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Dalla rivista D-M-D' n °10
Le vicende della prima guerra mondiale sono ancora oggi fonte di preziosi insegnamenti. Mostrano come il riformismo sveli la sua natura guerrafondaia, le masse sfruttate possano trovare la forza per la loro azione di classe, il partito rivoluzionario possa divenirne la guida. Mostrano anche come la rivoluzione proletaria sia l’unica azione che possa fermare la guerra. Ripercorriamo quegli avvenimenti per indicare l’attualità del disfattismo rivoluzionario di fronte all’imperialismo e alla violenza sempre più estesa che esso sta producendo in ogni parte del mondo
La guerra è la manifestazione più acuta della crisi del sistema capitalistico, quando si scatena la violenza in tutta la sua estensione e intensità per la spartizione del mondo. La difesa della patria, della democrazia, della civiltà, della religione, ogni volta vaste campagne ideologiche accendono gli animi di milioni di uomini che si fanno trascinare nel vortice della violenza. Le guerre si svolgono, i terreni vengono inondati di sangue, milioni di uomini si massacrano e alla fine, quando un fronte è vittorioso, seguono i trattati per la ridefinizione delle aree geografiche, le sanzioni finanziarie ai perdenti. Insomma, la guerra è la soluzione ultima di quello scontro imperialistico che normalmente avviene sul terreno commerciale e finanziario. Il proletariato, ovunque esso sia schierato, è il vero perdente, sempre.
La storia dell’umanità, da quando la società si è divisa in classi, ma addirittura da quando le piccole comunità di uomini ancora poco strutturate socialmente e dipendenti da una natura ostile che li obbligava talvolta all’aggressività per la scarsità delle risorse vitali disponibili, è contrassegnata da un continuo e inarrestabile fiume di sangue versato in nome della sottrazione violenta a scapito altrui. Marx intravede la possibilità di eliminare dalla società la maledizione della guerra. Egli comprende che è lo stesso sviluppo capitalistico che crea le condizioni perché alla società divisa in classi possa essere sostituita la società dei liberi produttori associati per governare consapevolmente la produzione finalizzandola alla loro promozione ed emancipazione. Alla società divisa in nazioni in perenne conflitto tipica della società borghese, Marx contrappone la società dei liberi produttori associati, una società mondiale senza frontiere in cui gli uomini soddisfano i loro bisogni cooperando per la razionale gestione delle forze produttive. E’ il proletariato che, impossessandosi delle forze produttive, liberandole dalle leggi economiche capitalistiche che le governano nella società borghese, rivoluzionando l’intera società, può realizzare una pacifica comunità mondiale in cui la guerra, e con essa la produzione di armi, non hanno più ragione di esistere.
Con la rivoluzione proletaria del 1917 in Russia si cercò di avviare la realizzazione di questo programma, innescando a scala internazionale il processo rivoluzionario che avrebbe dovuto portare alla eliminazione del capitalismo. La guerra fu il primo ostacolo che doveva essere eliminato per eliminare il conflitto tra milioni di proletari schierati nelle trincee. Essa, come vedremo, fu un fattore determinante negli eventi che generarono la rivoluzione, sia perché costrinse milioni di uomini ai sacrifici più duri provocandone la ribellione, creando perciò la disponibilità delle masse alla lotta più radicale, sia perché mise a dura prova le forze politiche che in quel momento operavano in Russia costringendole a schierarsi a favore del processo rivoluzionario oppure in difesa del nascente ordine borghese. Vedremo come il piccolo partito bolscevico, pur con innumerevoli difficoltà, esitazioni e talvolta anche con evidenti sbandamenti, riuscì a dare la consapevolezza a milioni di uomini che per farla finita con la guerra bisognasse farla finita con la borghesia e il suo sistema economico. Tutto questo, lungi dall’essere una pagina di storia ormai superata, è fonte di preziosi insegnamenti proprio oggi quando le contraddizioni e la violenza del sistema capitalistico si stanno dispiegando con intensità crescente. Per questo desideriamo riparlarne.
La disfatta del pacifismo.
In Europa, man mano che lo scontro imperialistico di inizio Novecento si faceva più aspro, in ambito socialdemocratico si faceva un gran dibattere di socialismo e di pacifismo. Il primo rappresentava l’avvento di una società più giusta, il secondo mirava a contrapporre il valore della solidarietà a quello della violenza tra gli uomini. Due grandi correnti di pensiero, quella riformista che perseguiva il passaggio al socialismo in modo graduale e pacifico mediante le riforme del sistema capitalistico, quella rivoluzionaria che si ispirava in modo più rigoroso alle idee rivoluzionarie di Marx, si confrontavano nella Seconda Internazionale, l’organizzazione preposta alla direzione del movimento proletario internazionale per la realizzazione del socialismo. In essa erano presenti gli esponenti più significativi del pensiero socialista del tempo, per la maggior parte orientati sulle posizioni riformiste. All’ Internazionale guardavano milioni di proletari in tutto il mondo con la speranza di trovare una guida sicura per la difesa dei loro interessi e per la loro emancipazione.
Fin dal 1907, nel Congresso di Stoccarda, Lenin era riuscito a ottenere dall’Internazionale una pronuncia contro la guerra e la raccomandazione ai socialdemocratici di ogni paese che “utilizzassero la crisi economica e politica causata dalla guerra per…affrettare la distruzione della dominazione classista della classe capitalista”1. Era la premessa per la parola d’ordine del disfattismo rivoluzionario che lo stesso Lenin pronuncerà successivamente. L’Internazionale accettava quel pronunciamento in un momento non troppo impegnativo visto che la possibilità di una guerra generalizzata non era ancora un pericolo immediato. Nondimeno le posizioni al suo interno erano molto diversificate al punto che si riconosceva ufficialmente che “l’Internazionale non si trova in grado di stabilire anticipatamente forme rigorosamente definite per la lotta delle classi operaie contro il militarismo”2. Allo stesso tempo l’Internazionale dichiarava che era dovere della classe operaia e dei suoi rappresentanti in parlamento “di lottare con tutte le forze contro gli armamenti navali e terrestri e di rifiutare i mezzi per essi”3 invitando i parlamentari socialisti dei vari paesi a non votare il finanziamento della guerra nel caso essa fosse dichiarata. Come si vede la posizione ufficiale dell’Internazione era piuttosto generica se non, talvolta, contraddittoria.
Negli ultimi due paragrafi della dichiarazione finale vennero esposte le tesi più ardite contro la guerra e la sua trasformazione in lotta anticapitalistica. Si trattava degli emendamenti proposti dalla delegazione russa al progetto di dichiarazione presentato dall’ufficio di presidenza che vennero accettati non senza resistenze. In ogni caso venivano dichiarate ufficialmente per la prima volta in modo esplicito le finalità della lotta di classe: “nel caso di una minacciata dichiarazione di guerra gli operai dei paesi interessati e i loro rappresentanti in parlamento, appoggiati dall’attività coordinatrice dell’ufficio internazionale, debbono impiegare tutti i loro sforzi per impedire, con le misure che appaiono più efficaci e che varieranno naturalmente con l’inasprirsi della lotta di classe e della situazione politica generale, lo scoppio della guerra. Se ciò nonostante dovesse essere dichiarata la guerra, il loro dovere è di agire allo scopo di portarla a sollecita conclusione, e di lottare con tutte le loro forze per utilizzare la crisi economica e politica causata dalla guerra allo scopo di scuotere le masse e il popolo e di affrettare la distruzione del dominio di classe delle classi capitalistiche”4. Per la prima volta si dichiarava inequivocabilmente, grazie al contributo politico della delegazione russa, che qualsiasi scelta di campo tra i fronti in guerra era bandita e che alla guerra si doveva opporre la lotta di classe conto il capitalismo.
Questi principi vennero ribaditi successivamente nel Congresso di Copenaghen del 1910 e in una speciale conferenza convocata a Basilea nel 1912 in occasione della guerra balcanica. Fino a quel momento i deputati socialisti europei votarono nei rispettivi paesi, coerentemente al deliberato della Seconda Internazionale, contro i finanziamenti alla guerra. Si trattava, come vedremo, di facili prese di posizione dato che il loro voto nei parlamenti, minoritario, non aveva conseguenza alcuna e il conflitto militare era ancora di portata limitata. Quell’opposizione non rifletteva i reali convincimenti presenti nell’Internazionale e questo si mostrò palesemente nel 1914, dopo gli eventi di Serajevo, quando la guerra fu proclamata e assunse dimensione mondiale. Dopo soli due anni dalla conferenza di Basilea la guerra mise a prova durissima le idee e le reali intenzioni di quegli uomini. Con la dichiarazione di guerra, il pacifismo, bandiera di tutti i riformisti della seconda Internazionale, si sgretolò in un istante nel momento in cui l’emergenza della situazione non tollerava esitazioni e la chiamata alla difesa della patria dei governi borghesi diventò un ordine ineludibile. A quel punto o ci si schierava in modo radicale contro la guerra, i governi che la sostenevano e il sistema economico che la generava, oppure, se non si era capaci di farlo, si era costretti a schierarsi col proprio governo, votando il finanziamento della guerra e appoggiando l’avvio delle operazioni militari. Anche le posizioni intermedie si mostravano, per la loro inettitudine, delle sostanziali sottomissioni alla guerra.
Tutti i socialisti riformisti, da difensori della pace, divennero nel volgere di pochissimo tempo, dei sostenitori del nazionalismo e della difesa patriottica trasformandosi in guerrafondai al pari dei loro governi. Il disorientamento, a cui seguì la profonda rassegnazione e l’accettazione della guerra, travolse il proletariato che si assoggettò alla dura disciplina militare imposta da ogni governo, al fronte e all’intera società. Si trattava del de profundis della Seconda Internazionale e dello smascheramento della reale natura del riformismo, della sua completa impotenza ad agire contro il capitalismo e la guerra. Il suo pacifismo, facile in tempo di pace, si era dissolto in pochi istanti di fronte alla chiamata alle armi della borghesia. Lenin, con lui pochi altri, tuonò immediatamente contro i riformisti bollandoli come traditori e persi alla causa proletaria.
