quello di tutti i membri della collettività.[10]

Comune o Stato costituito dagli operai armati?

Torniamo ora alla questione della forma statuale che lo Stato proletario dovrà assumere affinché il processo di trasformazione della società possa aver luogo. Come abbiamo visto prima, Marx, riferendosi al processo di trasformazione dalla società capitalista in quella comunista, avverte la necessità di precisare che ad esso “corrisponde anche un periodo di transizione politica in cui lo Stato non può essere altro che la dittatura del proletariato”. Lenin, invece, parla di Stato controllato dagli operai armati. D‘emblée sembrerebbe non esservi fra le due formulazioni alcuna differenza ma a ben vedere la differenza c’è ed è anche rilevante.

Marx si riferisce chiaramente a quella particolare forma statuale che è stata la Comune di Parigi e che egli, quando scrive la Critica del Programma di Gotha, ha già attentamente studiato traendone, fra le altre, e qui in estrema sintesi, le seguenti conclusioni:

  1. la rivoluzione non si esaurisce con la presa del potere perché la trasformazione dalla società non avviene motu proprio, ma necessita del ritorno della volontà umana sullo stato delle cose esistente per rovesciarlo (rovesciamento della prassi). Una rivoluzione che si limitasse alla sola presa del potere politico, ritenendola sufficiente per la trasformazione dei rapporti di produzione vigenti in altri di tipo comunista, non farebbe altro che spianare la strada al ritorno della borghesia e del suo Stato;

  1. solo la Comune ( Dittatura del proletariato o semi Stato proletario), permettendo alla “maggioranza” della società, al proletariato, di avocare direttamente a sé l’intero processo di formazione delle decisioni inerenti alle finalità dell’attività economica e di controllare che il suo svolgimento avvenga nell’esclusivo comune interesse dei produttori, permette la contemporanea abolizione del lavoro salariato, della proprietà  privata dei mezzi di produzione e la loro effettiva socializzazione;
  2. per queste sue caratteristiche la Comune è anche l’unica forma statuale mediante la quale i proletari, pur non essendo portatori di alcun diritto di proprietà, possono a loro volta costituirsi in classe dominante e, così facendo, maturare una compiuta coscienza comunista che altrimenti, a filo di materialismo storico, sarebbe impossibile a darsi.

In estrema sintesi, senza la Comune non può darsi la costruzione di una società comunista e, specularmente, senza l’abolizione dei rapporti di produzione capitalistici, non può esserci né la dittatura del proletariato, né il comunismo e neppure la sua fase superiore.

La qualcosa, invece, non è altrettanto scontata per lo Stato costituito da operai armati con tutti i cittadini trasformati, ivi compresi gli operai armati che lo costituiscono, in lavoratori salariati, di Lenin. La formula è talmente ambigua che è come se dicessimo che il sistema delle cooperative è l’equivalente della società comunista solo perché nelle cooperative sono gli stessi lavoratori che, per dirla con Marx, sfruttano se stessi.

Anche in questo caso ci sembra che la diversa formulazione di Lenin rispetto a quella di Marx, abbia valore solo in quanto indicazione riferita a quel preciso contesto storico e socio-economico e non come elaborazione con valenza teorica tale da renderla valida per tutta l’esperienza storica del capitalismo.

D’altra parte, che senso avrebbe oggi parlare di cittadini trasformati tutti in salariati dello stato, per di più di uno stato borghese anche se senza borghesia, quando ormai il confine fra lo Stato e le grandi imprese transnazionali, le grandi banche e, più in generale, i grandi agglomerati industriali e finanziari, è talmente sottile che spesso è pressoché impossibile stabilire dove finisce il primo e iniziano i secondi e viceversa.

E’ molto probabile, invece, che in un contesto come quello attuale, caratterizzato dall’unificazione su scala mondiale del mercato delle merci e dei capitali e in particolare di quello della forza-lavoro, e, soprattutto, dove ormai sia la borghesia sia il proletariato vanno sempre più configurandosi come classi globali, lo stesso Lenin respingerebbe con forza qualsiasi ipotesi di uno stato senza borghesia. Infatti, è del tutto evidente che, dato l’attuale grado di mondializzazione del modo di produzione capitalistico, la rivoluzione che non si estendesse immediatamente su scala internazionale e non si ponesse come suo primo obbiettivo, e in tempi molto brevi, la soppressione rivoluzionaria dei rapporti di produzione capitalistici, verrebbe immediatamente travolta dalla controrivoluzione borghese.



[1] K. Marx – Critica del programma di Gotha – Ed. Feltrinelli 1968 –pag. 16. I corsivi sono di Marx

[2] Ib. pag. 26

[3] Ib. pag. 16

[4] Ib.

[5] Ib. pag. 18

[6] Sulla teoria dell’estinzione dello Stato cfr oltre a Stato e rivoluzione di Lenin. L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato di F. Engels, nonché La guerra civile in Francia di Max, quest’ultimo disponibile anche sul sito www.istitutoonoratodamen.it

[7] Lenin – Stato e Rivoluzione – Ed. riuniti pag. 170

[8] Ib. pag. 177

[9] Lenin – La Guerra imperialista- Ed. Rinascita pag.143

[10] Al riguardo vedi: M. Lupoli La vita degli individui tra connessione e isolamento e C. Lozito- Comunismo: negazione dell’alienazione, affermazione completa dell’individuo sociale entrambi pubblicati su D-M-D’ n. 6.