Discutendo della crisi della Sinistra Comunista

Creato: 19 Dicembre 2011 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
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Discutendo della crisi della Sinistra Comunista

A seguito della pubblicazione dell’articolo E’ mezzanotte nella sinistra Comunista dei compagni francesi di Controverses  e il nostro articolo Sulla crisi della Sinistra comunista, apparsi rispettivamente sul nostro sito e sul numero due di questa rivista, si è aperta  fra noi e i compagni di Prospettiva marxista un’interessante discussione. Qui di seguito ne diamo conto ai compagni lettori nella certezza che non mancheranno ulteriori contributi.

 

Da Prospettiva Marxista all’Istituto O. Damen

 

Cari compagni,

 

 

 

abbiamo ricevuto il secondo numero della vostra rivista e vi ringraziamo.

 

Colgo l’occasione, quindi, per chiedervi se la nostra rivista vi arriva regolarmente e per invitarvi a segnalarci eventuali disguidi.

 

Ho letto con attenzione l’articolo “È mezzanotte nella sinistra comunista” e ne ho tratto l’impressione che siano state colte alcune questioni che oggi rivestono una particolare importanza.

 

Non ho la pretesa di esprimermi con sicurezza sul vostro giudizio, così fermo, circa la condizione attuale degli organismi politici che si richiamano all’esperienza della Sinistra comunista italiana. Mi sembra però che nella vostra valutazione vi sia un coraggio e una coerenza che purtroppo non così di frequente si possono notare in un ambito politico troppo spesso più impegnato a riconoscersi, a distribuire o negare presunte patenti di nobiltà politica che a formulare un serio bilancio circa la propria azione (o piuttosto sulle ragioni della propri inazione) politica. Saper guardare con lucidità e senza facili autoassoluzioni alla propria esperienza e al proprio operato è una delle condizioni basilari per poter lavorare veramente ad essere partito, nel senso più profondo e autentico del termine.

 

Mi sento invece di condividere con convinzione la vostra critica ad una concezione meccanicistica del processo rivoluzionario, come “naturale” prodotto del maturare delle contraddizioni capitalistiche. Come avete correttamente messo in luce, questa autentica ideologia mistificatrice si ammanta non di rado di un alone di positivismo, di scientismo a cui, la cosa è solo apparentemente paradossale, si uniscono talvolta toni misticheggianti e messianici. La critica a questa errata impostazione acquisisce oggi una particolare rilevanza perché, come abbiamo potuto verificare anche nei contatti politici che come Prospettiva Marxista abbiamo coltivato o che abbiamo cercato di instaurare nell’ambito delle formazioni e delle presenze politiche che con più o meno rigore si richiamano alla Sinistra comunista italiana, la sua presenza e diffusione, sotto diverse spoglie e con il supporto di varie argomentazioni e fascinazioni, rappresenta uno dei non secondari aspetti degeneri e fuorvianti che caratterizzano la nostra epoca e il nostro “ambiente”. Si potrebbe aggiungere che questa impostazione, fatalistica, dal forte sapore teleologico, potrebbe anche spiegarsi con i caratteri di una finta risposta, di una falsa soluzione di fronte ad una sconfitta di portata storica e alle evidenti difficoltà non solo di rivestire un ruolo politico di qualche utilità ma persino di individuare almeno una strada da percorrere per cercare di uscire da uno stato di prostrazione grave non tanto in termini numerici e organizzativi ma piuttosto in termini di assimilazione teorica, di analisi degli sviluppi politici e sociali, di indirizzo teorico e politico. Questa chiave di lettura ci porta però forse troppo lontano e meriterebbe una sede più appropriata per essere affrontata adeguatamente.

 