Egli, insieme a tanti altri suoi compagni bolscevichi, allo scoppio della prima guerra mondiale si trasferì in Svizzera per sfuggire alla repressione del regime zarista intollerante verso qualsiasi opposizione. Lenin, poi trasferì la sua residenza a Berna il 5 settembre 1914 e da lì svolse intensamente il suo lavoro politico.
Intanto in Russia alcuni deputati bolscevichi e menscevichi5 alla Duma, il parlamento russo, si erano momentaneamente associati per dichiararsi indisponibili a votare i crediti di guerra. Indubbiamente il lavoro politico degli anni precedenti di Lenin e dei dirigenti bolscevichi più vicini a lui, insieme alla specifica situazione russa ancora dominata dal regime assolutista degli zar, aveva prodotto quella presa di posizione dei menscevichi. La riposta della polizia zarista a qualsiasi opposizione politica fu immediata: arresti degli oppositori, divieto di uscita della stampa antigovernativa e chiusura della neonata Pravda, l’organo di stampa dei bolscevichi che aveva iniziato la sua pubblicazione il 22 aprile 1912, solo un paio d’anni prima.
La prima preoccupazione di Lenin, di fronte alla disfatta del riformismo di tutta Europa, fu quella di far emergere, in mezzo al disorientamento generale, di cui lo stesso partito bolscevico non era immune, un punto di vista fedele alle posizioni che il partito bolscevico aveva assunto nella dura lotta politica iniziata già nel 1905 per sconfiggere il riformismo. Il partito bolscevico si trovava sostanzialmente diviso tra due posizioni. A sinistra vi era Lenin, esule in Svizzera, appoggiato da pochi dirigenti tra cui Zinov’ev, con qualche riserva Bucharin, Sokol’nikov, Piatanov, Safarov e altri; la loro posizione era per il disfattismo nazionale e per la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile. L’altra componente del partito, cosiddetta centrista per trovarsi tra la posizione dei menscevichi favorevoli alla guerra e quella che faceva capo a Lenin, denunciava la guerra ma era per il perseguimento di una pace democratica senza annessioni territoriali da parte delle nazioni. Questo gruppo, costituito anche da rifugiati all’estero, aveva la sua sede a Parigi e stampava un giornale conosciuto col nome Golos , poi cambiato in Nase Slovo e poi ancora in Nacalao a causa della censura e dei provvedimenti di interdizione contro di esso. Tra i principali collaboratori vi erano Martov e Trockij. Il gruppo ebbe numerosi proseliti nei diversi paesi europei. Con lo svolgersi della guerra, man mano che si manifestavano le sue terribili conseguenze, questo raggruppamento, che voleva dissociarsi alla guerra senza però approdare al disfattismo rivoluzionario, trovò un seguito crescente.
A sua volta Kamenev, eminente bolscevico, ebbe non pochi ondeggiamenti fino a giungere all’aperta dissociazione da Lenin. Ne parleremo più dettagliatamente poi. Insomma, il furore patriottico della guerra travolse quasi tutti al punto che anche molti degli operai in sciopero immediatamente prima della guerra, parteciparono alle manifestazioni patriottiche che si svolgevano nelle principali città della Russia, in particolare a Pietrogrado. In questa caotica situazione Lenin dovette impegnarsi in una dura lotta politica per riportare chiarezza politica tra i bolscevichi.
Giunto a Berna, Lenin convocò una riunione, già il 6 settembre con i pochi bolscevichi presenti, per esporre le sue tesi contro la guerra e delineare le sue posizioni rispetto al mutato scenario internazionale sconvolto dagli eventi militari. Mise innanzi tutto in rilievo che la sconfitta dello zarismo non sarebbe stata sufficiente ad assicurare alle masse lavoratrici la soluzione dei loro problemi e denunciò apertamente il tradimento del socialismo riformista della Seconda Internazionale. La sua strategia era chiara: la guerra potenzialmente poteva portare a una rivoluzione socialista internazionale e questo avrebbe permesso alla Russia di passare direttamente dalla rivoluzione democratico-borghese a quella socialista. Perciò era necessario cogliere l’occasione storica, nonostante la Russia fosse arretrata e poco industrializzata, per partecipare al probabile e imminente processo rivoluzionario internazionale, anzi la Russia avrebbe potuto esserne addirittura il detonatore. Da questa premessa ne derivava la tattica: intransigente opposizione alla guerra e indicazione al proletariato di non aderirvi. Il disfattismo rivoluzionario, la parola d’ordine che doveva orientare da quel momento il lavoro e la propaganda del partito, veniva delineato in termini precisi:
propaganda universale, estesa anche all’esercito e al teatro delle operazioni militari, per la rivoluzione socialista e la necessità di dirigere le armi non contro i propri fratelli, gli schiavi mercenari di altri paesi, ma contro i governi reazionari e borghesi di tutti i paesi. Necessità assoluta di organizzare cellule e gruppi illegali negli eserciti di tutte le nazioni per condurre questa propaganda in tutte le lingue. Lotta senza quartiere contro lo sciovinismo e il patriottismo della borghesia di tutti i paesi senza eccezione6.
La dichiarazione, concisa e inequivocabile, definiva concretamente cosa si dovesse fare per realizzare il disfattismo rivoluzionario in Russia come in qualsiasi altro paese. Si trattava dell’internazionalismo proletario in stretta aderenza e continuità con quello propugnato da Marx. In poche righe dunque si delineavano i compiti immediati delle avanguardie rivoluzionarie e delle coscienze più avanzate in ogni paese. Li mettiamo in rilievo per la loro importanza:
- propaganda in ogni luogo della società, anche negli eserciti, per fermare la guerra attraverso la rivoluzione socialista
- rifiuto di uccidere i fratelli proletari del fronte avversario e necessità di volgere le armi contro i governi borghesi
- azione comune dei rivoluzionari in ogni paese per preparare la rivoluzione internazionale
- necessità di organizzare cellule illegali negli eserciti per diffondere la parola d’ordine del disfattismo rivoluzionario
- nessuna concessione al patriottismo e al nazionalismo.
Queste tesi furono espresse ufficialmente dal comitato centrale del partito in un appello emesso due mesi dopo in cui, per la prima volta, si pronunciò la parola d’ordine di Lenin della trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile. Lenin intanto diventava sempre più intollerante anche verso le posizioni centriste che respingevano la difesa patriottica ma rifiutavano il disfattismo e la necessità della rivoluzione come mezzo per fermare la guerra.
Contro le sue tesi si sollevarono ovviamente i riformisti più influenti della Russia. Plekanov sostenne con decisione che la difesa nazionale era la premessa indispensabile ad aprire la strada alle riforme, allineandosi così alla posizione di tutta la socialdemocrazia europea, Martov, più a sinistra e convinto internazionalista, unito a Lenin nella denuncia della guerra come guerra imperialista, auspicava che la guerra terminasse con una pace democratico-borghese rispettosa degli interessi nazionali, quindi senza annessioni e indennità. Una posizione che, per quanto più avanzata di altre, si poneva in continuità con le posizioni del socialismo riformista europeo.
Intanto in Russia, l’attività dei bolscevichi continuava in mezzo a grandi difficoltà a causa della repressione della polizia zarista. Alla fine del settembre 1914 cinque deputati bolscevichi alla Duma, insieme ad altri delegati del partito provenienti da tutta la Russia, tennero una conferenza segreta in Finlandia per condannare la guerra e il governo zarista sulla base delle tesi di Lenin appena pronunciate a Berna. Un mese dopo, molti di loro furono arrestati ed esiliati in Siberia. Tra questi Kamenev che aveva partecipato a una seconda conferenza segreta. Nell’interrogatorio della polizia che seguì, insieme ad altri due deputati, egli si dissociò apertamente dalle posizioni di Lenin sul disfattismo rivoluzionario. Il fatto è politicamente significativo. Mette in luce quanto fosse difficile superare il pregiudizio nazionalistico, anche nel caso di intellettuali forgiati dalla militanza nel partito bolscevico e quanto fosse difficile difendere la pozione del disfattismo rivoluzionario di Lenin mentre si dispiegava in tutta la sua forza la guerra e la macchina repressiva zarista. Vedremo come tutto il partito bolscevico, in assenza di Lenin, ebbe clamorosi sbandamenti politici di fronte alla necessità di adottare una posizione intransigente contro la guerra.
Nei primi mesi del 1915, quasi tutti i dirigenti bolscevichi attivi si trovavano rifugiati all’estero o, più spesso, condannati e imprigionati in Siberia. Ai nomi finora citati, aggiungiamo Sverdlov, Stalin, Ordzonikidze già arrestati prima della guerra. In questo momento, in Russia, il partito bolscevico e il suo organismo centrale, erano ridotti all’impotenza, organizzativamente distrutti. Nella stessa situazione di impotenza si trovavano i menscevichi, nel frattempo prevalentemente associatisi al coro patriottico dei democratici progressisti, che mentre sostenevano la guerra, chiedevano al governo zarista le riforme democratiche, naturalmente senza ottenere il minimo risultato.
Nel marzo 1915 fu tenuta a Berna una conferenza delle organizzazioni bolsceviche all’estero. Alla conferenza parteciparono i più importanti dirigenti scappati dalla Russia: Bucharin, Krylenko, Pjatanov e altri. Essa approvò e pubblicò le risoluzioni che, sostanzialmente uguali a quelli della riunione di Berna del 6 settembre, ribadivano la posizione del disfattismo rivoluzionario. In questa occasione Lenin ricompose il suo dissidio con Bucharin e i suoi sostenitori che, pur accettando il disfattismo rivoluzionario e la trasformazione della guerra imperialistica in guerra civile, non escludevano di utilizzare la parola d’ordine della pace democratica. Ancora una volta, era significativo che mentre Lenin metteva a punto velocemente, con lo svolgersi delle azioni militari, la sua idea della trasformazione della guerra imperialista in guerra civile, i principali dirigenti bolscevichi, con poche eccezioni, si attardavano su pronunciamenti e formulazioni ambigue e confuse.
