Considerazioni sulla presunta scomparsa delle classi sociali

Creato: 29 Giugno 2019 Ultima modifica: 29 Giugno 2019
Scritto da Carmelo Germanà Visite: 1072

Dalla rivista D-M-D' n° 12

classisocialiIl mondo occidentale ha sempre creduto di essere al centro della storia e protagonista dei grandi eventi. Ammesso e non concesso la veridicità di tale assunto, oggi i cambiamenti sul pianeta e le sue direttrici storiche vedono protagonista l’Oriente con due giganti in prima linea: l’India e soprattutto la Cina. Negli ultimi decenni la classe operaia è enormemente cresciuta in Oriente e si è parzialmente ridotta in Occidente. Il saldo è decisamente in attivo. Ma ciò che più conta è che i lavoratori occupati, i disoccupati, e tutti coloro che sono costretti a vendere la propria forza lavoro per sopravvivere, in una parola il moderno proletariato internazionale è enormemente cresciuto a fronte della concentrazione della ricchezza e dei mezzi di produzione in poche mani. Verosimilmente dal levante potrebbe soffiare il vento della ripresa della lotta di classe.

E’ passato un secolo dalla rivoluzione d’Ottobre in Russia e i suoi insegnamenti le speranze per i lavoratori di tutto il mondo sembrano svaniti. Il cosiddetto socialismo reale, seguito alla sconfitta della rivoluzione a causa del suo isolamento internazionale, evento dove per la prima volta il proletariato giunse al potere per un breve periodo di tempo, avrà conseguenze nefaste perché dietro la caricatura  del governo operaio e contadino in salsa staliniana, si stava consolidando per un lungo periodo storico una feroce dittatura. La Russia era governata da una casta di burocrati che aveva accentrato tutto il potere politico ed economico su di sé trasformandosi, in quanto gestori dei mezzi di produzione e quindi agenti e beneficiari dello sfruttamento dei lavoratori, in una vera classe sociale privilegiata.

Oggi quei fatti pesano come macigni sulle coscienze dei proletari e di tutti coloro che vivono lo sfacelo capitalistico passivamente sfiduciati, che non vedono alcuna possibilità di cambiamento per la quale valga la pena lottare, dove l’ideologia dominante ha imposto il suo pensiero unico avendo avuto ieri come oggi buon gioco a equiparare il crollo dei vecchi regimi dell’est con la fine dell’idea e del progetto comunista, facendo credere che oltre il capitalismo non può esservi nulla, che la storia qui ha avuto il suo compimento e la sua fine.

Malgrado quanto detto e l’oggettiva stagnazione della lotta di classe, la borghesia è molto attenta, soprattutto in tempi di crisi, a monitorare e prevenire un’eventuale risveglio della coscienza proletaria, continuando a somministrare massicce dosi di propaganda velenosa allo scopo di preservare i propri interessi e impedire qualsiasi critica che possa metterne in discussione il potere.

Sarebbe straordinariamente auspicabile per la classe dominante del vigente sistema economico e sociale, corroborata dai propri pensatori incaricati di produrre teorie su misura, relegare nel dimenticatoio della storia l’esistenza delle classi sociali, della lotta di classe, e cancellare per sempre l’aspirazione della classe subalterna all’uguaglianza e all’emancipazione della società, finalmente liberata dallo sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Mentre il sistema capitalista sta conducendo nel baratro l’umanità, si tenta di far credere che tutto va bene e che alle difficoltà passeggere di oggi seguirà nuovo sviluppo e benessere per tutti, basta volerlo. Soprattutto, diciamo noi, basta fare le capriole e invertire i termini delle questioni per tentare di inculcare false prospettive nel pubblico ritenuto, evidentemente, poco consapevole. E’ quanto cercano di mettere in atto gli economisti borghesi, sfornando una infinità di ragionamenti fasulli a giustificazione di una realtà sempre più insopportabile, ne riportiamo un esempio eloquente: “Negli anni Cinquanta, gli anni d’oro di Detroit, ogni operaio dell’azienda produceva un media di sette auto l’anno. Oggi ne produce 29 l’anno. Il calcolo dei posti di lavoro persi è molto semplice: per fabbricare ogni auto oggi la General Motors impiega un numero di operai quattro volte inferiore a quello del 1950… la produttività industriale sta distruggendo posti di lavoro nel settore (nelle fabbriche manifatturiere in genere, ndr), ma ci sta rendendo, in media, più ricchi.”[1]