Nutro qualche dubbio invece sul fatto che all’origine del fallimento dell’impostazione meccanicistica e fatalistica del processo rivoluzionario vi sia un affievolimento della contraddizione tra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione. Il punto mi sembra che risieda nell’identificare in termini storici il significato e la manifestazione di questo rapporto contraddittorio. Anche lo sviluppo tecnologico nei processi produttivi infatti mi sembra aver confermato la contraddittorietà del modo di produzione capitalistico, basti pensare a come questo sviluppo si sia spesso tradotto in espulsione di forza-lavoro, in un ulteriore degrado delle condizioni di lavoro e in un ulteriore “svalorizzazione” della stessa forza-lavoro. Senza nemmeno soffermarsi sull’effetto sociale generale che spesso questi sviluppi tecnologici, ovviamente asserviti al ciclo capitalistico e alla ricerca del profitto, hanno comportato: potenziamento di capacità di produttive volte a occupare spazi di mercato incuranti se non addirittura in contrasto rispetto al perdurare di drammatiche carenze che affliggono ampie fasce della popolazione mondiale (il progredire della tecnologia a fini bellici mentre in molte aree del pianeta perdurano condizioni igieniche e ambientali estremamente nocive e nei fatti già superabili con l’attuale livello di sviluppo delle forze produttive rappresenta un esempio forse un po’ scontato ma che non mi sembra abbia perduto nulla della propria validità). Altra questione è attribuire a questa contraddittorietà la funzione di sprigionare fatalmente una prassi rivoluzionaria in masse proletarie prive di un partito rivoluzionario. Ma in questo caso l’errore mi sembra che risieda nell’interpretazione della contraddittorietà, nel significato che ad essa viene attribuito. Può essere benissimo però che io abbia compreso in maniera non corretta la vostra elaborazione. Nel qual caso, vi chiedo di fornirmi delucidazioni.

 

Mi risultano, inoltre, poco chiari altri due passaggi.

 

Il giudizio sul significato del peso accresciuto della produzione di mezzi di consumo come fattore che faciliterebbe la trasmissione e l’assimilazione dell’ideologia borghese mi risulta un po’ oscuro. Dal momento però che va a toccare l’importante questione dei mutamenti nelle classi e nei rapporti di classe, fermo restando il concetto scientifico fondamentale di classe e la validità delle categorie concettuali con cui il marxismo definisce le classi e la loro funzione storica, mi risulterebbe utile un ulteriore chiarimento.

 

Mi risulta poco chiaro anche il nesso tra sviluppi imperialistici, intreccio di interessi interborghesi e il ridimensionamento dello Stato nazionale a beneficio di agglomerati continentali.

 

Voglio sottolineare, infine, come sia utile, anzi, prezioso, il rimarcare la funzione del partito, della presenza di una coscienza politica internazionalista e fondata sulla teoria marxista come indispensabile elemento all’interno di un autentico processo rivoluzionario proletario. Questa acquisizione che, a rigor di logica dovrebbe essere scontata per chi si richiama al marxismo e all’esperienza rivoluzionaria bolscevica, è oggi purtroppo un risultato non solo per nulla ovvio ma addirittura da difendere contro il proliferare di ideologie e travisamenti, non ultima la già ricordata visione meccanicistica, positivistica e, quindi, inevitabilmente “anti-partitica”, della rivoluzione.

 

Se questo è oggi l’orizzonte di lavoro per i rivoluzionari e dato il vostro giudizio sulle condizioni della sinistra comunista, mi sembra molto coerente e apprezzabile il percorso che indicate: non il partito come risultato dell’applicazione di formule o l’assemblaggio di spezzoni e componenti politiche dalla più o meno nobile ascendenza, nemmeno la partenogenesi da una mitizzata ripresa di una mitizzata lotta di classe, ma un lavoro, un impegno di elaborazione, di sistematizzazione degli sforzi di analisi e di comprensione teorica della realtà storica in divenire. Un lavoro all’interno di un laboratorio capace di costituire uno spazio per l’impegno politico rivoluzionario e, quindi, per un comune sforzo di applicazione del metodo scientifico del marxismo.

 

Grazie ancora per l’invio della rivista, per i chiarimenti che avrete la pazienza di fornirmi, un cordiale saluto e il più sincero augurio di buon lavoro.

 

 

 

Un compagno di Prospettiva Marxista

 

 

La nostra Risposta

 

Cari compagni,

 

constatiamo con grande soddisfazione che, al di là delle obiezioni sollevate, avete colto pienamente lo spirito e le intenzioni che sono alla base della nostra iniziativa. Segno, questo, che la crisi della sinistra comunista e i problemi che ne derivano, non sono una nostra invenzione ma un dato di fatto così evidente da non poter sfuggire a chiunque non sia uso a trincerarsi nel chiuso del proprio orticello in attesa che la storia si incarichi di dar loro ragione o a curvare i dati della realtà affinché aderiscano plasticamente alle proprie stantie formulazioni.

 

Premesso ciò, entriamo nel merito delle vostre osservazioni.