Grazie all’influenza di Lenin, la conferenza si concluse con delle significative dichiarazioni ufficiali: 1. la guerra veniva definita come una guerra imperialista finalizzata alla divisione delle colonie da parte delle potenze europee 2. essa era l’espressione di un’epoca “in cui il capitalismo ha raggiunto la più alta fase del suo sviluppo .. e in cui sono completamente maturate le condizioni obiettive per la realizzazione del socialismo” 3. la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile era pertanto “l’unica parola d’ordine proletaria giusta” 4. “in particolare, l’idea che una pace democratica sia possibile senza una serie di rivoluzioni è profondamente sbagliata” 5. era necessaria “la fraternizzazione dei soldati delle nazioni belligeranti nelle trincee”7. Per la prima volta veniva apertamente indicato ai soldati di smettere di spararsi.
Le conferenze di Zimmerwald e Kiental.
Nel settembre 2015, ad un anno dalla proclamazione della guerra, i socialdemocratici europei più a sinistra, ad essa contrari, convocarono a Zimmerwald, in Svizzera, una conferenza. In questa occasione, ancora una volta, si scontrarono due posizioni: da una parte i riformisti più radicali, dall’altra i rivoluzionari. Erano presenti molte personalità e delegazioni di diversi paesi: Lenin e Zinov’ev in rappresentanza dei bolscevichi, Martov e Aksel’rod dei menscevichi di sinistra, poi Trockij e i più importanti dirigenti dei Socialisti Rivoluzionari russi con Cernov a capo, Rakovskij per i socialdemocratici romeni, Kolarov per quelli bulgari; i delegati tedeschi erano per lo più rappresentanti dei socialdemocratici di sinistra contrari alla guerra ma non disposti a infrangere la disciplina di partito che aveva votato a favore dei crediti di guerra; vi erano anche delegati francesi, italiani, svizzeri, olandesi, scandinavi, lettoni e polacchi, questi ultimi rappresentati da Radek. In totale una trentina di delegati di cui una ventina costituivano l’ala destra della conferenza. Nel dibattito, la posizione di Lenin di trasformazione della guerra imperialista in guerra civile ebber l’appoggio, non sempre incondizionato, di circa sette delegati; un’altra parte, di cui Trockij era la figura più eminente, assunsero una linea intermedia di mediazione tra le due correnti. Il manifesto finale redatto da Trockij, un compromesso tra le diverse posizioni, fu approvato all’unanimità e si limitava alla denuncia della guerra come guerra imperialista. Immediatamente, Lenin, Zinov’ev e Radek insieme a un delegato svedese, un norvegese e un lettone, sottoscrissero una dichiarazione di protesta contro l’insufficienza del manifesto. Si formò così il gruppo che si identificò come la “sinistra di Zimmerwald”. La conferenza decise di costituire un comitato socialista internazionale permanente la cui segreteria aveva sede a Berna. Essa non produsse nulla di utile a causa delle profonde divergenze tra le due correnti di pensiero presenti.
Intanto in Russia la situazione organizzativa del partito bolscevico continuava ad essere disastrosa. Dopo l’ondata di arresti all’inizio del 1915 che portò all’annichilimento del partito bolscevico, per diciotto mesi non esistette più alcun organismo dirigente finché, nell’estate del 1916, si ricostituì a Pietrogrado l’”uffico russo”, una sorta di comitato centrale, per iniziativa di un operaio membro del partito di nome Sljapnikov e di altri due suoi compagni, Zalukj e Molotov. Il vero nome di quest’ultimo era Skrjabin e si trattava di un intellettuale già presente nel partito dal 1912 e collaboratore della Pravda. Sljapnikov, in Francia all’epoca dello scoppio della guerra, aveva partecipato alla conferenza di Berna indetta da Lenin ed era stato inviato dallo stesso in Scandinavia con l’importante compito di introdurre in Russia la stampa clandestina del partito.
Sliapnikov nell’estate del 1916 rientrò in Russia e si fece promotore della ricostituzione dell’ “ufficio russo”. Nonostante questo, l’attività politica del partito ristagnava per la difficoltà oggettiva a operare nel regime poliziesco che lo zarismo aveva instaurato. In pratica, l’attività del partito era ridotta a qualche propaganda clandestina solo in alcune grandi città.
Lenin, nei primi mesi del 1916, si trasferì da Berna a Zurigo. Qui lavorò intensamente, avendo più facilmente a disposizione il materiale documentale, alla scrittura del suo L’imperialismo fase suprema del capitalismo e di numerosi articoli contro la guerra e il tradimento dei riformisti. Nel documento, egli analizzò come il capitalismo fosse giunto alla sua fase di decadenza e come la sua funzione progressista era terminata; con questo si apriva per il proletariato il periodo della rivoluzione comunista, a scala mondiale. L’analisi costituiva il presupposto teorico della strategia del partito bolscevico che si era delineata fin dall’arrivo di Lenin a Berna: la trasformazione dell’incipiente rivoluzione democratica in Russia in rivoluzione comunista per dare avvio alla rivoluzione internazionale.
Nell’aprile del 1916, il comitato socialista internazionale istituito dalla Seconda Internazionale sette mesi prima, organizzò una seconda conferenza che si tenne a Kienthal. I delegati dei vari paesi questa volta furono più numerosi. A causa della guerra, le posizioni della sinistra riformista zimmerwaldiana si erano rafforzate un po’ dappertutto e, in taluni casi, anche quelle di Lenin. Il mutamento politico più importante era avvenuto nel Partito Socialdemocratico Tedesco in cui si era manifestata una corrente di sinistra che si sarebbe separata alla fine del 1916 dando luogo a due organizzazioni: il partito Socialdemocratico Tedesco Indipendente e il Spartakusbund, un partito le cui posizioni erano molto vicine a quelle di Lenin. La conferenza di Kienthal produsse una dichiarazione che, sebbene più avanzata rispetto a quella di sette mesi prima, era ancora lontana dalla posizione del disfattismo rivoluzionario di Lenin. Quest’ultimo, insieme a pochi altri bolscevichi e certamente senza il pieno e convinto consenso del suo partito, rimaneva in esigua minoranza nel movimento socialdemocratico internazionale. Fu a quel punto che i deludenti risultati della conferenza portarono Lenin a concepire la necessità di una nuova Internazionale, cosa che fu espressa pubblicamente in occasione delle sue Tesi di aprile quando tornò in Russia nella primavera del 1917.
Dunque, come abbiamo visto, la guerra mise alla prova i partiti e le singole personalità di tutta la socialdemocrazia internazionale. La sua componente maggioritaria, fondamentalmente pacifista, capitolò votando in ogni paese i crediti di guerra e schierandosi con la propria borghesia nazionale. Capitolarono anche coloro che non accettarono di votare i crediti di guerra e cercarono di perseguire la pace democratica, senza annessioni né indennità, perché si ridussero allo sterile pronunciamento privo di qualsiasi forza e conseguenza pratica nei confronti della guerra. Infine, capitolarono anche coloro che, con posizioni più radicali, pur schierandosi per la lotta di classe e contro la guerra, non giunsero a condividere il disfattismo rivoluzionario. Disfattismo rivoluzionario, trasformazione delle guerra in guerra civile e rivoluzione sociale contro il capitalismo, erano i tre momenti inscindibili di una medesima linea d’azione che puntava a scala mondiale all’eliminazione del capitalismo e della guerra imperialista. La coerente e inequivocabile posizione di Lenin era che togliendo anche uno solo di questi momenti ogni azione si sarebbe ridotta, volenti o nolenti, a essere di sostegno alla guerra o, nel migliore dei casi, all’impotenza nei suoi confronti.
Guerra alla guerra ovvero rivoluzione.
Nel febbraio del ’17, in piena guerra, il regime zarista viene rovesciato dalla sollevazione popolare, ormai giunta alle azioni più estreme per i pesanti sacrifici di due anni e mezzo di guerra. Determinanti furono i vasti moti di piazza. Senza la presenza in campo degli operai e dei contadini nesssun partito avrebbe potuto far granché, neanche quello bolscevico. L’inarrestabile ribellione popolare che reclamava la pace, le riforme democratiche e la terra per i contadini, portò nelle trincee e nelle caserme all’insubordinazione dei soldati, costituiti prevalentemente da contadini poveri, poi a imponenti scioperi e manifestazioni nelle grandi città, preludio ai successivi eventi che sfociarono nella rivoluzione. Non potendo analizzare il processo rivoluzionario di quei mesi decisivi, rimandiamo alla splendida descrizione degli eventi fatta da Trockij nella sua Storia della rivoluzione russa8 che ben sottolinea come lo slancio rivoluzionario delle masse, in particolare nelle giornate dal 23 al 27 febbraio, quelle decisive per la caduta dei Romanov e per la formazione del primo governo provvisorio di ispirazione democratico-borghese, sopravanzò la stessa iniziativa dei partiti, compreso quello bolscevico. L’ardore rivoluzionario delle masse, ci spiega Trockij nella sua dettagliata ricostruzione storica, fu la principale forza motrice della rivoluzione che aprì la strada all’instaurazione del primo governo provvisorio che avrebbe dovuto promulgare, attraverso l’assemblea costituente, le riforme democratiche e dare un assetto completamente nuovo allo stato. La borghesia, il cui sviluppo in Russia era ancora allo stadio iniziale, la piccola borghesia e la vasta schiera di funzionari statali che ormai non si riconoscevano più nel vecchio regime autocratico, furono le forze che raccolsero in questa fase i maggiori vantaggi dall’indomabile urto degli strati popolari più poveri. La situazione in quel momento in Russia era molto fluida perché, insieme alla formazione del primo governo provvisorio, si erano spontaneamente formati i soviet, i consigli dei rappresentanti dei soldati e degli operai nominati dalla base popolare sul modello del soviet della rivoluzione del 1905. Questo determinò una situazione che venne definita di dualismo di potere in quanto nei successivi otto mesi, il governo fu di fatto sostenuto e controllato dai soviet. Ad essi, di particolare rilievo fu quello di Pietrogrado, le masse si rivolgevano speranzose sebbene essi, fino al momento dell’insurrezione dell’ottobre, quando i bolscevichi ne presero la guida, erano egemonizzati dai partiti di ispirazione democratico-borghese, innanzi tutto dai menscevichi che ne erano la forza di maggioranza. Questi utilizzavano i soviet per sostenere il governo provvisorio con l’intento di ottenere in cambio le riforme democratico-legalitarie e l’attuazione di una politica estera volta a perseguire la cosiddetta pace democratica con le altre nazioni belligeranti. Solo alla fine del periodo che va dal febbraio all’ottobre del 1917, i bolscevichi riuscirono, per la loro intransigente opposizione alla guerra, a conquistarne la direzione e a farne gli organi operativi della rivoluzione comunista e l’ossatura del nuovo stato proletario.