Un’affermazione quest’ultima sconcertante, più ricchi chi? Se l’autore si riferisce ai già ricchi non c’è nessun dubbio che sia così, ma la stessa cosa non si può dire per chi perde il posto di lavoro e va a ingrossare le fila dell’esercito dei disoccupati. E’ risaputo che la crisi economica di questi ultimi dieci anni ha polarizzato la ricchezza in poche mani e diffuso maggiore povertà tra la popolazione mondiale. Il nostro economista di successo, contrariamente ai dati di fatto, prosegue elencando le opportunità che la rivoluzione tecnologica metterà a disposizione di coloro che le sapranno cogliere. Quindi elogia il popolo americano che si sposta continuamente nell’arco della propria vita lavorativa in cerca di occasioni e mette in guardia gli italiani e in generale gli europei poco disposti a muoversi. In particolare redarguisce i giovani meridionali italiani come segue: “In alcune parti del Nord Italia, gli impieghi ben retribuiti abbondano e la disoccupazione è quasi bassa. Nel Sud c’è poco lavoro, i salari sono bassi e la disoccupazione è elevata. Rinunciando a trasferirsi al Nord, i giovani della Sicilia e della Campania finiscono per innalzare il livello di disoccupazione della loro regione, determinando una perdita di benessere e inficiando il potenziale di crescita dell’intero paese.”[2]

La causa della pessima situazione italiana, dunque, sarebbe colpa dei giovani che non vogliono staccarsi dalla famiglia per andare a lavorare al Nord, dove ci sarebbe tanto lavoro ben retribuito. Questa favola contrasta palesemente con la realtà e con il fatto che l’emigrazione dal Sud è ripresa in questi anni, anche verso l’estero, mentre i lavori che i giovani perlopiù trovano al Nord, quando ci riescono, sono precari, dequalificati e sottopagati.

Un altro esempio, sempre per restare in Italia, ci viene offerto dall’Istat a proposito della composizione sociale del bel paese. La 25esima edizione del Rapporto annuale sulla situazione economica e sociale pubblicato quest’anno dall’Istituto nazionale di statistica, apporta stupefacenti novità nella classificazione della società italiana del 2016. Invece delle classi sociali, divenute obsolete secondo l’Istat, si cambia narrazione per inserire i gruppi sociali. Si sostituisce all’oggettiva composizione e natura del Capitale, ossia al rapporto strutturale e sostanziale tra borghesia e proletariato, una generica distinzione sociologica della popolazione divisa in nove gruppi sociali in base al reddito. Pertanto attraverso tale metodologia si inventano categorie come: famiglie a basso reddito con stranieri o con soli italiani, giovani “blu collar” (i colletti blu), famiglie tradizionali della provincia, famiglie degli operai in pensione e via di seguito. Siamo nella totale mistificazione della realtà, operazione cosciente di un ente al servizio del sistema per mascherarne le magagne. La confusione mentale derivante da informazioni costruite in tale modo si dipana quando si percepisce cosa sta dietro a tutto questo: la volontà di contrapporre gli uni a gli altri coloro che vivono del loro lavoro o sono pensionati, tra chi ha un impiego stabile e chi è precario, oppure additando a insopportabili sprechi i presunti privilegi generazionali nelle stratificazioni popolari della società, ecc.