 

Probabilmente, il nostro giudizio fortemente negativo sulla condizione attuale degli organismi politici che si richiamano all’esperienza della sinistra comunista italiana è inficiato dall’esperienza estremamente negativa che noi abbiamo compiuto in Battaglia Comunista. In ogni caso non escludiamo che singoli o gruppi più o meno consistenti di militanti di queste organizzazioni possano addivenire al riconoscimento della profonda crisi che vive questa corrente nel suo complesso e convengano a loro volta sulla necessità ineludibile di procedere con la massima urgenza a un bilancio lucido della sua notevole esperienza con l’intento di trarre dai suoi errori la lezione necessaria per poter lavorare, come dite voi, “seriamente a essere partito”.

 

Rapporti di produzione e sviluppo delle forze produttive

 

Per quanto riguarda la contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione, non pensiamo che il suo “affievolimento” sia all’origine “del fallimento dell’impostazione meccanicistica”. Dal nostro punto di vista, il meccanicismo non è una particolare espressione del materialismo storico, ma il prodotto di una sua errata interpretazione e come tale una delle tante varianti dell’idealismo.

 

L’equivoco, per il quale il materialismo storico e il meccanicismo sono stati e sono tuttora spesso assunti come sinonimi, è il frutto di una lettura alquanto lacunosa di Marx, equivoco favorito anche dall’idea della fatalità del progresso, propria dello scientismo neopositivista, imperante per gran parte del XIX e XX secolo. Per esempio, il famoso aforisma di Marx secondo il quale: “ Il mulino a braccia vi darà la società con la signoria feudale, e il mulino a vapore la società con il capitalista industriale[1], nonostante Marx nelle stesse pagine precisi che gli uomini possono cambiare “il loro modo di produzione, la maniera di guadagnarsi la vita” e “tutti i loro rapporti sociali“ soltanto “impadronendosi di nuove forze produttive”, dai più è stato interpretato come se per Marx la nascita di nuovi rapporti sociali fosse, in ultima istanza, la conseguenza ineluttabile dello sviluppo della tecnica e delle sue applicazioni al processo produttivo indipendentemente dai rapporti sociali esistenti. Indubbiamente, Marx ha dato un grande rilievo allo sviluppo delle forze produttive come fattore di sviluppo della società, ma non ha mai sostenuto che sviluppo delle forze produttive e sviluppo della società fossero coincidenti né tanto meno che le nuove formazioni sociali siano il sottoprodotto del solo sviluppo del primo.

 

In altre parole, per rimanere all’attuale formazione sociale, a nostro modo di vedere, la contraddizione non è fra un presunto fluire indipendente dello sviluppo della tecnica e delle forze produttive e i rapporti di produzione vigenti, ma è tutta interna al modo di produzione capitalistico. In buona parte del Primo Libro e Terzo libro del Capitale Marx dimostra la stretta connessione che esiste fra il processo di accumulazione del capitale, l’incessante modificazione della composizione organica del capitale, l’espulsione di forza-lavoro dai processi produttivi e la caduta tendenziale del saggio medio del profitto. Tendenziale, perché da questa medesima contraddizione si originano anche le ben note cause antagonistiche che si oppongono alla legge favorendo la conservazione del sistema.

 

La rivoluzione non è, dunque, solo il becchino della vecchia formazione sociale che ha già in sé la nuova, ma è soprattutto l’inizio di una nuova epoca di rapporti sociali.

 

Naturalmente, poiché essa non può dall’oggi al domani mettere a disposizione della società forze produttive completamente nuove, saranno le stesse forze che hanno caratterizzato la chiusura della vecchia formazione sociale a caratterizzare anche lo schiudersi della nuova. Ma, fatte salve le determinazioni comuni alla produzione nelle diverse epoche storiche, saranno i nuovi rapporti di  produzione scaturiti dalla rivoluzione ad orientare lo sviluppo della scienza, della tecnologia e delle forze produttive. Sviluppandosi nuovi rapporti di produzione avremo, quindi, anche nuovi orientamenti scientifici, nuove tecnologie e nuove forze produttive.

