Crisi del ciclo di accumulazione del capitale e crisi congiunturali

Creato: 19 Ottobre 2018 Ultima modifica: 19 Ottobre 2018
Scritto da Lorenzo Procopio Visite: 1808

grafico al ribassoSul concetto di crisi del capitalismo regna, anche all'interno delle sparute avanguardie rivoluzionarie, una tale confusione d'analisi che spesso e volentieri si traduce in conclusioni politiche aberranti tali da contraddire i più elementari concetti della lotta di classe anticapitalistica del proletariato internazionale.

Il problema che ci proponiamo di affrontare in questa sede non è tanto quello di ritornare sull'analisi dell'origine della crisi, tema tantissime volte affrontato dal nostro partito su questa stessa rivista e in altre pubblicazioni, ma definire nella maniera più precisa possibile il concetto di crisi di ciclo del capitalismo e distinguerlo in tal modo dalle crisi congiunturali che periodicamente si manifestano nella realtà economica e sociale del capitale.

Questo non significa assolutamente voler contrapporre la "Crisi" di ciclo del capitale, immaginata come una sorte di categoria che si distacca e quindi si autoalimenta a prescindere dai processi reali della società, ai vari fenomeni di crisi economica che periodicamente si manifestano su scala internazionale. Saremmo degli idealisti se noi ipotizzassimo una tale netta contrapposizione tra crisi strutturale e congiunturale del capitale, ma cadremmo in una visione altrettanto idealistica se pensassimo che tra i due momenti non ci possa essere una sorta di differenza nel modo di manifestarsi sul piano temporale e quindi degli effetti economici e sociali. Non esiste una crisi del capitale che può prescindere dai singoli momenti in cui si manifesta la crisi stessa; in altri termini bisogna metodologicamente distinguere quello che è un semplice fenomeno della crisi del capitalismo dalla crisi di ciclo del capitale.

Senza una attenta analisi delle profonde modificazioni verificatesi negli ultimi decenni si rischia di applicare ad una realtà completamente modificata e nuova gli stessi schemi interpretativi utilizzati nello studio e nell'analisi per esempio della grande crisi del 1929. A differenza di quello che pensano i critici e i cattivi interpreti del pensiero di Marx, uno dei grandi punti di forza del marxismo è proprio quello di riuscire a fornire gli strumenti metodologici necessari per aggiornare l'analisi del capitalismo in relazione alle modifiche che la stessa realtà subisce nel corso del suo operare. Una lettura dogmatica del marxismo vede invece nella realtà del capitale il ripetersi continuo e quasi statico degli stessi fenomeni, con impercettibili cambiamenti che nella sostanza non modificano mai il corso delle cose.

Nel caso specifico delle crisi del capitalismo, se della realtà si dà una lettura dogmatica è facile che l'analisi sia basata sull'attesa messianica del verificarsi degli stessi fenomeni già manifestatasi in precedenza. Se accade che la crisi non si manifesta negli stessi termini in cui si è manifestata negli anni trenta del secolo scorso le conclusioni sono essenzialmente due: un primo gruppo abbandona completamente il campo e dichiara che il marxismo non è più utile, in quanto il capitalismo è riuscito a superare le proprie contraddizioni interne e quindi le proprie crisi, mentre un secondo gruppo, pur richiamandosi ancora a Marx, nonostante l'ingigantirsi delle contraddizioni insite nel processo di accumulazione del capitale, nega l'esistenza della crisi in quanto non si è verificato il grande crollo così come nel 1929.

Crisi di ciclo del capitale

La straordinaria dinamicità del capitale ha messo spesso in difficoltà i cattivi interpreti del marxismo, i quali anziché cercare di aggiornare continuamente l'analisi di Marx si sono arroccati sulle loro posizioni recitando a memoria, ma nei fatti distorcendole, le pagine del Capitale. La storia degli ultimi due secoli è caratterizzata dalla presenza di cicli economici che da sempre accompagnano la vita del modo di produzione capitalistico. In questi due secoli i precedenti cicli d'accumulazione si sono sempre chiusi con il verificarsi di accadimenti di straordinaria violenza come solo un conflitto mondiale può esserlo.