A parte gli sforzi dell’ideologia dominante per addomesticare e contenere il malcontento all’interno del quadro capitalista, non di meno la situazione economica e sociale ha subito profondi mutamenti negli ultimi decenni e ancora più drastiche sono le differenze con il capitalismo dell’inizio del secolo scorso, quando con più vigore si manifestò la lotta di classe a livello internazionale culminata con la presa del potere del proletariato nella Russia zarista. Quali differenze sono intervenute oggi rispetto a ieri affinché le perturbazioni sociali da una scala molto alta si riducessero al lumicino dei nostri giorni malgrado la gravità della crisi? Diverse sono le cause, tra le quali la mutata composizione della classe lavoratrice, come vedremo più avanti, andata di pari passo con i cambiamenti avvenuti a più riprese nell’apparato produttivo, soprattutto nei paesi avanzati, innescata dalle trasformazioni tecniche del capitale nella sua continua esigenza di aumentare la produttività del lavoro. Nei precedenti decenni, rispetto a oggi, il capitalismo era stato in grado di consolidare una significativa aristocrazia operaia più vicina agli interessi aziendali che a quelli dei propri compagni di lavoro, inoltre il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione rafforzavano la conservazione dello status quo. Sulla scia del boom economico seguito al secondo dopoguerra alla classe lavoratrice fu possibile accedere ai consumi su larga scala. In questo modo la borghesia riuscì a integrare al suo carro le masse proletarie concedendo, sia pure a seguito di significative mobilitazioni dei lavoratori, welfeare, tutele sindacali, salari più alti, ecc. funzionali anche alle proprie necessità che vedevano nell’incremento della domanda aggregata dei soggetti economici un’opportunità di smercio della crescente offerta di beni e servizi.

Più profondo e infido è un altro aspetto del moderno capitalismo: il pensiero-merce, così da noi definito in quanto la merce ha potuto incorporare in se stessa anche una specifica caratteristica ideologica riproducente i rapporti sociali di asservimento dei proletari al capitale. Ossia la particolarità della merce di infondere nell’individuo consumatore una sorta di messaggio subliminale capace di renderlo dipendente dall’oggetto che dovrebbe soddisfare un suo presunto bisogno. Un impulso al consumo irrazionale di prodotti fittizi non attinenti direttamente alla produzione e riproduzione della vita, ma del tutto subordinati alle esigenze del processo di accumulazione capitalistico.[3]

Il motivo principale, però, alla base del disarmo ideologico e politico che contraddistingue l’odierno proletariato internazionale è stato l’implosione del presunto socialismo reale sovietico nel 1991. La sconfitta della rivoluzione d’Ottobre, a cui fece seguito la controrivoluzione staliniana, ha avuto conseguenze devastanti sulla coscienza della classe a cui fu fatto credere che in Unione Sovietica si stava costruendo il socialismo. Il contagio nefasto e le scorie prodotte da quel fallimento continuarono in altre forme quali il maoismo, poi il castrismo, e di seguito con tante altre ideologie nazional-borghesi che in qualche modo si volevano falsamente ricondurre al marxismo. Mentre, da una parte, la borghesia aveva buon gioco a propagandare il comunismo come il male assoluto, dall’altra, prestavano il fianco all’inganno i partiti comunisti ufficiali eredi dello stalinismo e la sinistra extraparlamentare post ‘68, la cui critica superficiale del socialismo reale finì per alimentare un riformismo radicale e nuova confusione. Il risultato, oggi, è sotto i nostri occhi, il capitalismo in crisi attacca il proletariato ovunque, la resistenza è debole e disunita, le sparute avanguardie ben lontane dal poter dare vita ad una pur minima organizzazione comunista capace di incidere nella classe e negli eventi storici. La denigrazione e la rimozione della prospettiva comunista dall’orizzonte proletario è, in questo momento, una grande vittoria per la borghesia. Fare riemergere la possibilità e la necessità di una società senza sfruttamento, ovvero l’affermazione della comunità dei liberi produttori associati, che nulla ha a che vedere col capitalismo di Stato, è un passaggio necessario e decisivo. La visione e il bisogno di un mondo diverso per il quale vale la pena lottare è un fattore imprescindibile alla ripresa della lotta di classe.