A noi interessa esaminare, almeno per sommi capi, come la guerra, ancora una volta, fu l’ambiente entro cui maturò la rivoluzione proletaria. La guerra insomma doveva continuare a essere il banco di prova per tutti. I governi borghesi che si insediarono nel parlamento russo in questo periodo scelsero di continuarla mentre la stessa visione di Lenin, l’unica in grado di arrestare la guerra, ebbe non poche difficoltà a trovare il pieno e convinto sostegno dello stesso partito bolscevico.
Il 2 marzo, caduto lo zar e il suo regime, venne costituito il primo governo provvisorio presieduto dal principe L’vov con un solo ministero assegnato a un ministro socialista, il menscevico Kerenskij. Il nuovo governo decise immediatamente di continuare la guerra e il ministro Miljukov, solo il 18 aprile, dichiarò ufficialmente che sarebbero stati mantenuti gli impegni militari presi con gli alleati. Questo mentre erano in corso delle vaste mobilitazioni degli operai e dei soldati. Questi ultimi, armi in pugno, continuavano a controllare militarmente la situazione dopo la cacciata dello zar e decisero di presidiare nelle principali città i centri nevralgici della vita civile, tra questi le comunicazioni. L’esercito di fatto era allo sbando e i soldati, sempre più riottosi a combattere, si ribellavano agli ufficiali e ai loro ordini. Le diserzioni diventarono quotidiane e sempre più estese.
Durante questi cruciali avvenimenti l’ “ufficio russo” del partito bolscevico fu attivo. Il 26 febbraio Sljapnikov, Zaluckij e Molotov, i tre giovanissimi bolscevichi che lo costituivano, pubblicarono, nonostante la loro condizione di isolamento, una dichiarazione programmatica, in forma di manifesto, che si sforzava di ispirarsi alle posizioni di Lenin.
Il manifesto invitava la classe lavoratrice e i soldati a costituire un governo rivoluzionario provvisorio che istituisse la forma repubblicana dello stato, realizzasse le riforme democratiche, fondamentalmente la convocazione dell’assemblea costituente, da eleggere con suffragio universale e a scrutinio segreto, confiscasse i latifondi, istituisse la giornata lavorativa di otto ore, requisisse e distribuisse i generi alimentari nascosti nelle campagne dai contadini ricchi. Per quanto concerneva la guerra, il manifesto chiedeva che il governo rivoluzionario “iniziasse le trattative con il proletariato dei paesi belligeranti per rendere possibile una lotta rivoluzionaria dei popoli di tutti i paesi contro i loro oppressori e tiranni…per porre termine alla sanguinosa strage che è stata imposta ai popoli tenuti in schiavitù”9.
Lenin, ancora in Svizzera e impegnato a trovare il modo per rimpatriare, sottolineò con piacere come quell’appello alla solidarietà internazionale del proletariato fosse la chiave di volta per ottenere la pace e fu molto soddisfatto della presa di posizione dei tre giovani dirigenti. Il 5 marzo, i tre fecero uscire nuovamente il giornale del partito, la Pravda. Molotov ne presiedeva la direzione collegialmente con Kalinin ed Eremeev; la linea politica del giornale rifletteva quella del manifesto. In diversi articoli si denunciava il governo provvisorio definendolo un governo rappresentativo degli interessi dei capitalisti e dei proprietari terrieri e si chiedeva ai soviet di convocare l’assemblea costituente. Il 10 marzo venne pubblicata la risoluzione dell’ “ufficio russo” che auspicava la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile anche se evitava di chiamare apertamente al disfattismo nazionale. Posizioni coraggiose quelle dei tre giovani dirigenti che erano ben consapevoli di quanto quelle dei più anziani, ancora prigionieri in Siberia, fossero distanti da quelle di Lenin tanto è vero che, sullo stesso numero del giornale, il bolscevico Ol’minskij non mancò di dichiarare che “ la rivoluzione (borghese) non è stata completata. Noi siamo per la parola d’ordine «colpire insieme. Negli affari di partito, ciascun partito per sé; ma tutti come un sol uomo per la causa comune”10 Una indicazione a sostenere, unitariamente con gli altri partiti, il governo provvisorio e il suo programma democratico-borghese. Né fu da meno il comitato di partito di Pietrogrado, appena ricostituitosi, quando il 5 marzo approvò una dichiarazione con cui si affermava l’appoggio al governo provvisorio finchè “la sua azione corrisponde agli interessi del proletariato e delle larghe masse democratiche del popolo”11 In quell’occasione, il comitato si scontrò apertamente con Molotov che era presente alla riunione.
Il 13 marzo, liberati dal movimento rivoluzionario, dalle prigioni della Siberia arrivarono a Pietrogrado i bolscevichi della vecchia guardia Kamenev, Stalin e Muranov. Quest’ultimo era stato deputato bolscevico alla Duma. Immediatamente assunsero la direzione del partito assegnando a Muranov la direzione della Prava, cosa che fu annunciata ufficialmente dal giornale il 15 marzo. Il cambio di uomini alla direzione determinò immediatamente una virata decisa di linea politica. Sempre il 15 marzo, nello stesso numero, la Pravda pubblicava con enfasi il proclama del Soviet di Pietrogrado che dichiarava: “noi difenderemo strenuamente la nostra libertà” e che “la rivoluzione russa non indietreggerà davanti alle baionette degli aggressori”12. Seguiva un articolo di Kamenev col quale dichiarava: “quando un esercito fronteggia un altro esercito, non v’è niente di più inutile del suggerire a uno dei due eserciti di deporre le armi e di andare a casa. Non si tratterebbe, in questo caso, di una politica di pace ma di una politica di schiavitù, che sarebbe respinta da un popolo libero”. Stalin, pur non arrivando a prospettare una politica di aperto sostegno alla guerra come Kamenev, il giorno precedente aveva pubblicato un articolo con cui evitava di pronunciarsi sulla natura del governo provvisorio e sulle azioni da intraprendere nei suoi confronti limitandosi a inneggiare genericamente alla rivoluzione in corso. Sljapnikov testimoniò nelle sue memorie che il cambiamento di linea politica provocò grave sconcerto tra gli operai. Ciò nonostante, Stalin, alla conferenza del partito che doveva definire la linea d’azione da tenere all’imminente conferenza panrussa dei soviet prevista per la fine di marzo, propose di appoggiare il governo provvisorio fintanto che esso avesse soddisfatto gli operai e i contadini rivoluzionari. Il suo opportunismo, la sua ambiguità, la sua attitudine a non compromettersi per mantenere aperta la porta a ogni eventualità, già si manifestavano e il fatto che la maggioranza del partito bolscevico in quel momento condivise la sua opinione ci dice quanta confusione ci fosse in assenza della guida politica di Lenin. Dunque, a fine marzo tutto lo sforzo chiarificatore di Lenin veniva cancellato in un sol colpo e il partito bolscevico tornava, nella pratica, a sostenere il governo borghese e il suo programma democratico con grave smacco per i tre giovani dirigenti che fino a quel momento avevano cercato di seguire le posizioni rivoluzionarie di Lenin.
Il 3 aprile 1917 Lenin arrivò in Russia dalla Finlandia in un vagone ferroviario blindato. Egli non esita, è deciso, capisce che il partito è allo sbando e si impegna immediatamente a ristabilirne la rotta. Raggiunto da Sljapnikov sul treno alla stazione di Beloostrov, quella precedente a Pietrogrado, riceve da questi un rapporto dettagliato sulla situazione del partito, sulle posizioni dei principali dirigenti bolscevichi e su quanto la Pravda aveva pubblicato a favore della difesa militare della Russia.
Al suo arrivo a Pietrogrado, fu ricevuto dai membri del comitato centrale, della direzione della Pravda e del comitato di partito della città. Tra questi vi era anche Kamenev. Inoltre era presente il presidente del soviet di Pietrogrado Ccheidze che non perse tempo a salutarlo augurandosi l’alleanza di tutte le forze democratiche per la difesa della rivoluzione democratica. Lenin, dopo aver indirizzato a Kamenev alcune battute taglienti per le sue posizioni di retroguardia, tagliò corto con i presenti per rivolgersi direttamente alla folla radunata alla stazione; nel comizio improvvisato denunciò “la sporca guerra imperialista”, salutando “la vittoriosa rivoluzione russa” che aveva avviato “ una nuova epoca” e auspicò l’avvio de “la rivoluzione socialista mondiale”21. Era il segnale della lotta che Lenin voleva intraprendere: trasformare la rivoluzione democratica russa in rivoluzione socialista per avviare la rivoluzione mondiale contro il capitalismo.
La stessa sera Lenin riprese le sue argomentazioni, parlando per oltre due ore, di fronte al partito riunito. Lo stupore fu enorme perché tutti si aspettavano che Lenin redarguisse Molotov, il più ostile al governo provvisorio; invece si accorsero che al contrario Molotov era il più vicino alle posizioni di Lenin. Il giorno dopo, oltre a diversi incontri con i vari organi di partito, Lenin si rivolse al Soviet recandosi al Palazzo di Tauride dove lesse per la prima volta le sue “Tesi di aprile” che riassumiamo riportandone i punti più significativi:
In quel momento fu attaccato da tutti, persino deriso, e solo la bolscevica Kollontaj lo difese. Lenin non si avvalse neanche del diritto di replica e se ne andò. La sera stessa, quando Lenin rilesse le sue tesi a una riunione di dirigenti bolscevichi, rimase ancora una volta isolato. Le tesi furono allora pubblicate e subito si scatenò un putiferio. Il giorno dopo la Pravda pubblicò la nota di Kamenev con la quale si dichiarava ufficialmente che le tesi costituivano solo le opinioni personali di Lenin. Il suo articolo terminava dicendo che “per quanto attiene lo schema generale di Lenin , esso ci appare inaccettabile poiché parte dal presupposto che la rivoluzione borghese sia terminata e si basa sull’immediata trasformazione di questa rivoluzione in una rivoluzione socialista”22. Lo stesso giorno il comitato di partito di Pietrogrado discusse le tesi e le respinse con 13 voti contro 2 e una astensione. Altrettanto avvenne in altre assise del partito e alla conferenza panrussa del partito di dieci giorni dopo.