 

Quando affermiamo che con il monopolio la contraddizione si è “affievolita”, non intendiamo dire che essa è scomparsa o abbia cessato di operare quanto che, grazie al monopolio, lo sviluppo della scienza e della tecnologia è divenuto sempre più funzionale alle esigenze della conservazione capitalistica e perciò, in  qualche modo, anche la contraddizione fra sviluppo delle forze produttive e rapporti di produzione ha perduto l’immediatezza del suo potenziale dirompente per dilatarsi nello spazio e nel tempo. Ma, nel contempo, per questa stessa ragione, la frattura fra il progresso tecnico e quello civile e sociale tende ad approfondirsi sempre più e su una scala sempre più ampia. Nondimeno non sarà lo sviluppo capitalistico delle forze produttive a determinare automaticamente il crollo dell’attuale formazione sociale né tanto meno la nascita della nuova. Per entrambe le cose sarà in ogni caso necessaria la rivoluzione comunista[2].

 

 

 

L’Ideologia dominante e il pensiero-merce

 

Per quanto riguarda la relazione fra l’accresciuta produzione dei beni di consumo e l’affermarsi di nuove forme di trasmissione dell’ideologia borghese, “fermo restando – come scrivete voi – il concetto scientifico fondamentale di classe e la validità delle categorie concettuali con cui il marxismo definisce le classi e la loro funzione storica”, già Marx, nella famosa Introduzione del 1857 a Per la critica dell’economia politica metteva in evidenza che la produzione capitalistica, “Non produce solo … l’oggetto del consumo ma anche il modo di consumo, essa produce non solo oggettivamente ma anche soggettivamente” per cui “…Quando il consumo emerge dalla sua immediatezza e dalla sua prima rozzezza naturale… esso stesso come impulso è mediato dall’oggetto, e il bisogno di quest’ultimo che esso prova è creato dalla percezione dell’oggetto…La produzione produce perciò non soltanto un oggetto per il soggetto, ma anche un soggetto per l’oggetto. La produzione produce quindi il consumo 1) creandogli il materiale; 2) determinando il modo di consumo; 3) producendo come bisogno nel consumatore i prodotti che essa ha originariamente posto come oggetti. Essa produce perciò l’oggetto del consumo, il modo di consumo e l’impulso al consumo[3].

 

Nel caso specifico della società capitalistica, superata la fase iniziale in cui la produzione consisteva- ovviamente con mezzi e fini diversi- sostanzialmente nella produzione dei medesimi beni che si producevano nell’epoca precedente, a partire  dalla seconda metà del secolo scorso, almeno nelle metropoli capitalistiche, si è enormemente accresciuta la produzione di beni, e quindi anche di bisogni, sempre meno afferenti ai processi di produzione e riproduzione della vita degli individui e sempre  più alle esigenze del processo di accumulazione capitalistica. Oggi buona parte della produzione di merci non ha alcuna relazione con i bisogni derivanti dal processo di produzione e riproduzione della vita degli uomini, ma è relazionata a bisogni che essa stessa produce; cioè lo sviluppo della produzione capitalistica è giunto a un tal punto che una parte sempre più consistente di essa ha ragion d’essere solo e nella misura in cui produce nel contempo anche quel determinato bisogno, il modo e l’impulso al consumo di quella determinata merce. Si tratta di bisogni fittizi, ma che una volta imposti assumono la stessa importanza di quelli vitali. Ad esempio, non si può fare a  meno dell’automobile perché la gran parte dei centri di distribuzione è localizzata nelle periferie delle città. E questi possono essere allocati fuori dai centri urbani soltanto in quanto si è imposto in modo diffuso l’uso del mezzo di trasporto individuale, poco importa se a discapito di quello pubblico, dell’ambiente e della salute della collettività. “La fame è la fame – nota ancora Marx – ma la fame che si soddisfa con carne cotta, mangiata con coltello e forchetta, è una fame diversa da quella che divora carne cruda, aiutandosi con mani, unghie e denti.[4] Determinandosi quindi il bisogno, un determinato impulso al consumo, un modo di consumare, si impone di conseguenza anche un modo di vivere in cui, pur consumando tutti più o meno le stesse cose, ognuno è costretto nella gabbia del più esasperato individualismo così consono all’ideologia dominante. In tal modo essa si insinua nella coscienza degli individui quotidianamente, quasi a loro insaputa e a prescindere dai tradizionali sistemi di trasmissione quali l’istruzione o, più in generale, la produzione culturale. Insomma, una sorta di pensiero incorporato nelle merci che in un’altra occasione abbiamo definito pensiero-merce.[5]

 

Si aggiunga a ciò la potenza dei moderni mezzi di comunicazione di massa che in maniera più o meno subliminale trasmettono l’idea secondo cui esisti solo se consumi determinate merci e in quel determinato modo e il paradosso per cui individui che, pur essendo egualmente sfruttati, vestendo tutti allo stesso modo, mangiando e bevendo le stesse cose, percepiscono se stessi più come un unicum che come individui accomunati da una medesima condizione e facenti parte di una medesima classe, non appare più tale.

