Sulla guerra permanente e le sue cause

Creato: 16 Ottobre 2024 Ultima modifica: 16 Ottobre 2024
Scritto da Giorgio Paolucci Visite: 493

Tra capitalismo e umanità è ormai questione di "o lui o noi" (H. Kempf)

 

Non appena si profila la possibilità di un qualche accordo che possa far tacere le armi fra la Russia e l’Ucraina, anche solo con un armistizio o una tregua più o meno lunga, c’è sempre un qualche Stoltenberg, o un qualche suo emulo, che anziché adoperarsi affinché vada in porto, fa di tutto perché la guerra continui e si intensifichi, benché l’Ucraina sia ormai ridotta ad un cumulo di macerie. Non si fa altro che prometterle aiuti in armi sempre più potenti nonostante la maggior parte degli esperti in questioni militari avverta che, visti i reali rapporti di forza, sia materialmente impossibile che Kiev possa sconfiggere la Russia a meno che non intervenga direttamente la Nato con i suoi uomini e i suoi mezzi che, però, sarebbe quella terza guerra mondiale che tutti dicono di non volere, temendo che si trasformi in uno olocausto nucleare che metterebbe a rischio la stessa sopravvivenza della specie umana. Né le cose vanno diversamente per quel che riguarda il conflitto fra Israele e Hamas. Non passa giorno che gli Stati Uniti e la maggior parte dei loro alleati/vassalli non invochino la fine della mattanza a Gaza, ed ora anche in Libano, e il riconoscimento dello Stato palestinese secondo la formula "due popoli, due stati", nel mentre, però, forniscono a Israele ogni sorta di armamento.

 

Si parla solo di guerra

Di questa doppiezza fra intenzioni dichiarate e l’agire conseguente, la migliore conferma l’ha data la conferenza internazionale tenutasi il 15 e il 16 giugno scorsi a Bürgenstock (Lucerna) in Svizzera.

Nelle intenzioni dichiarate doveva porre le basi per poter finalmente arrivare a delineare i termini per una "pace giusta" fra l’Ucraina e Russia. Vi hanno partecipato ben 95 paesi ma - guarda caso - non la Russia che non è stata neppure invitata. Benché ufficialmente il tema all’ordine del giorno fosse la pace, in realtà, stando a quanto dichiarato in un’intervista rilasciata al settimanale svizzero Weltwoche, dal presidente della Serbia che vi ha partecipato: «Hanno tutti parlato solo di guerra. Nessuno vuole la pace, che è diventata una parola proibita… Si dice che dobbiamo vincere per assicurarci la pace futura... nessuno cerca di porre fine alla guerra... Non so se l’Occidente si stia sopravvalutando, ma credo stia sottovalutando la Russia e Putin.

In Europa tutti si comportano come grandi eroi, ma non dicono ai loro popoli che pagheranno un prezzo molto alto... Dovrebbero cercare di raggiungere un cessate il fuoco e poi negoziare per 10, 20, 30, 50 anni, non importa quanti: sono molto meglio di un solo giorno di aspri combattimenti come quelli in corso. Nato e Usa non possono permettersi di perdere la guerra in Ucraina. Ma anche Putin, se perde la guerra, perde tutto. Tutto è in gioco per entrambe le parti. Perciò ci avviciniamo all’abisso. Ma questo ci porta a un’altra domanda: chi è disposto a perdere 1, 2, 5, 10, 15 milioni di persone? Chiedetevelo. Io non voglio»¹

E - aggiungiamo noi - a quale scopo?

 

La democrazia dei signori

Secondo la narrazione dominante nel cosiddetto Occidente, in ballo ci sarebbe la difesa della libertà e della democrazia e il rispetto del diritto internazionale minacciati dal ritorno dell’Orso russo come ormai non accadeva dal crollo dell’Urss. Resta, però, che, per quanto questa narrazione venga reiterata ogni volta che si decide di fornire all’Ucraina nuove e armi, e sempre più potenti - ultimamente anche missili per colpire in profondità il territorio russo - contrasta a tal punto con lo stato delle cose da risultare sempre meno credibile. D’altra parte, come potrebbe esserlo quando i primi ad infrangere questi tanto decantati quanto imprecisati "valori dell’Occidente" sono proprio i paesi della Nato? La Serbia, la Libia, l’Iraq, l’Afghanistan e ora la mattanza della popolazione civile palestinese a Gaza e in Cisgiordania da parte dell’accoppiata Israele e Usa raccontano che in quanto a violazione del diritto internazionale e crimini di guerra il cosiddetto Occidente non ha rivali. Per non dire poi della sua tanto sbandierata democrazia.