 

Le condizioni della forza lavoro in caduta libera

Sin dalle origini la produzione capitalistica si caratterizza per la continua ricerca di soluzioni allo scopo di incrementare l’estrazione di plusvalore dallo sfruttamento della forza lavoro. La spinta a realizzare il massimo profitto, la concorrenza, le crisi, inducono il Capitale a trovare nella tecnologia lo strumento più idoneo per aumentare la produttività del lavoro a sostegno del processo di accumulazione. Il macchinismo lo caratterizza già dall’Ottocento, ma all’inizio del Novecento si aggiungono nuovi elementi per aumentare la produttività del lavoro come la standardizzazione del processo produttivo mediante l’organizzazione scientifica del lavoro, sia per quanto riguarda una più spinta parcellizzazione del lavoro da eseguire attraverso tempi e metodi prestabiliti dalla direzione aziendale (Taylorismo), sia spingendo ulteriormente questo processo attraverso l’introduzione della catena di montaggio (fordismo). Quanto evidenziato da Marx nell’analizzare la condizione di abbrutimento dell’operaio ridotto a schiavo e appendice della macchina, qui trova piena conferma.

Successivamente, negli anni settanta dello scorso secolo, quando il ciclo espansivo del dopoguerra inverte la rotta e i segnali di crisi cominciano a farsi sentire si afferma il toyotismo. Il nuovo dispositivo concepito per spremere meglio l’operaio, vuole sopperire alla rigidità della fabbrica fordista e coinvolgere fideisticamente i lavoratori alle sorti dell’azienda. Allo scopo vengono creati i gruppi di lavoro, ovvero il lavoro di squadra e interdipendente che lega i singoli al raggiungimento degli obiettivi. Insomma siamo giunti alla fabbrica snella che produce in base alle richieste del mercato in tempo reale, dove i lavoratori sono costretti a controllarsi reciprocamente in un rapporto opprimente e coercitivo a tutto vantaggio dell’ impresa.

Più di recente, il modello capostipite della insaziabile ingordigia capitalista nei confronti dei lavoratori è il sistema Wal-Mart, la più grande catena commerciale del mondo di ipermercati. Qui è riassunto il peggio dei modelli precedenti, oltre al fatto che i dipendenti sono sottopagati, senza tutele di nessun tipo, in buona parte precari, sorvegliati e minacciati nel caso volessero organizzarsi per far valere le loro rivendicazioni. In quanto monopolista di una grossa fetta di mercato Wal-Mart impone i suoi metodi anche ai propri fornitori in tutto il mondo, in particolare alle piccole e medie imprese industriali, costringendole ad abbassare i prezzi sino allo strozzinaggio, con conseguenze pesantissime per i lavoratori di questi comparti.

Oggi siamo entrati nell’era dell’intelligenza artificiale dove le macchine sono sempre più sofisticate e in continuo progresso. L’introduzione dei robot ancora limitata negli anni novanta, prende piede successivamente sino a prospettare per il futuro un utilizzo massiccio con conseguenze disastrose per l’occupazione. Mentre le innovazioni tecnologiche precedentemente toglievano lavoro a una parte di operai che comunque trovavano un nuovo impiego in altri rami della produzione, adesso non è più così, perché il passaggio dalla Old alla New Economy ha prodotto, secondo alcuni economisti, Il Grande Disaccoppiamento, cioè una netta divaricazione tra l’aumento della produttività del lavoro e l’occupazione, aumentano i robot e diminuiscono i lavoratori.[4] Sulle conseguenze sociali di questa nuova rivoluzione tecnologica abbiamo già scritto.[5] Piuttosto va sottolineato che non passerà molto tempo, probabilmente, affinché il meccanismo di funzionamento capitalistico ricadrà in una crisi ancora più profonda di quella che ha caratterizzato l’ultimo decennio. Se da una parte aumenterà enormemente la produttività del lavoro, dall’altra diminuiranno i lavoratori, ovvero la base da cui si estrae il plusvalore. Pur spremendo maggiormente il singolo individuo ad un certo punto ciò non sarà sufficiente a compensare la riduzione della massa operaia sfruttabile. Pertanto la crisi valoriale del Capitale, cioè l’insufficienza del plusvalore totale ottenuto dallo sfruttamento dei lavoratori al fine di rendere vantaggioso l’investimento, emergerà con maggiore forza. Questa è la contraddizione sostanziale del capitalismo: la costante ricerca di ogni impresa di sbarazzarsi dei dipendenti in esubero per sostituirli con nuove macchine darà luogo, nel corso del tempo e ancora una volta, alla sovraccumulazione di capitali con conseguente caduta del saggio medio del profitto. I capitalisti non lo sanno ma sono costretti a farlo, l’impulso alla sopravvivenza impedisce loro di comprenderne le conseguenze, la concorrenza che mette l’uno contro l’altro li obbliga a intraprendere quella strada: “questa guerra ha come carattere specifico che le battaglie in essa vengono vinte meno con l’arruolamento di nuove armate di operai che con il loro licenziamento. I comandanti, i capitalisti, fanno a gara a chi può licenziare il maggior numero di soldati dell’industria.”[6]