Lenin continuò la sua battaglia politica nei mesi successivi scrivendo diversi articoli e partecipando a innumerevoli dibattiti. Lo scontro interno al partito si riduceva in ultima analisi a due posizioni sostanziali, quella di Lenin che voleva che il partito si adoperasse per il passaggio del potere ai soviet e quella di Kamenev che voleva che il partito, attraverso la sua influenza nei soviet, si limitasse a controllare l’operato del governo provvisorio. Egli era apertamente contrario a ogni iniziativa che non fosse di sostegno al governo. Man mano che le settimane passavano però l’influenza di Lenin cresceva, anche in relazione a quanto stava accadendo al fronte dove i soldati erano impegnati a continuare la guerra.
La nota governativa di Miljukov del 18 aprile comunicava ufficialmente che sarebbero stati mantenuti gli impegni militari sottoscritti con gli alleati dal governo zarista. Uno scacco per le posizioni moderate che dominavano in quel momento i soviet, innanzi tutto per quei menscevichi che, rifiutando il disfattismo rivoluzionario, chiedevano che il governo si impegnasse a rinunciare agli obiettivi militari annessionistici per conseguire una pace democratica con le altre nazioni. Alla nota governativa la piazza rispose con un’ondata di proteste e manifestazioni che costrinsero il governo a dimettersi. La guerra continuava a essere il punto cruciale di ogni avvenimento sociale e politico. Ai primi di maggio si formò il secondo governo L’vov, questa volta con sei ministri socialisti, due SR, due menscevichi e due socialisti indipendenti.
Dopo dieci giorni dalla nota di Miljukov, si riunì in un clima di tensione sociale crescente la conferenza panrussa del partito bolscevico. Vi partecipavano 150 delegati provenienti dalle principali città russe. Ancora una volta alle tesi di Lenin di contrapposero le argomentazioni di Kamenev ma gli eventi militari e il malcontento cominciavano a pesare anche sugli avvenimenti interni al partito spostandolo su posizioni più radicali. Per questo, l’intenso dibattito che seguì portò i delegati, non senza contrasti, ad approvare a grandissima maggioranza le posizioni di Lenin. Fu anche approvata, da un partito che fino a quel momento si era convinto che il suo scopo immediato fosse appoggiare la rivoluzione borghese e quindi il governo in carica, la risoluzione con cui si affermava che “la rivoluzione russa è soltanto il primo stadio della prima delle rivoluzioni proletarie scaturenti inevitabilmente dalla guerra…”, che un’azione comune dei lavoratori dei vari paesi era l’unico mezzo per far avanzare “la rivoluzione socialista mondiale” e che anche se in Russia non era possibile l’immediata realizzazione della trasformazione socialista, il proletariato doveva ciò nonostante assumersi il compito di effettuare le riforme pratiche necessarie per completare la rivoluzione borghese23. Dunque la svolta era avvenuta: il partito, grazie alla grande influenza di Lenin, metteva all’ordine del giorno la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile per la rivoluzione proletaria. La conferenza, passata alla storia come “conferenza di aprile”, di fatto faceva propria la parola d’ordine del disfattismo rivoluzionario con l’obiettivo di trasferire “tutto il potere ai soviet”.
A maggio rimpatriarono molti esiliati e tra questi Trockij che rientrava dagli Usa. Fu un fatto importante perché Trockij era stato il presidente del soviet di Pietrogrado nel 1905 e il suo prestigio era enorme. Da lì a poco si sarebbe costituita una salda alleanza tra lui e Lenin.
Da quel momento gli avvenimenti evolsero rapidamente. A giugno ci fu il primo Congresso Panrusso dei Soviet, che durò tre settimane, a cui parteciparono 822 delegati con diritto di voto. Di questi solo 105 erano bolscevichi. Il Congresso si pronunciò a favore del governo provvisorio respingendo la mozione bolscevica che chiedeva il trasferimento di ogni potere ai soviet. Non meno importante fu che il congresso decise di costituire un organo direttivo permanente che doveva riunirsi ogni tre mesi e che delegava il cosiddetto VCIK, il comitato esecutivo panrusso dei soviet composto da un ristretto numero di delegati, ad amministrare la vita dei soviet tra una riunione e l’altra. Di fatto, senza che se ne avesse consapevolezza, si costituiva l’organo di governo del futuro stato proletario.
Ai primi di luglio il governo L’vov ordinò una nuova offensiva militare in Galizia a cui seguì una pesante disfatta con gravi perdite di uomini. Ancora una volta la guerra determinava una svolta nelle vicende politiche e l’avvio di una nuova fase della rivoluzione. All’iniziativa militare seguì quella dei bolscevichi che si unirono alle spontanee manifestazioni di piazza, che durarono ben quattro giorni, per protestare contro la guerra. Ormai le manifestazioni erano apertamente contrarie al governo e alla guerra e cominciavano a essere influenzate dai bolscevichi e dalle loro parole d’ordine. In quei giorni i bolscevichi conquistarono per la prima volta la maggioranza nei soviet di Pietrogrado e di Mosca. Il governo, temendo che i bolscevichi sfruttassero la situazione per prendere il potere, reagì duramente con la repressione. Chiamò nella capitale le truppe più fedeli, ordinò l’arresto dei più importanti bolscevichi e fece cessare l’uscita della Pravda. Kamenev fu arrestato mentre Lenin e Zinov’ev riuscirono a rifugiarsi momentaneamente in Finlandia. Intanto si formava un nuovo governo, il terzo dalla rivoluzione di febbraio, presieduto questa volta dal socialista Kerenskij.
Ad agosto il fatto più eclatante fu la “conferenza di stato” indetta dal governo, a cui parteciparono più di duemila delegati dei più disparati partiti e istituzioni pubbliche. Doveva fare il punto sulla situazione del paese ormai nel caos ma si risolse in un fiume di chiacchiere inconcludenti. A questa conferenza governativa i mescevichi e gli SR opposero la loro “conferenza democratica” con la quale istituirono il “consiglio della repubblica” che avrebbe dovuto agire fino alla convocazione dell’assemblea costituente. Alla fine di agosto ci fu il tentativo delle forze politiche di destra di organizzare un colpo di stato per mezzo del generale Kornilov che cercò di marciare su Pietrogrado. Mentre il governo era ormai privo di mezzi militari per difendere la città, il tentativo di colpo di stato fallì per l’azione valorosa delle masse, questa volta organizzate principalmente dai bolscevichi. Gli operai delle officine Putilov decisero di effettuare dei turni di sedici ore giornaliere per costruire in due giorni duecento cannoni per la difesa della città, i ferrovieri paralizzarono la rete ferroviaria, molti soldati dell’esercito e i marinai della base navale di Kronstadt parteciparono attivamente alla difesa militare di Pietrogrado. Il colpo di stato fu neutralizzato.
A quel punto i soldati al fronte passarono dalle diserzioni spontanee a un’aperta smobilitazione per il ritorno a casa mentre nelle campagne e nelle città erano sempre più frequenti i saccheggi, i disordini, gli scioperi e le manifestazioni. La situazione stava degenerando ma stavano maturando velocemente le condizioni perché i bolscevichi diventassero la forza dominante nei soviet, gli organi che di fatto svolgevano la funzione di punto di riferimento di ogni mobilitazione popolare. A quel punto i menscevichi e gli SR, le forze politiche fino a quel momento dominanti nei soviet, erano screditate agli occhi delle masse perché continuavano ad assecondare il governo e la guerra.
Lenin, se pure all’estero, riprese l’iniziativa nei confronti del suo partito. Con una serie di lettere segrete scritte a metà settembre e rivolte al comitato centrale, indicò che era giunto il momento dell’insurrezione. Intanto Trockij, uscito di prigione in quei giorni, venne immediatamente eletto presidente del soviet di Pietrogrado.
Ad ottobre si rinnovò lo scontro nel partito che si era avuto ad aprile: si doveva decidere se partecipare alla conferenza democratica indetta dai menscevichi e dagli SR. Nel comitato centrale, da una parte erano schierati il solito conciliazionista Kamenev e altri favorevoli alla partecipazione, dall’altra Trockij e altri ancora che proponevano di boicottarla. Fu deciso a maggioranza di parteciparvi, una decisione che venne subito condannata da Lenin che in quell’occasione elogiò apertamente il comportamento di Trockij. Ma la cosa più importante fu il suo articolo col quale ribadiva, di fronte ai crescenti disordini nei paesi belligeranti e agli ammutinamenti nella flotta e nell’esercito tedeschi, che la situazione era matura per una rivoluzione proletaria a scala internazionale. La parte più importante dell’articolo era un poscritto che non doveva essere pubblicato ma comunicato ai membri del comitato centrale del partito. Lenin li accusava di aver ignorato quanto aveva comunicato in precedenza e per questo rassegnava le sue dimissioni dal comitato centrale in modo da aver la libertà di rivolgersi direttamente alla base del partito per guidare all’insurrezione le masse rivoluzionarie che in quei giorni stavano esprimendo una forza senza precedenti con le loro mobilitazioni. Mancano le notizie riguardo la reazione del comitato centrale che, pare, in preda all’imbarazzo, non rispose. Il 9 ottobre Lenin, giunse in incognito a Pietrogrado per partecipare a una riunione del comitato centrale che doveva tenersi il giorno dopo e che divenne storica. Lenin accusò con veemenza i dirigenti di indifferentismo rispetto al problema dell’insurrezione e chiese la votazione a favore della sua preparazione. La sua influenza, il suo prestigio, la sua coerente azione politica e la sua determinazione fecero in modo che si dichiararono a favore dieci membri su dodici. Solo due i contrari: Kamenev e Zinov’ev. Venne deciso allora di nominare un “ufficio politico” preposto all’organizzazione dell’insurrezione. Dopo sei giorni il soviet di Pietrogrado decise di costituire un “comitato militare rivoluzionario” presieduto da Trockij per preparare e organizzare militarmente l’insurrezione.