Il terzo ciclo d'accumulazione del capitale, che si è aperto con la fine della seconda guerra mondiale, presenta profonde differenze rispetto agli altri due cicli d'accumulazione. Differenze che non vanno cercate solo nei diversi tempi della fase ascendente e discendente del ciclo, ma anche e soprattutto nei diversi modi di gestione della crisi.

Il capitalismo che è nato dal secondo conflitto mondiale presenta molte novità rispetto a quello che si è concretizzato a cavallo delle due guerre. In questo periodo i processi di concentrazione e centralizzazione del capitale pur essendosi già avviati da due decenni, interessavano solo alcuni segmenti della produzione, mentre la maggior parte dell'economia era ancora soggetta alle leggi del libero mercato. La grande crisi del ventinove è stata generata dalle contraddizioni del capitalismo, ma la gestione da parte del governo statunitense ha sicuramente accelerato la depressione economica. Quando si è verificato il crollo della borsa di New York le autorità monetarie statunitensi, anziché immettere liquidità nel sistema, hanno pensato bene di aumentare il tasso di sconto, con la conseguenza di aggravare ulteriormente la situazione del mercato finanziario americano e internazionale. Al crollo finanziario ha fatto seguito la depressione dell'economia reale con la caduta verticale della produzione industriale e la chiusura di una miriade di piccole e medie fabbriche. L'intervento dello stato nell'economia, la creazione dei monopoli e la gestione centralizzata della leva monetaria non hanno però impedito al capitalismo di evitare il secondo conflitto mondiale e di mandare al massacro milioni di proletari. Nel secondo ciclo d'accumulazione abbiamo che le diverse fasi di sviluppo, crisi e guerra si concretizzano nel volgere di soli due decenni; tutto ciò ha rappresentato una conferma quasi da manuale della critica marxista del capitalismo.

Con la fine del secondo conflitto mondiale il capitalismo avvia il terzo ciclo d'accumulazione da una base profondamente diversa rispetto a quella precedente il conflitto. La seconda guerra mondiale, rispetto alla prima, risolve tutta una serie di problemi posti dal capitalismo grazie ai processi di concentrazione. S'afferma un sistema economico, monetario e finanziario basato sulla centralità dell'economia statunitense e del dollaro nella sfera occidentale, mentre dall'altra parte a dominare la scena è l'URSS e il suo rublo. Per la prima volta nella storia del capitalismo, dalla seconda guerra mondiale esce fuori un sistema economico i cui processi di concentrazione sono già molto avanzati, e addirittura i settori trainanti sono gestiti in termini quasi monopolistici. Nell'esperienza dei paesi del socialismo reale il processo di concentrazione è così esasperato che è unicamente lo stato a gestire direttamente i processi produttivi, tanto che per quei paesi, smascherata la menzogna stalinista del socialismo in un sol paese, è calzante la definizione di realtà a capitalismo di stato.

Dalla fine del secondo conflitto mondiale, il capitalismo per circa trent'anni ha vissuto un periodo di sviluppo economico straordinario su scala internazionale, tanto che in alcuni paesi come la Germania, l'Italia ed il Giappone i ritmi di crescita annuali sono stati nell'ordine del 5%. È questo il periodo in cui il ciclo economico ha vissuto la sua fase ascendente. È quindi possibile definire la fase ascendete del capitalismo, il periodo successivo alla seconda guerra mondiale, periodo durante il quale il capitalismo internazionale si è sviluppato a ritmi molto elevati. Questo non significa però che le dinamiche economiche non possano essere state negative nella fase ascendente del ciclo. Proprio la contraddittorietà del capitale ha determinato che anche durante gli anni cinquanta e sessanta si siano verificate delle violente crisi congiunturali, le cui conseguenze sono state pagate a caro prezzo dal proletariato internazionale. Ma se consideriamo complessivamente il periodo, è facile identificare la fase ascendente del terzo ciclo d'accumulazione nei decenni successivi al secondo conflitto bellico.