É ormai così malconcia e sputtanata che più della metà degli elettori non vota più. E - come è accaduto ultimamente in Francia con la nomina a primo ministro del conservatore Barnes - quando lo fanno, ma non come vorrebbero le élite dominanti, si trova sempre il modo per eluderne l’esito a favore della conservazione dello status quo. Addirittura, in Ucraina - il paese che viene rappresentato come il suo ultimo baluardo - le elezioni sono state semplicemente abolite e tutte le opposizioni dichiarate fuori legge. Negli Usa, che pure pretendono di esserne il faro più luminoso, anche solo per partecipare alle elezioni sono necessari tanti di quei miliardi che può farlo solo un ristretto numero di oligarchi o loro prestanome. Non a torto Luciano Canfora l’ha definita: La democrazia dei signori.

 

La narrazione mainstream è talmente falsa che a crederci è rimasta, come confermano i sondaggi in tutta Europa, solo una ristretta minoranza e nemmeno tutta la classe di servizio della borghesia. Da qualche tempo, infatti, sembra prenderne le distanze anche una buona parte della stessa pubblicistica filooccidentale - almeno quella meno asservita alle direttive della Nato e delle lobby delle imprese (militari, energetiche, i grandi fondi di investimenti che le controllano) che grazie alla guerra realizzano profitti da capogiro.

Ne viene fuori, però, una narrazione, forse culturalmente più raffinata, ma non per questo meno fuorviante.

Per esempio, Lucio Caracciolo nel suo ultimo libro "La pace è Finita", scorge fra le cause di questa, che ormai si configura come un’autentica corsa verso la terza guerra mondiale, il declino dell’impero americano. Figlio però non delle contraddizioni strutturali immanenti al processo di accumulazione capitalistica di cui quel paese costituisce la punta di diamante, ma di una deriva di ordine "soprattutto culturale" e di un’accecante superbia imperiale con conseguente perdita del senso del limite anzi del Limes.

Scrive Caracciolo: «Al centro di tutto (dopo il crollo dell’Urss - n.d.r.) stava il paradigma americano come regola del mondo. Effettiva nell’Occidente in espansione, cuore della globalizzazione come affermazione del capitalismo di marca anglosassone e delle correlative istituzioni liberaldemocratiche… Umanità intesa America in atto o in potenza, illuminata dalla fiaccola della Statua della Libertà… Oggi rileviamo come il paradigma americano non sia riconosciuto universale. É anzi fonte di discordia nella stessa America e per estensione nel "suo" Occidente. Se un modello è contestato da chi lo ha prodotto e dovrebbe promuoverlo, non può pretendersi pilastro dell’ordine mondiale… L’impero americano è in apnea. Come tutti gli imperi, si è ammalato di superbia… Definiamo Antimpero questa fase dell’impero Americano. Gli Stati Uniti violano la regola di ogni impero: il limite. Limes, nell’archetipo romano. In senso spaziale… Però soprattutto culturale: senso della misura»²

Perciò: «Dialettica senza possibile sintesi, in accelerazione continua. Ormai fuori giri. Se invece di procedere verso il trionfo la storia marcia a caso, la tendenza all’estremo si radicalizza fino al parossismo. E produce guerre potenzialmente infinite perché infinibili. In senso doppio. Senza scopo e senza termine». ³

Ora, che nell’agire degli uomini operi anche una componente di ordine "culturale", anzi, meglio: ideologico, è indubbio. Ciò non toglie però che la mancanza del senso del Limes, sia incistato nel processo di accumulazione del capitale.