Siginficativa era la composizione dell’ “ufficio politico” costituito da sette persone: Lenin, Zinov’ev, Kamenev, Trockij, Stalin, Sokol’nikov, Bubnov. Tra di loro c’erano i due che avevano votato contro l’insurrezione a dimostrazione di come il centralismo democratico era in quel momento il cemento che dava la forza per sviluppare nel partito un ampio dibattito e nel contempo una univoca convergenza d’azione sulle decisioni prese a maggioranza. Disciplina e solidarietà erano i suoi corollari che in quest’occasione si manifestavano in tutta la loro intensità.
I due oppositori non si diedero vinti. Il giorno 11 ottobre Kamenev e Zinovev inviarono una lettera a tutto il partito con la quale protestavano contro la decisione dell’insurrezione armata e rinnovarono il loro scontro il 16 ottobre nella riunione allargata del comitato centrale; Lenin ribadì la sua posizione che ebbe, nella votazione che seguì, 16 voti favorevoli e 2 contro. La riunione confermò di proseguire i preparativi per l’insurrezione. Fu allora, alla fine della riunione, che Kamenev rassegnò le dimissioni da membro del comitato centrale e dopo due giorni pubblicò su un giornale indipendente di sinistra una sua dichiarazione con la quale protestava, anche a nome di Zinov’ev, per la decisione assunta. La dichiarazione costituiva una aperta violazione della disciplina di partito e, cosa ancora più grave, rivelava pubblicamente l’intenzione del partito bolscevico. Lenin, con una lettera del 18 ottobre indirizzata ai membri del partito, lo stesso giorno della pubblicazione della dichiarazione di Kamenev, reagì denunciando il sabotaggio di Kamenev e bollando come atto criminale la sua azione. Intanto Trockij nel soviet di Pietrogrado cercava di correre ai ripari dichiarando ufficialmente che il partito bolscevico non aveva preso alcuna decisione.
Il clima era infuocato quando il 20 ottobre si riunì il comitato centrale, con Lenin ancora assente ma in continuo contatto con esso. Si decise di accettare le dimissioni di Kamenev e si respinse la proposta di Lenin di espulsione dal partito dello stesso insieme a Zinov’ev. Si stabilì anche che l’azione decisiva per l’insurrezione dovesse essere compiuta il 25 ottobre, immediatamente prima che si riunisse il Congresso Panrusso dei Soviet. Il 24, il comitato centrale si riunì per definire gli ultimi dettagli dell’insurrezione e Kamenev, nonostante la decisione di quattro giorni prima, fu chiamato ancora alla direzione del partito. Fu così che, nelle prime ore del mattino del 25 ottobre, l’insurrezione ebbe luogo.
Non si può non rilevare quanto il comitato centrale e innanzi tutto Lenin, furono estremamente flessibili nell’accettare Kamenev alla direzione del partito nonostante le sue, a dir poco, discutibili iniziative.
La pace di Brest-Litovsk.
Il partito bolscevico aveva chiaro il senso della propria azione: innescare la rivoluzione in Russia doveva essere il primo passo del processo rivoluzionario a scala internazionale nella prospettiva della transizione al comunismo. All’interno, il primo problema da affrontare era avere l’appoggio dei contadini che costituivano la maggioranza della popolazione, nonostante il loro orientamento politico, anche di quelli più poveri, non fosse comunista. Cosa chiedevano? La pace e la terra. La guerra dunque, ancora una volta, era una questione cruciale e non si poteva indugiare.
Il secondo Congresso panrusso dei soviet, promulgò il 26 ottobre, il giorno dopo la proclamazione del potere sovietico, due decreti, quello sulla terra e quello sulla pace. Col primo, lo diciamo sommariamente, si confiscavano le grandi proprietà terriere dei nobili e della chiesa per metterle a disposizione dei contadini organizzati, sebbene ancora molto embrionalmente, nei loro soviet; col secondo, si dichiarava sostanzialmente la volontà di fermare la guerra e avviare le trattative di pace appellandosi all’azione del proletariato internazionale, in particolare quello dei paesi industrialmente più avanzati:
Il governo operaio e contadino, creato dalla rivoluzione il 24-25 ottobre e forte dell’appoggio dei soviet dei deputati degli operai, dei soldati e dei contadini, propone a tutti i popoli belligeranti e ai loro governi l’immediato inizio di trattative per una pace giusta e democratica.
Il governo considera come pace giusta e democratica, alla quale aspira la schiacciante maggioranza degli operai e delle classi lavoratrici di tutti i paesi belligeranti, sfinite, estenuate e martoriate dalla guerra, la pace che gli operai e i contadini russi esigevano nel modo più deciso e tenace dopo l’abbattimento della monarchia zarista, una pace immediata senza annessioni (cioè senza la conquista di terre straniere, senza l’annessione forzata di altri popoli) e senza indennità. Questa è la pace che il governo della Russia propone a tutti i popoli belligeranti di concludere immediatamente, dichiarandosi pronto a compiere senza il minimo indugio, subito, tutti i passi decisivi fino a quando tutte le proposte di pace verranno definitivamente ratificate dalle conferenze, investite di pieni poteri, dei rappresentanti del popolo di tutti i paesi e di tutte le nazioni….
…Il governo abolisce la diplomazia segreta ed esprime, da parte sua, la ferma intenzione di condurre tutte le trattative in modo assolutamente pubblico, davanti a tutto il popolo. di cominciare subito la pubblicazione integrale dei trattati segreti confermati o conclusi dal governo dei grandi proprietari fondiari e dei capitalisti dal febbraio al 25 ottobre 1917. Il governo dichiara incondizionatamente e immediatamente abrogato tutto il contenuto di questi trattati quando esso è diretto, come è diretto nella maggior parte dei casi, alla conquista di vantaggi e privilegi per i grandi proprietari fondiari e per i capitalisti russi, al mantenimento o all’accrescimento delle annessioni dei grandi russi…
… Il governo propone a tutti i governi e ai popoli di tutti i paesi belligeranti di concludere immediatamente un armistizio. Da parte sua ritiene desiderabile che questo armistizio sia concluso per almeno tre mesi, cioè per un periodo di tempo durante il quale vi sia la piena possibilità di condurre a termine le trattative di pace, con la partecipazione dei rappresentanti, senza eccezione, di tutti i popoli o nazioni — trascinati nella guerra o costretti a parteciparvi, e di convocare le assemblee dei rappresentanti popolari di tutti i paesi, investiti di pieni poteri, per ratificare definitivamente le condizioni di pace…
… Il governo provvisorio, operaio e contadino della Russia, indirizzando queste proposte di pace ai governi e ai popoli di tutti i paesi belligeranti, si rivolge anche e specialmente agli operai coscienti delle tre nazioni più progredite dell’umanità, dei più potenti fra gli Stati che partecipano alla guerra attuale: Inghilterra, Francia e Germania… gli operai di questi paesi comprenderanno i compiti che stanno ora davanti a loro per la liberazione dell’umanità dagli orrori della guerra e dalle sue conseguenze, giacché questi operai, con la loro attività molteplice, risoluta, devota, energica, ci aiuteranno a far trionfare la causa della pace e, ad un tempo, la causa della liberazione delle masse lavoratrici e sfruttate da ogni schiavitù e da ogni sfruttamento13.
Prima di analizzare questo decreto, vale la pena considerare quanto Lenin, ancora nel settembre del ’17, un mese prima della rivoluzione, scriveva in un articolo pubblicato sul giornale di partito a proposito di quanto ora stava accadendo. Lenin aveva ben chiare le difficoltà che, di fronte alla ritrosia dei governi borghesi ad accettare la pace, avrebbe dovuto affrontare lo stato proletario:
“se dovesse accadere il meno probabile, cioè se nessuno stato belligerante accettasse nemmeno un armistizio, allora la guerra da parte nostra diventerebbe una guerra veramente necessaria, veramente giusta e difensiva. Il semplice fatto che il proletariato e i contadini più poveri saranno coscienti di ciò renderà la Russia molte volte più forte dal punto di vista militare, specialmente dopo una completa rottura coi capitalisti che derubano il popolo; per non menzionare il fatto che allora la guerra sarà da parte nostra , non a parole, ma nei fatti, una guerra di alleanza delle classi oppresse di tutti i paesi, una guerra di alleanza di tutti i popoli oppressi di tutto il mondo”25. Lenin aveva già definito le azioni da compiere nel caso non si fosse riusciti a piegare i governi borghesi alla pace. Egli non escludeva che il proletariato e i contadini in Russia potessero essere costretti a continuare la guerra ma in quel caso si sarebbe dovuto operare per trasformare la continuazione della guerra nella rivoluzione internazionale appellandosi alla fraternizzazione nelle trincee dei soldati. Dunque si può dire che il partito bolscevico era ben attrezzato teoricamente per affrontare ogni evenienza.
Torniamo al decreto sulla pace. Appare evidente che esso cerchi la pace a ogni costo, quella pace che costituiva l’aspirazione più forte e immediata di ogni proletario. Dal linguaggio traspariva il tentativo di risolvere la contraddizione, mancando ancora l’azione rivoluzionaria del proletariato negli altri paesi, tra il doversi rivolgere ai governi borghesi per avviare le trattative di pace e il dover incitare il proletariato all’azione rivoluzionaria contro di essi. Che altro avrebbero potuto fare? In quel momento non si manifestavano moti insurrezionali nei paesi belligeranti pur essendoci tra la popolazione, in particolare tra gli operai e i soldati di quei paesi, dei forti disagi e delle spinte alla ribellione. Il decreto inevitabilmente rifletteva questa contraddizione e per questo si esprimeva con un linguaggio non esplicitamente rivoluzionario: proponeva la sospensione della guerra sapendo che difficilmente i governi borghesi l’avrebbero accettata e un’offerta di pace giusta e democratica ben sapendo che l’imperialismo l’avrebbe rifiutata. Perchè nel decreto troviamo solo un accenno finale, piuttosto generico, all’azione rivoluzionaria del proletariato per porre termine alla guerra? E’ l’isolamento internazionale della Russia che fa sentire il suo enorme peso fin dal primo giorno dell’insediamento del potere sovietico. Si poteva fare altro in quel momento? Difficile dirlo. Sicuramente sarebbe stato molto discutibile proporre al proletariato e ai contadini russi di esportare la rivoluzione con le armi con un’azione militare diretta; avrebbe potuto suscitare un probabile rifiuto. Ciò nonostante, come vedremo, una parte dei dirigenti bolscevichi arrivò a sostenere proprio la tesi di fare una guerra rivoluzionaria.