Agli inizi degli anni settanta la fase ascendente del ciclo economico esaurisce la propria spinta propulsiva. Parte dagli Stati Uniti una profonda crisi economica, frutto della caduta del saggio medio di profitto che colpisce l'apparato industriale, che nel giro di pochissimo tempo si propaga inevitabilmente in ogni angolo del pianeta. È in questo momento che è possibile individuare la rottura della fase ascendente del ciclo economico e l'inizio di quella che noi definiamo crisi strutturale del terzo ciclo d'accumulazione del capitalismo.

La dichiarazione d'inconvertibilità del dollaro da parte dell'amministrazione americana, nell'estate del 1971, segna simbolicamente il momento in cui il ciclo economico del capitalismo internazionale entra nella sua fase discendente e di crisi strutturale. Crollo della produzione industriale, ristrutturazione selvaggia degli apparati industriali con annesso aumento della disoccupazione, svalutazione del dollaro e continue crisi finanziarie e monetarie sono la più lampante testimonianza che l'economia mondiale negli anni settanta è entrata in una nuova fase rispetto ai decenni precedenti. Ma è proprio in questi anni che il capitalismo mobilita tutte le risorse per gestire nel migliore dei modi una crisi che morde in profondità l'intero sistema.

Negli anni settanta, al manifestarsi della caduta del saggio medio del profitto, la prima risposta data dal capitalismo nelle aree più avanzate è stata quella di avviare un profondo processo di ristrutturazione degli apparati industriali, ristrutturazione avviata nel tentativo di recuperare i margini di profitti perduti con un incremento della produttività. Per alcuni anni la borghesia è stata in grado di recuperare i margini di profitto precedentemente perduti, ma le conseguenze sul piano sociale sono state drammatiche. È negli anni settanta e nei primissimi anni ottanta che la crisi economica mondiale miete le prime vittime illustri; il continente latino americano, con la crisi debitoria del 1982 di molti paesi dell'area, subisce il primo di una lunga serie di tracolli economico-finanziari e, allo scadere di questo decennio, crollano i paesi dell'Est.

La mancata trasformazione di questa crisi in un crollo dell'economia mondiale ha visto molti sedicenti rivoluzionari arrovellarsi il cervello per capire il perché di questo mancato crollo da parte del capitalismo. Come mai al 1929 ha fatto seguito la grande crisi e depressione economica degli anni trenta, mentre al 1971 il capitalismo ha fatto seguire una lunga fase nella quale la crisi si è alternata a riprese e addirittura in alcune aree a sviluppo economico?

Ripresa economica e crisi di ciclo

Definiamo l'attuale fase come crisi del terzo ciclo d'accumulazione in quanto il capitalismo internazionale è permanentemente in difficoltà nell'alimentare i processi d'accumulazione. Il saggio del profitto è costantemente in ribasso e per il capitalismo gli strumenti che può mettere in campo per contrastare tale tendenza sono due: attaccare continuamente il mondo del lavoro e scaricare sulle aree periferiche del sistema capitalistico i costi della crisi.

Definire l'attuale situazione, iniziata nei primi anni settanta, come la fase discendente del terzo ciclo d'accumulazione del capitale non significa assolutamente negare la possibilità che nel sistema si verifichino momenti di ripresa e di sviluppo dell'economia. Le capacità sviluppate dalla borghesia nel gestire la propria crisi si sono enormemente affinate in questo secondo dopoguerra, con la conseguenza di aver diluito nel tempo e nello spazio le conseguenze della crisi di ciclo. Dopo aver accennato sopra alla ristrutturazione dell'apparato produttivo degli anni settanta, una seconda e per certi versi innovativa risposta data dalla borghesia internazionale (soprattutto americana ed inglese) alla crisi del profitto industriale è stata la finanziarizzazione dell'economia.

La caduta del saggio medio di profitto, assottigliando sempre di più i margini di guadagno della borghesia, ha spinto le centrali dell'imperialismo a ricercare nella speculazione finanziaria e monetaria le quote di plusvalore necessarie ad alimentare i processi d'accumulazione. La crescita delle attività finanziarie di questi ultimi due decenni è stata la risposta data dalla borghesia alla propria crisi. La finanziarizzazione dell'economia se, da un lato, ha effettivamente permesso ad alcuni settori della borghesia di arricchirsi a dismisura, dall'altro lato gli effetti economici e sociali prodotti da tale politica sono stati disastrosi.