Se la borghesia farebbe volentieri a meno del lavoro retribuito, invece, per il lavoro non pagato ha grande considerazione. Lo vediamo in mille occasioni, soprattutto a riguardo dello sfruttamento dei giovani. In Italia, ma vale per tutti i paesi europei avanzati, sono indicativi gli esempio di Expo, degli stage e dell’apprendistato, dell’alternanza scuola-lavoro, ecc. Invece, e questo riguarda tutti noi, abitualmente non ci rendiamo nemmeno conto di tutto il lavoro gratis che svolgiamo da consumatori: “L’uso delle tecnologie per parcellizzare il processo produttivo mette a lavoro l’utente in buona parte delle proprie attività quotidiane. Pensiamo al lavoro che sostituisce il benzinaio alla pompa di benzina o il cassiere al supermercato, per non parlare al lavoro allo sportello bancario, agli sportelli automatici per comprare i biglietti alla stazione del treno, all’automatico dei tabacchi o all’aeroporto quando facciamo il check in da soli; all’auto-certificazione che sostituisce la visita infermieristica negli ospedali… L’automazione del processo produttivo esternalizza ampie parti del processo produttivo sull’utenza costringendo a integrare l’acquisto di beni e servizi con lavoro non pagato.”[7] Non soltanto i proletari sono costretti a comprare prodotti con salari sempre più bassi, oltretutto devono aggiungere, in tante e sempre più numerose circostanze, l’onere costituito dal lavoro erogato gratuitamente nell’atto dello scambio.

Crescente proletarizzazione della popolazione mondiale

Dal 2007 gli abitanti delle città hanno superato il 50% della popolazione del pianeta. Nei paesi della periferia capitalistica l’immenso esodo dalle campagne ha trasformato piccoli borghi in immense megalopoli. Mentre nei paesi ricchi l’agricoltura rappresenta un settore marginale in termini occupazionali, nel terzo mondo, malgrado la migrazione nelle città, la popolazione delle campagne costituita  in maggior parte da contadini poveri è ancora molto numerosa. Nella stessa direzione vanno tutte quelle attività cosiddette liberali: piccoli proprietari, artigiani, bottegai, lavoratori autonomi, ecc. ridotti alla bancarotta dal grande capitale. Ciò non significa che queste professioni sono scomparse, ma semplicemente che la tendenza le affretta a una crescente marginalizzazione. Malgrado i dati statistici vadano presi con precauzione, vi è una certa convergenza tra i risultati della Banca Mondiale e l’Organizzazione internazionale del lavoro (ILO) sull’occupazione mondiale. Attualmente sono impiegate in attività lavorative quasi 3.400.000.000 persone, il 20% in più rispetto a inizio secolo. Circa il 30%, un miliardo di persone, lavorano nell’industria intesa nel senso più ampio. Un altro miliardo di individui è collocato nel ramo dei servizi. Il rimanente fa parte del settore agricolo. Nel complesso della popolazione mondiale attiva 2.800.000.000 sono individui salariati, quindi la stragrande maggioranza di tutti coloro che sono impegnati in una qualsiasi attività lavorativa, pari al 42% della popolazione totale. Se confrontiamo questi numeri con il 1980, per esempio, dove i salariati erano 1.700.000.000, il 37% della popolazione del pianeta, possiamo osservare il costante dilatarsi del processo di proletarizzazione a scala globale. Naturalmente il lavoro salariato considerato nell’insieme è frantumato in tante forme di sfruttamento e si differenzia nei vari paesi. Il classico rapporto di lavoro stabile tra dipendente e azienda, sancito da un contratto a norma di legge, che conosciamo in Europa e in altri paesi avanzati, costituisce una parte minoritaria della relazione tra capitale e lavoro a scala globale. Sebbene anche nei paesi avanzati il rapporto di lavoro continua a degradare, altrove la realtà è un inferno senza legge e diritti, fatto di fabbriche galera, lavoretti saltuari, disoccupazione, bambini schiavizzati e tanto altro.