Indubbiamente l’abolizione della segretezza dei trattati stipulati prima della guerra e la loro pubblicazione fu un atto rivoluzionario che spezzava il tradizionale modo di agire della borghesia che definiva accordi, trattati e alleanze secondo i suoi esclusivi interessi imperialistici che ovviamente dovevano essere sottaciuti. Anche la tradizionale attività diplomatica venne abolita. Trockij, appena nominato commissario del popolo per gli Affari esteri, dichiarò in quel periodo congiuntamente al Sovnarkom, il consiglio dei commissari del popolo, l’organo esecutivo dello stato sovietico, che “la rivoluzione vittoriosa non ha bisogno del riconoscimento da parte dei rappresentanti professionali della diplomazia capitalistica”26. Se la rivoluzione doveva aprire una porta a un mondo del tutto nuovo, così tutte le regole precedenti, riflesso degli interessi e delle logiche borghesi, dovevano essere spazzate via. Da questo punto di vista il decreto sulla pace fu veramente rivoluzionario.
Il decreto, ispirato dalla sincera intenzione di debellare la guerra affermando il principio della solidarietà tra i popoli, non metteva in primo piano l’azione rivoluzionaria, la sola che avrebbe potuto veramente aprire la strada alla sua realizzazione. Due erano le strade percorribili: o si puntava all’aperto sostegno dell’azione rivoluzionaria del proletariato, ma questo sarebbe stato possibile solo se le masse nei restanti paesi fossero state all’attacco, in uno stato preinsurrezionale o quasi, oppure bisognava cercare di fermare la guerra ad ogni costo scendendo a patti proprio con i governi borghesi. Visto che il proletariato internazionale era in movimento, in lotta, in sciopero ma ancora lontano dallo sferrare l’attacco rivoluzionario, allora la tattica che il partito bolscevico scelse fu quella di guadagnare tempo per cercare di dimostrare al mondo intero l’ostilità dei governi borghesi a quella prima rivoluzione proletaria e alla pace che essa perseguiva, in modo da stimolare lo sdegno del proletariato internazionale e la sua azione rivoluzionaria, innanzi tutto di quello tedesco.
Cosa concretamente fecero i bolscevichi per sostenere l’azione rivoluzionaria internazionale? Oltre alla pubblicazione dei trattati segreti, essi stanziarono dei denari a favore dei rappresentanti all’estero del Commissariato per gli Affari esteri e pubblicarono un giornale, “Die Fackel”, per la propaganda rivoluzionaria presso i prigionieri tedeschi e austriaci in terra russa e presso i soldati tedeschi ancora attestati nelle trincee orientali. Seguirono pubblicazioni analoghe in ungherese, romeno, serbo, turco. I bolscevichi riuscirono persino, attraverso il loro emissario diplomatico, a introdurre in Gran Bretagna molto materiale propagandistico che invitava gli operai alla lotta di classe. Questo provocò la dura reazione del governo britannico.
Oltre queste iniziative, molto altro non si poteva fare. Dunque si trattava di resistere in attesa delle rivoluzioni internazionali in mancanza delle quali la sconfitta della rivoluzione russa sarebbe stata inevitabile. Trockij, nei giorni successivi l’insurrezione, lo disse chiaramente: “se i popoli di Europa non si sollevano schiacciando l’imperialismo, noi saremo schiacciati – ciò è fuori di dubbio. O la rivoluzione russa susciterà il turbine della lotta in Occidente, oppure i capitalisti di tutti i paesi soffocheranno la nostra lotta”14.
Detto per inciso, è sconcertante vedere come questa chiarezza, questa fondamentale valutazione politica che costituiva l’essenza della strategia del partito bolscevico e che traeva spunto da uno dei cardini della dottrina marxista, con il perdurante isolamento internazionale si offuscò in pochi anni fino a dar luogo, all’inizio ad incerte e ambigue formulazioni politiche, poi, quando si comprese che i movimenti rivoluzionari in Europa erano definitivamente sconfitti, al suo vero e proprio capovolgimento quando nel 1925 il partito bolscevico si espresse ufficialmente per la realizzazione del socialismo nella sola Russia. Non è qui che possiamo analizzare gli avvenimenti economici e politici che portarono, morto Lenin, al tradimento della prospettiva internazionalista e all’avvio del processo controrivoluzionario di stampo nazionalistico che causò il massacro dei migliori rivoluzionari che vi si opposero. Fu un’immensa tragedia che trasformò in pochi anni la rivoluzione russa in un vero e proprio inferno i cui costi politici e sociali non si sono esauriti ancora oggi. Non possiamo esimerci almeno da questa sottolineatura.
Le trattative di pace comportavano anche un altro problema. Con la quasi certa mancanza di una unanime risposta dei governi belligeranti all’appello sovietico di avviare le trattative di pace, si sarebbe probabilmente dovuto trattare col governo tedesco e questo sarebbe stato considerato da quelli alleati alla Russia durante la guerra, un atto di ostilità nei loro confronti perché la Germania, conclusa la pace sul fronte orientale, avrebbe potuto spostare le sue truppe sul fronte occidentale e avviare una nuova campagna militare. In questo modo sarebbe stato facile accusare i bolscevichi di un’azione di difesa di casa propria al prezzo di un nuovo massacro militare ai danni dei popoli di Francia e Gran Bretagna. Insomma, anche la via negoziale era veramente difficile.
Il decreto sulla pace del II Congresso Panrusso dei Soviet, venne ignorato da tutti i governi mentre le trincee erano ancora lì con i soldati contrapposti e in assetto di guerra nonostante i segni evidenti di sfaldamento che si manifestavano soprattutto, ma non solo, tra le armate russe. Era necessario prendere l’iniziativa e si decise di inviare il commissario del popolo alla guerra Krylenko direttamente al fronte col compito di inviare dei delegati nelle linee tedesche per chiedere l’armistizio. Il giorno dopo, il 14 novembre, il comando tedesco, anch’esso alle prese con il grave malcontento dei suoi soldati, accettò che le trattative iniziassero il 19 novembre. Trockij approfittò di questo successo per invitare ai negoziati i governi dei paesi alleati, attraverso i loro ambasciatori presenti a Pietrogrado. Il suo intento era di evitare l’accusa di tradimento presso il proletariato occidentale da parte della Gran Bretagna e dei suoi alleati. Il timore era che potessero influenzare negativamente il proletariato di quei paesi. In un comunicato radio egli dichiarò: “Il 18 novembre noi cominceremo trattative di pace. Se le nazioni alleate non inviano i loro rappresentanti, noi condurremo le trattative da soli con i tedeschi. Noi vogliamo una pace generale, ma se i borghesi dei paesi alleati ci costringono a concludere una pace separata , la responsabilità ricadrà interamente su di loro”15.
Le trattative per l’armistizio, poi quelle per la pace avvennero a Brest-Litovsk (oggi Brest). Vi parteciparono da una parte i rappresentanti della Germania, dell’Austria-Ungheria, della Bulgaria e della Turchia, dall’altra la delegazione sovietica d’armistizio diretta da Ioffe, Kamenev e Sokol’nikov accompagnati da esperti militari, un rappresentante operaio e uno contadino. L’armistizio, che preludeva le trattative di pace, venne firmato il 2 dicembre 1917. Esso arrestava le operazioni militari sul fronte orientale ma consentiva ai tedeschi il presidio delle terre occupate dal suo esercito. I bolscevichi invece riuscirono a strappare due clausole che costituivano una vera innovazione nelle trattative di armistizio. Con la prima il comando tedesco si impegnava a non trasferire le truppe sul fronte occidentale; con la seconda, di compromesso rispetto alla iniziale richiesta bolscevica di consentire una illimitata esportazione in Germania della letteratura rivoluzionaria, permetteva dei “contatti organizzati tra le truppe” nell’interesse dello “sviluppo e rafforzamento delle amichevoli relazioni tra i popoli delle parti contraenti”. In pratica si permetteva che si incontrassero ogni volta venticinque uomini di entrambi i fronti per lo scambio di informazioni, giornali, lettere aperte e generi di consumo quotidiano. Non si trattava certo della fraternizzazione degli eserciti e dei popoli dichiarata da Lenin nelle sue tesi di aprile ma in qualche modo, si consentiva ai bolscevichi di propagandare, se pure in modo controllato, il loro pensiero. Che altro si sarebbe potuto ottenere con quei rapporti di forza decisamente sbilanciati dalla parte dei tedeschi? Che altro si poteva fare se il proletariato tedesco con la sua lotta non era ancora in grado di metter in seria difficoltà il governo e il suo apparato militare? L’armistizio, valido per ventotto giorni, dava il tempo per avviare le trattative di pace.
Non possiamo ripercorrere gli eventi successivi delle trattative che portarono alla firma del trattato di Best-Litovsk col quale i bolscevichi riuscirono a ottenere la pace. Fu una durissima partita a scacchi durante la quale essi cercarono ogni volta di prendere tempo, di non accettare le durissime annessioni pretese dalla Germania, di tergiversare in attesa di novità insurrezionali soprattutto da parte del proletariato tedesco. La partita finì quando il 5 gennaio 1918 il generale tedesco Hoffmann si presentò all’incontro con i delegati sovietici con una carta geografica sulla quale aveva tracciato una linea blu per indicare le aree di conquista irrinunciabili. Per i bolscevichi si trattava di pesantissime perdite territoriali. Trockij, ancora una volta tentò di prendere tempo e chiese dieci giorni per consultarsi con le autorità sovietiche di Pietrogrado. La crisi giunse il 28 gennaio 1918quando la Germania, spazientita per il continuo tergiversare, pose ilsuo ultimatum per la firma della pace. Troskij si incaricò di rispondere dichiarando ufficialmente che “la Russia, mentre si rifiuta di firmare una pace annessionistica, da parte sua dichiara finito lo stato di guerra con la Germania, l’Austria-Ungheria, la Turchia e la Bulgaria.”16. Dopodiché i delegati russi abbandonarono le trattative e partirono per Pietrogrado lasciando sconcertati gli ufficiali tedeschi. Le trattative erano arrivate al punto di rottura. Le autorità tedesche, irritate per quel gesto, ne approfittarono per dichiarare la fine dell’armistizio e il 17 febbraio decisero di riprendere le azioni militari.