Anche nell'ambito delle avanguardie rivoluzionarie si è fatta molta confusione in questi ultimi decenni sui fenomeni della finanziarizzazione e della new economy. Alcuni sono stati colpiti dalla straordinaria dinamicità del capitalismo nel far ripartire la produzione e far crescere in alcuni settori la produttività, tanto che si sono accodati a coloro che asserivano che il moderno capitalismo ha risolto definitivamente i propri problemi di crisi così da diventare un sistema economico senza cicli e in continuo sviluppo.

Negli ultimi due anni i crolli delle borse di tutto il mondo hanno sconfessato magnificamente questa tesi riproponendo in tutta la sua attualità la critica dell'economia politica di Marx. Per tanti altri aspiranti rivoluzionari, invece, i meccanismi di finanziarizzazione dell'economia sono fenomeni che non hanno modificato in nulla la natura del capitalismo moderno; anzi, essendo le attività speculative esterne al mondo della produzione di plusvalore, ne conseguirebbe che non hanno nessuna ricaduta sui meccanismi di accumulazione del capitale. La miglior cosa da fare per questi "rivoluzionari" è riproporre la stessa chiave di lettura utilizzata nella grande crisi del 1929, quindi, se non c'è stato finora il crollo così come negli anni trenta, è evidente che non siamo in presenza di una crisi di ciclo ma solo in una fase in cui il capitale soffre di crisi di congiuntura.

In questi ultimi trent'anni non si è verificato il tanto atteso crollo del capitalismo mondiale, ma non per questo la borghesia ha risolto la propria crisi di ciclo. Anzi, se andiamo a leggere attentamente l'evolversi del capitalismo in questi ultimi decenni possiamo certamente osservare come le brevi fasi di ripresa economica siano state semplicemente delle parentesi in una situazione di crisi permanente del capitale. Dagli anni ottanta in avanti l'economia mondiale è stata continuamente scossa da fenomeni di crisi i cui effetti sociali sono stati sempre più disastrosi per il proletariato internazionale. Tra le numerose crisi che hanno scosso l'equilibrio economico-finanziario internazionale in questi ultimi anni possiamo ricordare la crisi messicana, il tracollo dei paesi del sudest asiatico, la crisi della Russia e del Brasile, senza dimenticare lo scoppio della bolla speculativa giapponese nei primi anni novanta, e per ultima la crisi argentina.

Il moderno capitalismo presenta indubbiamente una capacità maggiore di gestire la propria crisi di ciclo rispetto al passato. Grazie anche ai processi di finanziarizzazione dell'economia, i paesi imperialistici più importanti riescono ad appropriarsi di quote crescenti di plusvalore prodotto dal proletariato internazionale negli angoli più disparati del mondo. Grazie al meccanismo della rendita finanziaria, di cui gli Stati Uniti grazie al dollaro e al proprio esercito sono i maggiori percettori, la crisi di ciclo del capitale ha subito una dilazione nel tempo, ma il cui prezzo è stato elevatissimo per miliardi di esseri umani che vivono nelle aree meno avanzate nel pianeta. I brevi intervalli di crescita e sviluppo sono inseriti in un ciclo economico di crisi i cui effetti sono sotto gli occhi di tutti. Miliardi di esseri umani ridotti alla fame, interi continenti desertificati da un punto di vista produttivo e una borghesia che per difendere a denti stretti i suoi privilegi di classe è disposta a giocare fino in fondo la partita della guerra imperialista.

Se la crisi del 1929 si è conclusa con il massacro della seconda guerra mondiale, la aumentate capacità di gestione dell'attuale fase di crisi ciclica del capitalismo non impediscono alla borghesia di ricorre allo strumento bellico per risolvere le proprie contraddizioni. Guerra del golfo, Jugoslavia, Cecenia, Afghanistan e il nuovo atteso conflitto in Iraq sono l'ennesima dimostrazione che il capitalismo può anche rilanciare nel breve periodo la propria economia ma dalla crisi di ciclo si esce solo con la distruzione di risorse umane e materiali o, se il proletariato riesce a riprende in mano la propria autonomia di classe e ricostruire il proprio partito politico, con la rivoluzione.