 

Non si tratta di rimpiangere un idilliaco stato di natura che non è mai esistito, ma di prendere atto che la moderna produzione capitalistica, imponendo determinate forme di consumo, determinati bisogni e stili di vita, favorisce la frantumazione del corpo sociale cosicché l’individualismo insito nell’ideologia borghese può pervadere in modo subliminale l’intero ambiente sociale quotidianamente. Tutto ciò, unito alla nuova organizzazione e divisione del lavoro e la conseguente precarizzazione del mercato del lavoro, ha fatto venire meno non poche delle condizioni che in passato sono state oggettivamente alla base del processo di produzione della coscienza di classe in sé del proletariato.

 

Da un punto di visita più squisitamente politico e più in generale della lotta di classe, questa realtà così modificata ci induce a ritenere molto improbabile l’insorgenza di movimenti che possano produrre, anche senza la presenza attiva e organizzata del partito comunista, eventi della stessa valenza classista della Comune di Parigi o del 1905 in Russia.

 

In conclusione, si tratta di prendere atto della straordinaria attualità della critica di Lenin allo spontaneismo e del fatto che il proletariato, oggi più che mai, non potrà darsi un’autentica coscienza comunista senza la presenza attiva ed operante del partito rivoluzionario.

 

Resta, invece, la necessità di riflettere criticamente sulle forme organizzative che esso dovrà darsi in relazione alle mutate condizioni di esistenza del moderno proletariato poiché riteniamo che la riproposizione sic et simpliciter delle esperienze passate non risponda alle mutate condizioni oggettive e soggettive che lo sviluppo della produzione capitalistica ha determinato.

 

Lo Stato a due dimensioni

 

Veniamo ora all’ultimo punto della nostra risposta ai compagni di Controverses che vi è risultato poco chiaro: il ridimensionamento dello stato nazionale a beneficio di agglomerati continentali.

 

Premettiamo che il passaggio in questione allude a una polemica con l’allora maggioranza del Ce di Battaglia Comunista sulla questione delle guerre di liberazione nazionale, per cui abbiamo dato in parte per scontata la conoscenza della nostra analisi sulle nuove forme del dominio imperialistico e del processo che le ha determinate e le cui prime radici affondano negli accordi di Bretton Woods del 1944.

 

Come è noto, con quegli accordi gli Usa imposero come mezzo di pagamento internazionale, nella loro sfera di influenza, il dollaro convertibile in oro, traendone una consistente rendita finanziaria. Ma è dal 1971, con la denuncia da parte degli Usa degli accordi di Bretton Woods e la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro, che ha inizio una nuova fase dell’imperialismo incentrata sull’imposizione, anche negli scambi internazionali, di un biglietto inconvertibile, di un pezzo di carta e/o i suoi derivati con impressa l’effige di G. Washington e il motto In God we trust, in sostituzione di una moneta-merce (l’oro).

 

In tal modo si è determinata la possibilità, per chi controlla la produzione del biglietto inconvertibile, di appropriarsi di plusvalore anche se estorto in aree economiche diverse dalla propria.

 

Per gli economisti borghesi -in particolare per quelli della scuola monetarista di M. Friedman- era la conferma della tesi secondo cui il plusvalore si genera nella fase della circolazione delle merci e non, grazie allo sfruttamento della forza-lavoro, in quella della loro produzione.

 

In realtà, con la rivoluzione del sistema dei pagamenti internazionali si è avuta la definitiva affermazione del dominio di quella particolare forma di capitale finanziario che Marx ha definito capitale fittizio.[6]

 

Inoltre, con la successiva liberalizzazione dei mercati finanziari internazionali, la cosiddetta globalizzazione e la conseguente eliminazione di ogni vincolo alla produzione e circolazione del capitale fittizio, anche le diverse frazioni della borghesia dei cosiddetti paesi periferici hanno potuto appropriarsi, sotto forma di rendita finanziaria, di quote crescenti del plusvalore prodotto su scala mondiale oltre quello prodotto dal proprio proletariato.