Tutto questo contraddistingue la disumana dinamica del processo di accumulazione capitalistico, caratterizzata da violenza, miseria e conseguente accelerazione della polarizzazione delle classi sociali. Esattamente quanto previsto da Marx con grande lungimiranza, anticipando i futuri mutamenti del capitalismo del suo tempo sino alla raggiunta senilità dei nostri giorni. Infatti, sempre di più la società va dividendosi tra salariati, cioè coloro che per sopravvivere sono costretti a vendere la propria forza lavoro, e proprietari dei mezzi di produzione sempre più ricchi, potendo sfruttare una manodopera numerosissima e a buon mercato. La crisi capitalistica non fa che accentuare tutto questo, basti pensare che oggi 8 uomini al mondo possiedono 426 miliardi di dollari, pari al reddito di 3,6 miliardi di persone, quasi la metà della popolazione mondiale.

Limiti della tecnologia

A fronte di dati così eloquenti messi a disposizione dalle istituzioni ufficiali, evidentemente utilizzati solamente dagli addetti ai lavori e non pubblicizzati al grande pubblico, si contrappone l’ideologia dominante di intellettuali, professori, politici e opinionisti di tutte le specie che propagandano la fine del lavoro e delle classi sociali. Come abbiamo visto, ciò è falso, inoltre non può esistere capitalismo senza lavoro, e più precisamente senza forza lavoro sfruttabile da cui ricavare plusvalore, condizione indispensabile per la sopravvivenza del modo di produzione vigente. E’ vero che il numero di lavoratori nelle manifatture dei paesi occidentali è diminuito, ma meno di quanto si voglia far credere, il calo mediamente è tra il 5 e il 18%, a eccezione della Germania che invece ha visto crescere il proprio settore manifatturiero.

La contrazione dell’industria in occidente, in realtà, non è stato altro che un enorme trasferimento di interi settori produttivi nei paesi periferici a basso costo del lavoro. In questi ultimi, come Cina, India, Brasile, Bangladesh ecc., sono sorte gigantesche fabbriche che ripercorrono dinamiche simili al capitalismo classico occidentale. Le conseguenze sociali della crisi economica e del decentramento produttivo in occidente sono state molto negative, causando un netto peggioramento delle condizioni di vita dei lavoratori e un processo di proletarizzazione dall’alto della piccola borghesia delle professioni e del lavoro autonomo, ma soprattutto dei giovani diplomati e laureati precarizzati e sottopagati. Nei paesi di nuova industrializzazione, invece, la spinta impressa dagli investimenti occidentali anche allo sviluppo delle potenzialità locali, ha generato una classe operaia industriale imponente e con grandi potenzialità. Basti pensare che l’industria cinese impiegava 20 milioni di operai nel 1960, 77 milioni nel 1980, e 210 milioni oggi.

Le conclusioni che possiamo trarre dai processi in atto indicano inequivocabilmente che il proletariato è una classe mondiale indispensabile al capitalismo e in aumento. Per quanto riguarda la cosiddetta industria 4.0, cioè l’introduzione della tecnologia digitale e della robotica nei processi produttivi, trasformazione già in atto da tempo sia in occidente che nei paesi emergenti, l’impatto sarà sicuramente considerevole. Sicuramente si perderanno molti posti di lavoro con conseguente dilatazione dell’emarginazione sociale. Allo stesso tempo, come abbiamo già detto, bisogna vedere sino a che punto e a quali ritmi le innovazioni tecniche potranno spingersi sempre più avanti al fine di giustificare la profittabilità degli investimenti. Un capitalismo già malato e affamato di plusvalore potrebbe cadere vittima dei suoi stessi eccessi produttivistici e tecnologici: “Nella stessa misura in cui il tempo di lavoro – la mera quantità di lavoro – è posto dal capitale come unico elemento determinante, il lavoro immediato e la sua quantità scompaiono come principio determinante della produzione – della creazione di valori d’uso – e vengono ridotti sia quantitativamente a una proporzione esigua, sia qualitativamente a momento certamente indispensabile, ma subalterno, rispetto al lavoro scientifico generale, all’applicazione tecnologica della scienze naturali da un lato, e rispetto alla produttività generale derivante dall’articolazione sociale nella produzione complessiva dall’altro – produttività generale che si presenta come dono naturale del lavoro sociale (benché sia, in realtà, prodotto storico). Il capitale lavora così alla propria dissoluzione come forma dominante della produzione.”[8]