Il dibattito che seguì a questi fatti nel comitato centrale del partito bolscevico e nei Soviet ai diversi livelli, fu drammatico. Si trattava di accettare o meno le pesanti annessioni pretese dalla Germania. Nel partito bolscevico si confrontarono tre posizioni. La prima, quella più radicale appoggiata anche dai socialisti-rivoluzionari di sinistra, propose di non accettare e di continuare ad oltranza la guerra, questa volta rivoluzionaria, facendo appello alla mobilitazione delle masse dei paesi occidentali per fermare l’aggressione imperialista nei confronti della rivoluzione sovietica; questa tesi ebbe in Nikolai Bucharin il più importante sostenitore. Anche Lev Trotsky fu contrario alla firma del trattato e propose, come via d'uscita, il rifiuto unilaterale di continuare la guerra. Sperava in questo modo che i generali tedeschi sarebbero stati impossibilitati a continuarla per l'opposizione interna del proletariato. Solo Lenin riteneva che la pace andasse firmata ad ogni costo accettando le dure condizioni tedesche ma nelle votazioni che seguirono fu in minoranza, anche se per pochi voti.
La svolta avvenne quando arrivarono le notizie di ulteriori avanzamenti dell’esercito tedesco con l’occupazione di altre città e territori ucraini. Allora Lenin ripropose la sua mozione. Questa volta ebbe la maggioranza con 7 voti favorevoli e 5 contrari. La proposta venne immediatamente sottoposta all’approvazione del Sovnarkom e la sera stessa venne urgentemente inviato il telegramma di accettazione alle autorità tedesche che, avendo intuito la grave difficoltà dei loro avversari, non risposero continuando invece le operazioni militari.
Lo stato maggiore tedesco rispose solo il 23 febbraio 1918 pretendendo ancora più gravose annessioni. Nel comitato centrale del partito bolscevico, comprensibilmente, divampò ancora una volta la battaglia per accettarle o respingerle. Questa volta Lenin decise di porre un ultimatum al comitato centrale e dichiarò che se non fosse finita “la politica della frase rivoluzionaria” si sarebbe dimesso dal partito. Ci furono ancora altre resistenze. Stalin propose di rinviare la ripresa delle trattative e Trockij sostenne che la forza dell’unità del partito avrebbe permesso di resistere ancora. Decidere fu difficilissimo e si votò ancora una volta. Grazie all’astensione di Trockij e di altri tre dirigenti, il risultato fu favorevole alla posizione di Lenin. La sera stessa la decisione venne sottoposta all’approvazione del VCIK che avvenne alle 4, 30 del mattino del 24 febbraio, anche se non a schiacciante maggioranza (116 voti favorevoli contro 84 contrari). Un telegramma di accettazioni venne spedito ai tedeschi la notte stessa e venne inviata immediatamente una delegazione a Brest-Litovsk, questa volta senza Trockij e Joffe, per evitare loro l’umiliazione della firma di un trattato capestro. Immediatamente prima della firma, ulteriori richieste territoriali vennero fatte dalla Turchia e i delegati russi furono costretti a cedere altri tre distretti di frontiera che erano stati tolti a quella nazione quaranta anni prima dal regime zarista.
Il trattato di Brest-Litovskvenne firmato il 3 marzo 1918 dalla Russia sovietica da una parte e dall'Impero tedesco, dall'Austria-Ungheria, dalla Bulgaria e dall'Impero ottomano dall’altra: oltre a dover pagare una cospicua indennità di guerra (circa sei miliardi di marchi), la Russia rivoluzionaria perse la Polonia orientale, la Lituania, la Curlandia, la Livonia, l’Estonia, la Finlandia, l’Ucraina e la Transcaucasica. Complessivamente la pace di Brest-Litovsk tolse alla Russia 56 milioni di abitanti (pari al 32% della sua popolazione), la privò di un terzo delle sue strade ferrate, del 73% dei minerali ferrosi, dell'89% della produzione di carbone e di cinquemila fabbriche. Questo fu il prezzo, elevatissimo, che l’imperialismo fece pagare alla rivoluzione.
Conclusioni.
Abbiamo cercato di delineare la relazione tra la prima guerra mondiale e la rivoluzione d’Ottobre mettendo in evidenza come gli eventi bellici ebbero un grande peso nel determinare gli eventi, sia prima che dopo la rivoluzione. Per concludere, ci pare necessario fare alcune sottolineature.
Uno. La guerra smascherò il riformismo di inizio Novecento, un riformismo che cercava una via pacifica per arrivare al socialismo. Quel riformismo, che alla prova dei fatti ha mostrato tutta la sua vacuità e, alla fine, la sua natura politica borghese sostenendo la guerra imperialista, oggi non esiste più. Analogamente per il movimento pacifista, molto forte ma impotente allora, quasi inesistente oggi. Nella realtà odierna le forze politiche che dichiarano di perseguire le riforme si pongono esclusivamente il problema di rendere il sistema economico più forte e competitivo, capace di confrontarsi sul piano commerciale e militare a livello internazionale. Oggi il militarismo di queste forze è palese anche se viene ammantato da pretesti come quello di intervenire militarmente per portare la pace in terra straniera o per difendere i valori democratici dell’Occidente. Ieri come oggi, il militarismo è un prodotto del capitalismo soprattutto nel corso delle sue crisi economiche. Oggi ci troviamo davanti prospettive tragiche in mancanza dio forze rivoluzionarie in grado di contrastare la guerra come fece il partito bolscevico un secolo fa. Non è possibile fare previsioni sul futuro ma la situazione attuale è questa.
Due. La rivoluzione d’Ottobre è stato l’unico episodio vittorioso di guerra alla guerra condotto dal proletariato internazionale. Il prezzo pagato dalla Russia rivoluzionaria fu inevitabilmente altissimo. L’imperialismo fu spietato con la rivoluzione.
Non solo con le trattative di Brest-Litovsk ma anche finanziando e appoggiando militarmente la guerra civile nel biennio successivo con lo scopo di abbattere quel pericoloso focolaio della rivoluzione internazionale. Alla fine vinse l’imperialismo ma il grande insegnamento di Lenin fu che in quel momento storico era possibile avviare la rivoluzione mondiale contro il capitalismo. L’esito fu una sconfitta ma a priori non si poteva sapere cosa la lotta di classe del proletariato internazionale avrebbe sortito. Oggi quell’insegnamento è ancora più attuale perché il capitalismo sta producendo una crisi sociale senza precedenti in un mondo in cui le relazioni economiche hanno davvero un carattere mondiale, decisamente più che allora. La crisi sociale e un movimento rivoluzionario di opposizione alla guerra oggi avrebbero una dimensione internazionale senza precedenti. Alla barbarie capitalista è sempre più necessario e urgente contrapporre il disfattismo rivoluzionario per il superamento degli attuali rapporti di produzione.
Tre. Ancora una volta si evidenzia il ruolo fondamentale del partito nel processo di emancipazione del proletariato. Se da una parte quanto abbiamo analizzato mostra come sia insostituibile la lotta della classe oppressa che deve in prima persona diventare protagonista del processo della propria emancipazione, dall’altra evidenzia come questa lotta non possa incanalarsi verso il processo rivoluzionario senza una organizzazione capace di guidarla. Il ruolo nel partito, delle singole personalità, appaiono fattori importantissimi nel determinare il corso degli eventi. Perciò per i rivoluzionari è urgente affrontare la questione della riformulazione del programma comunista e della organizzazione partitica che possa radicarlo nella classe. Oggi questa è una, se non la principale, delle questioni urgenti che il movimento delle avanguardie rivoluzionarie ha davanti a sé. La borghesia, in tutto il mondo, è una classe con una molteplicità di organizzazioni politiche e strumenti coercitivi davvero impressionante. Il proletariato ne è invece sprovvisto. Le sue avanguardie dovrebbero riflettere attentamente su questo.
Note.
1 Edward H. Carr, La rivoluzione bolscevica 1917-1923, Giulio Einaudi editore, Torino, 1964, p. 68
2 ivi, p. 1321
3 ivi, p. 1321
4 ivi, p. 1321
5 Il bolscevismo era una corrente del Partito Operaio Socialdemocratico Russo, nata in seguito a una profonda divergenza di opinioni. I bolscevichi (dal russo bol´ševik «maggioritario»), erano la corrente maggioritaria con un programma rivoluzionario, i menscevichi (in russo men′ševik «minoritario») sostenevano un processo graduale e riformistico per l'avvento del socialismo. Le due correnti si separarono definitivamente quando, nella conferenza di Praga del 1912, di fatto Lenin dichiarò, insieme alla maggioranza dei partecipanti, che i bolscevichi ora costituivano il Partito Operaio socialdemocratico Russo.
6 ivi, p. 68
7 ivi, p. 1325
8 vedi Lev Trockij, Storia della rivoluzione russa, Arnoldo Mondatori Editore, 1969. Sono descritti minuziosamente gli episodi della fraternizzazione al fronte tra le trincee nemiche, dei coraggiosi ammutinamenti dei marinai della flotta russa, delle diserzioni, delle ribellioni della popolazione nelle città contro gli ufficiali delle caserme
9 ivi, pp. 74 e 75
10 ivi, p. 76
11 ivi, p. 76
12 ivi, p. 77
13 Decreto sulla pace, tratto da vedi http://www.senzasoste.it/speciali/i-decreti-della-rivoluzione-pace-e-terra
14 ivi, p. 815
15 ivi, p. 823
16 ivi, p. 834