 

Da qui, il loro oggettivo interesse a integrare i propri flussi di capitale finanziario con quelli della metropoli imperialista di riferimento, piuttosto che ad affermare la propria autonomia nazionale. Fu in considerazione di tutto ciò che concludemmo, quando eravamo ancora in Bc, che l’epoca delle cosiddette guerre di liberazione nazionale era da considerarsi chiusa per sempre e che si era aperta una nuova fase dell’Imperialismo.

 

Infatti, se da un lato, attorno alla moneta statunitense andava costituendosi un blocco di interessi sovranazionale, i cui profitti derivavano soprattutto da transazioni denominate in dollari, dall’altro, e proprio in conseguenza di ciò, nei paesi che avevano un prevalente interscambio di merci indipendente dal mercato statunitense e dei suoi satelliti, andava maturando l’interesse a dotarsi, per i reciproci pagamenti, di un mezzo di pagamento comune a tutta l’area di appartenenza.

 

In tal modo essi potevano sottrarsi a quello che è stato definito il signoraggio del dollaro e attenuare l’impatto sulle loro economie delle politiche monetarie messe in atto dalla Federal Reserve. Con esse, infatti, questa trasferiva sull’intera economia mondiale sia il costo del mantenimento dello straripante apparato militare statunitense sia l’inflazione generata dalla produzione di dollari e titoli del debito pubblico necessaria a fronteggiare il crescente deficit della bilancia commerciale Usa.

 

Così ha visto la luce non solo l’Ue e l’euro, ma anche il Mercosur, il Nafta, la costituenda moneta unica degli emirati arabi e più recentemente, su iniziativa di alcune delle cosiddette Tigri Africane (Niger, Camerun, Algeria, Libia, Egitto e Sud Africa), la Banca Africana d’investimento, la Banca Centrale africana e il Fondo monetario africano (Fma), con l’obbiettivo di costruire un’area monetaria comune a tutto il continente africano.

 

E chissà che il recente attacco alla Libia non nasconda anche la volontà di strangolare nella culla questa eventuale nuova creatura.

 

A ulteriore chiarimento, ci corre l’obbligo di precisare che, in riferimento alla tendenza all’aggregazione per aree economico-finanziarie sovranazionali e le sue conseguenze sull’organizzazione degli Stati nazionali, in altre circostanze abbiamo parlato di tendenza alla costituzione di uno Stato a due dimensioni - una nazionale riservata essenzialmente alla funzione repressiva del proletariato interno e una sovranazionale riservata alla gestione delle politiche economiche comuni all’area considerata - e non di ridimensionamento dello stato nazionale. [7] Nella speranza di esser riusciti a rendere più chiaro il nostro punto di vista sulle questioni da voi sollevate, non ci resta che ringraziarvi per l’attenzione che ci avete riservato e augurarci che la discussione fra noi possa conoscere ulteriori sviluppi, convinti come siamo che prima di poter pervenire a una sintesi realmente compiuta delle questioni di cui qui abbiamo discusso- e non solo di queste- occorreranno sicuramente altri approfondimenti.

 

Istituto O. Damen

 

 


 

[1] K. Marx –  F. Engels - Miseria della filosofia – Opere Complete, Ed Riuniti, vol. VI pag 173

 

[2] Su quest’ultimo aspetto della questione ulteriori approfondimenti potete trovarli nel documento Sul concetto di decadenza di recente pubblicato sul nostro sito www.istitutoonoratodamen.it e nell’articolo Gli uomini, le macchine e il Capitale apparso sul n. 1/2010 della nostra rivista D-M-D

 

[3] K. Marx - Introduzione a Per la critica dell’economia politica - pag. 180 – Ed Riuniti, 1969.

 

[4] ibidem

 

[5] Vedi l’articolo Crisi e Ripresa della Lotta di Classe - Prometeo n. 6/2002.

 

[6] Per ulteriori approfondimenti sulla nozione di capitale fittizio vedi il nostro volume La crisi del Capitalismo – il crollo di Wall Street e in particolare i capitoli La crisi dei subprime rileggendo Marx e Il dominio della finanza.

 

[7] Vedi l’articolo Lo Stato a due dimensioni - Prometeo n. 10/1995.