Grazie allo sfruttamento della forza-lavoro, infatti, i capitali investiti nella produzione della merci - giusto la formula D-M-D’ di Marx - si accrescono continuamente. Per il capitalista investire un capitale 100 per ritrovarsene alla fine uno di eguale entità, non ha alcun senso, essendo il suo scopo non la produzione di beni per la soddisfazione dei bisogni della società, ma di merci in vista della realizzazione di un determinato profitto. Senza una fondata speranza che lo realizzerà non investirà neppure un centesimo. E così che la massa dei capitali da investire cresce continuamente almeno fino a quando sussistono le condizioni affinché tutto il processo possa svolgersi con successo.

Ma affinché l’accresciuta massa dei capitale possa essere reinvestita con successo è necessario che con essa crescano, almeno nella stessa proporzione, anche tutti gli altri fattori della produzione, a cominciare dalla forza-lavoro da sfruttare e via via tutti gli altri fattori produttivi (forza-lavoro disponibile, materie prime, energia ecc.).

 

L’accumulazione del capitale non ammette limiti

Ne consegue che si investono capitali via via sempre più grandi che a loro volta aspirano a valorizzarsi in una sorta di spirale che tende all’infinito. Non c’è senso del Limes che tenga, questa è la legge fondante del capitalismo: accumulare capitali in progressione geometrica in un contesto oggettivo che invece è di per sé limitato.

Da qui la spinta permanente a infrangere questi limiti.

Così per supplire a una eventuale insufficiente quantità di forza-lavoro e tenerne basso il suo costo, si introducono nei processi produttivi macchine sempre più efficienti; oppure si prolunga fino all’estremo la durata della giornata lavorativa o, a dispetto della tanto sbandierata sacralità della famiglia, si arruolano nell’esercito della forza-lavoro, oltre alle donne, anche i bambini quando non tutte le tre cose insieme. A suo tempo, negli Usa è stata ripristinata perfino la schiavitù. Cosa che, peraltro, seppure sotto altre forme, si ripete ancora oggi, tanto in Europa quanto negli Usa, costringendo gli immigrati all’illegalità per renderli più facilmente ricattabili dai loro sfruttatori. Peggio ancora quando a mancare o a essere insufficienti per lo svolgimento dei processi produttivi sono le fonti energetiche o le materie prime da trasformare. In questo caso non si va tanto per le spicce: si invadono manu militari interi paesi - quando non interi continenti - e si fa man bassa delle loro risorse.

 

Sovraccumulazione del capitale e guerra: un binomio inscindibile.

Nondimeno la spinta alla riproduzione allargata del capitale, ossia la fame di profitti, è così potente che periodicamente si genera una quantità di capitali di gran lunga maggiore di quella che può essere reinvestita con successo in ulteriori cicli produttivi. È il fenomeno della sovraccumulazione. Ecco allora che tutto si ferma e la crisi devasta l’intera società. C’è un solo modo per uscirne: la guerra. Solo grazie alla guerra e alle sue immani distruzione il processo di accumulazione del capitale può riprendere. Non si contano le guerre, di cui due a scala mondiale, che hanno costellato la storia del capitalismo dalla sua nascita fino ai nostri giorni. Senza la guerra il capitalismo non sarebbe sopravvissuto alle sue stesse contraddizioni. Il che vale a dire che per il capitalismo, la guerra, al pari dello sfruttamento della forza lavoro, è una condizione esistenziale e oggi come mai prima in tutta la sua storia. Infatti, almeno a partire dai primi anni ’70 del secolo scorso - come già in altre circostanze abbiamo avuto modo di argomentare - il fenomeno della sovraccumulazione da ciclico è divenuto permanente. È accaduto, infatti, che nel corso del tempo per effetto della legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto, una massa crescente di capitali non ritenendo sufficientemente vantaggiosa la sua trasformazione in capitale industriale, si è riversata nel sistema del credito essendo molto più vantaggioso acquistare titoli del debito pubblico, azioni, obbligazioni e/o loro derivati che investire nell’industria.

 

Una contraddizione insanabile

Di conseguenza, mentre la fabbrica della finanza è cresciuta in progressione geometrica, nel settore manifatturiero si è contratta - anche per effetto della forte contrazione dell’impiego di lavoro vivo dovuta alla crescente automazione dei processi produttivi - la sua capacità di generare plusvalore almeno in ragione diretta della crescente quantità dei capitali da remunerare e ciò nonostante una gran parte di esso sia stato trasferito in aree con salari centinaia di volte più bassi di quelli in patria.