Una svolta possibile

La quiete di cui gode la borghesia da troppo tempo non è destinata a durare in eterno. In fondo, in un’epoca di sostanziale pace sociale in relazione alla gravità degli attacchi del capitale contro la classe lavoratrice, la lotta di classe, per quanto debole, dimostra di essere un dato di fatto insopprimibile sinché continueranno a persistere rapporti di sfruttamento tra gli uomini. Il conflitto sociale si è espresso anche con una certa intensità in varie località della terra, soprattutto in un paese in rapida ascesa come la Cina. Quando e come il fuoco che arde sotto la cenere divamperà con tutta la sua forza è impossibile prevedere, tanto più inutile è cimentarsi in congetture prive di qualsiasi significato reale. Però di una cosa possiamo essere certi: le potenzialità dell’assalto al cielo, per riprendere le parole di Marx sulle speranze accese dalla Comune di Parigi, sono oggi incomparabilmente più grandi rispetto al passato. La stessa rivoluzione d’Ottobre fu realizzata in un paese dove la grande maggioranza della popolazione era contadina. Le circostanze che ne permisero la realizzazione furono uniche, come peculiare fu il concatenarsi delle circostanze. La Russia in quella fase storica ebbe uno sviluppo industriale stupefacente, tanto che a fine Ottocento era diventata il quinto paese al mondo per produzione industriale. Le fabbriche e gli operai che vi lavoravano erano straordinariamente concentrati, così pure il settore finanziario che monopolizzava gran parte del commercio. I lavoratori dell’industria nel 1860 erano circa 700.000 mila, passeranno a 1,4 milioni nel 1890, e raggiungeranno quasi 3 milioni nel 1913. Gli eventi successivi, la prima guerra mondiale e la disfatta dell’esercito zarista, la creazione dei Soviet già sperimentati nella rivoluzione del 1905, infine la presenza determinante del partito bolscevico, furono gli ingredienti che permisero il successo della presa del potere del proletariato.

Se raffrontiamo a scala planetaria la dimensione del proletariato di allora con quello odierno comprendiamo immediatamente la distanza abissale che separa le due epoche. Lo sviluppo capitalistico del primo novecento del secolo scorso aveva raggiunto un elevato grado di industrializzazione solamente in alcuni paesi, nei quali era sorto un proletariato numeroso e in crescita, mentre l’agricoltura era diventava una componente sempre più marginale con una porzione minoritaria di occupati. Nel resto del mondo le cose andavano diversamente, la trasformazione verso la modernità avrebbe richiesto tempo e l’attività decisamente prevalente continuava a essere quella agricola. In quel contesto in evoluzione ma già sufficiente maturo andava affermandosi l’idea che le condizioni fossero mature per un cambiamento radicale della società. Il capitalismo era pervenuto alla sua fase monopolistica caratterizzata dalla rapacità e dalla violenza sempre più spinta. Emergevano, inoltre, gli aspetti regressivi tipici di un sistema decadente e parassitario. Questo salto qualitativo nel modo di essere del capitalismo fu definito da Lenin imperialismo, adottandone il termine e in parte il contenuto dagli scritti dell’economista inglese Hobson.