Il fatto che gran parte del flusso del plusvalore provenisse dall’estero, ha rafforzato, per dirla con Marx: «L’idea che rappresenta il capitale come un automa che si valorizza di per sé stesso» facendo così perdere completamente di vista il rapporto indissolubile che intercorre fra la valorizzazione effettiva del capitale e lo sfruttamento della forza-lavoro impiegata nella produzione delle merci. A tal punto che ormai si produce, sotto forma di capitale fittizio, una gran quantità di capitale finanziario, ma che, pur non generando una sola briciola di plusvalore, pretende, per la sua valorizzazione, di appropriarsi lo stesso di una sua quota parte sempre più grande. Di più: cresce alla velocità della luce e pretende di valorizzarsi alla stessa velocità, mentre la linfa di cui si nutre, presupponendo la produzione delle merci e la loro vendita, ha tempi molto più lunghi. Così, come il vampiro della famosa metafora di Marx: «…che si ravviva soltanto succhiando il lavoro vivo e più vive quanto più ne succhia», pur azzannando alla gola ogni possibile fonte di profitto non è mai sazio abbastanza.

E lo pretende nonostante rifugga dalla fabbrica dell’industria che lo genera. Ne deriva un’enorme contraddizione. Infatti, dal punto di vista del singolo vampiro, nella misura in cui il suo capitale accrescendosi si valorizza, l’investimento nella fabbrica della finanza vale quello nella produzione delle merci; ma, dal punto di vista del processo di accumulazione complessiva del capitale, essendo quella valorizzazione puramente fittizia, genera solo sovraccumulazione.

 

O lui o noi

Da qui la necessità della guerra permanente fino al punto da essere divenuta per la borghesia una sua necessità esistenziale. Essa è fonte di enormi profitti e soprattutto, grazie al ciclo distruzione/ricostruzione che attiva, uno straordinario moltiplicatore della domanda aggregata resa nel corso degli ultimi decenni alquanto asfittica dall’impoverimento costante e generalizzato dei lavoratori. Inoltre, favorendo il rialzo dei prezzi di quasi tutti i beni di prima necessità (energetici, agricoli, alimentari) permette la realizzazione di enormi extraprofitti, ovviamente sempre ed esclusivamente a scapito del mondo del lavoro. Che poi ne possa scaturire una guerra nucleare mondiale e l’estinzione della specie umana, non è affare che riguarda la borghesia talché ha davvero ragione Hervé Kempf quando scrive che: «Tra capitalismo e umanità è ormai questione di "o lui o noi"».

La qualcosa è assolutamente inconcepibile per l’intellettuale borghese secondo cui il capitalismo è come un dono della natura e non ha alternativa, quindi eccolo sostenere, se non la necessità della guerra, che essa è connaturata all’uomo oppure che si tratta di una questione "essenzialmente culturale" riconducibile alla superbia, quando non alla follia di questo o di quell’attore della scena politica internazionale e non, invece, alle istanze di conservazione del sistema capitalistico già da un pezzo al capolinea della storia e perciò solo fonte di efferata violenza e barbarie. Né c’è via di mezzo: o il comunismo e la vita o il capitalismo e la morte.

 

[1] Cit. tratta da M. Travaglio - Qualcosa in Serbo - Il F.Q. del 21.06.2024

[2] L. Caracciolo – La pace è finita – Così ricomincia la storia in Europa- Ed. Feltrinelli- pag.99

[3] Limes n.4/2020 - Fine della guerra - Editoriale - 11

[4] In particolare, al riguardo segnaliamo: Il Dominio della Finanza e Sulla crisi dei subprime rileggendo Marx

https://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/164-dominiofinanza

https://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/161-subprimemarx

[5] Per ulteriori approfondimenti sull’argomento vedi: La legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto

https://www.istitutoonoratodamen.it/index.php/questionieconomiche/162-cadutasaggio

[6] K. Marx – Il Capitale – Libro Terzo- Cap- 29° - pag. 645 – Einaudi Editore.

[7] K. Marx – Il Capitale – Libro Primo – cap. 8° - pag. 281-282 – Einaudi Editore.

[8] H. Kempf, Que créve le Capitalisme - cit. tratta da: F. Lordon – Figure del Comunismo – Ed. Ponte alle grazie. pag. 283.