Se la rivoluzione proletaria era nelle possibilità già allora, e fu davvero realizzata in Russia, anche se le cose successivamente andarono male e le speranze si trasformarono in tragedia, a distanza di oltre un secolo cambiare il mondo è diventata una necessità impellente per le sorti del genere umano e del pianeta. Nel nostro tempo il processo di accumulazione capitalistico ha abbattuto tutte le barriere, la globalizzazione, favorita dagli organismi economici del grande capitale nell’intento di soccorrere il sistema in crisi, ha messo in concorrenza gli uni contro gli altri i proletari dell’intero pianeta. Però, allo stesso tempo, tutto ciò ha ampliato enormemente le potenzialità antisistema della futura ripresa della lotta di classe a livello internazionale. Questo modo di produzione non è più in grado, come in passato, di redistribuire le briciole ai lavoratori, nemmeno nei paesi dell’occidente avanzato. L’intellighenzia borghese più avvertita si rende conto del rischio incombente, le regole precedenti sono saltate e si è messo in moto un meccanismo che automaticamente concentra la ricchezza come mai si era visto prima, allargando il divario tra i pochi ricchi e una massa crescente di poveri e miserabili senza speranze.

La geografia del mondo è profondamente cambiata negli ultimi decenni con velocità impressionante. Nuovi interrogativi si pongono, per esempio il ruolo che potrà svolgere il proletariato delle potenze di nuova industrializzazione come avanguardia e motore della ripresa della lotta di classe a scala internazionale. Come pure vanno seguite attentamente le trasformazioni avvenute in occidente e nella vecchia Europa in particolare. Qui, come abbiamo visto, il settore manifatturiero pur mantenendo una certa importanza, potrebbe concorrere non in via preponderante alla possibile ricomposizione di classe. Determinante sarà il collegamento e la coesione tra i vari fronti del lavoro, in considerazione della consistenza e dell’importanza acquisita dai comparti dei servizi, della grande distribuzione e della logistica.

In definitiva le dinamiche sociali vanno delineando sempre più nettamente le due fondamentali classi della società: borghesia e proletariato. La cosiddetta classe media o piccola borghesia colpita duramente dalla crisi è stata ridimensionata e indebolita, il capitale avrà un alleato meno compatto su cui poter contare ai fini della propria conservazione. Ma anche il proletariato troverà un ostacolo insormontabile alla propria emancipazione senza la presenza attiva di una forza politica comunista internazionale capace di unificarlo, di ridargli una coscienza e un programma alternativo allo stato di cose presente.

[1]    Enrico Moretti, La Nuova geografia del lavoro, Mondadori Oscar Saggi, Milano 2017, pagg. 42-43. Titolo originale dell’opera: New Geography of Jobs. L’autore è docente di economia all’università di Berkeley ed è molto gettonato nell’establishment americano ed ora apprezzato anche negli ambienti economici e accademici italiani. Il suo libro è un inno al capitalismo e alle rosee prospettive che si aprono ogni qualvolta incalzano le grandi rivoluzioni tecnologiche. Ai giovani vengono propinate ricette illusorie per ottenere successo (almeno per la stragrande maggioranza di essi), indicando loro di seguire l’ondata tecnologica che porterà nuova occupazione. In realtà le previsioni indicano l’esatto contrario.

[2]    Ivi pag. 158.

[3]    Sul tema del pensiero-merce vedi: Istituto Onorato Damen, Discutendo sulla crisi della Sinistra Comunista, D-M-D’, n. 3 luglio 2011.

[4]    Riccardo Staglianò, Al Posto tuo. Così web e robot ci stanno rubando il lavoro, Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino 2016. Il testo è ricco di dati sui processi di sostituzione dei lavoratori, soprattutto in prospettiva, ad opera dell’intelligenza artificiale utilizzata dal web e dalle imprese.

[5]    Vedi: Maria Rosaria Nappa e Antonio Noviello, La rivoluzione la faranno i robot, D-M-D’, n. 11 gennaio 2017.

[6]    Karl Marx, Lavoro salariato e capitale, in Karl Marx Opere – lotta politica e conquista del potere, Newton Comptom Editori, Roma 1975, pag. 338.

[7]    Autori vari, Salari rubati, Introduzione di Francesca Coin, La fine del lavoro (pagato), ombre corte, Verona 2017, pag. 23.

[8]    Karl Marx, Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica, La Nuova Italia editrice, Firenze 1978, volume secondo pagg. 394-395.