Discutendo di rivoluzione e comunismo

Creato: 04 Giugno 2012 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 5286

Dalla  rivista  D-M-D' n °4

Attorno l'opera “Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto” di Giovanni Carlo Leone

«È possibile un confronto di pensiero tra Marx, il filosofo militante, e Heidegger, il pensatore di “solo un dio ci può salvare[1]”?». Questo interrogativo[2] apre la ricerca di Giovanni Carlo Leone nel saggio “Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto”[3]. Non è un testo accademico, ma un pensiero critico sulla rivoluzione e il comunismo fecondo di spunti. Leone apre a problemi e sviluppa ipotesi la cui impostazione non riteniamo, complessivamente, di poter condividere. Avvertiamo tuttavia l'importanza di alcune questioni che in quest'opera vengono poste, proponendo, più che una recensione analitica del libro, un primo avvio di riflessione su alcune sollecitazioni, che maggiormente interpretiamo come di stimolo a quell'elaborazione teorica per il comunismo che anima l'impegno di queste pagine.

Configurazione essenziale del comunismo

L'analisi della formazione economico-sociale attuale ha consentito a Marx di compiere una presentazione completa del sistema capitalistico. Leone individua qui la maggior forza del lavoro del Moro, ma rintraccia allo stesso tempo profonde mancanze teoriche nel presentare il superamento del capitalismo stesso. Al di là di qualche traccia, manca in Marx una ricerca “storico-ontologica” del comunismo. Quest'ultimo viene cioè riconosciuto come possibilità che è storicamente matura, ma resta per molti versi indefinito. Nel lavoro di Marx è individuabile, secondo l'autore, una importante indecisione sulla configurazione essenziale del comunismo.

Metafisica e possibilità del comunismo

Leone prospetta una fondazione dell'alternativa comunista che non ne radichi la possibilità nelle pieghe delle contraddizioni sistemiche del capitalismo. In una serrata critica della dialettica come residuo metafisico non congruente con il complesso dell'impianto teorico di Marx, Leone ritiene che l'idea del comunismo come negazione della negazione, cioè negazione dell'alienazione, sia infondata e inutile alla rivoluzione. “Non si sfugge alla deriva mistica”, ritiene l'autore; nell'ipotesi dialettica di Marx “la negazione della proprietà privata, negazione che come movimento reale non è altro che una forma assunta dalla lotta di individui sfruttati contro i loro sfruttatori, affermerebbe di per sé la nuova struttura della società umana. Ma dove è dimostrato? [...]”[4]. Si tratta di tematiche che sono di certo da aprire, più che da chiudere qui in poche righe. Questa impostazione critica, tuttavia, ci sembra non dare il corretto risalto allo sviluppo del pensiero di Marx, sottraendo complessità a un aspetto centrale dell'elaborazione teorica alla quale ci riallacciamo. L'ipotesi che l'abolizione della proprietà privata sia sufficiente ad affermare la nuova società, è rintracciabile in una fase giovanile del percorso di Marx, che convenzionalmente poniamo attorno ai Manoscritti del 1844[5], caratterizzata da una concezione essenzialista, antropologica ed umanistica. Un approccio che inizia a trovare un superamento più compiuto a partire dall'Ideologia tedesca e dalle Tesi su Feuerbach[6]. Non condividiamo l'idea althusseriana[7] di una rottura epistemologica tra un primo e un secondo Marx, ma cogliamo il processo formativo[8] del suo pensiero, nelle sue fasi fondamentali e nelle sue transizioni.

Il processo che porta da una concezione antropologica del lavoro alienato alla teoria scientifica del lavoro astratto, costitutivamente anti-soggettivistica, segna uno sviluppo fondamentale nel pensiero marxiano, che rende sostanzialmente inattuale la critica ai residui metafisici nella sua elaborazione. Questo sviluppo del pensiero di Marx, porta anche a una comprensione più profonda e complessa dell'aprirsi di una transizione verso una nuova società, che non è semplicemente abolizione della proprietà privata, ma che innanzitutto si muove da una modalità radicalmente diversa di produzione e di vita associata.

Nella sua critica della dialettica come portato metafisico, Leone discute l'ipotesi marxiana dello sviluppo delle condizioni della società nuova in seno alla vecchia, in un processo che viene sottolineato, più che storico, logico. Se non è possibile cogliere nella società capitalistica le condizioni della rivoluzione e del comunismo, ciò che può consentire una fondazione del comunismo ci appare una prospettiva poco plausibile.

Leone non ignora l'elemento storico, e non si affida ad atti di volontà. Ciononostante pensando il comunismo come “dentro un'apertura storica rivelabile anch'essa, in parallelo a quella del mondo della tecnica[9] e del capitale” e “come possibilità autonoma dal capitalismo”[10], il comunismo sarebbe possibile solo a partire da decisioni comuniste affermative da parte di un insieme di proletari[11]. Ma cosa potrebbe spingere un insieme di proletari (non un piccolo gruppo, ma sufficiente a porre in essere decisioni comuniste nella società) se non determinazioni materiali, in presenza di un partito, condizione di produzione di una coscienza rivoluzionaria? Leone ritiene che la spinta possa essere la sempre più diffusa, asfissiante percezione del pericolo, della spaesatezza, che l'autore pone come prius rispetto all'alienazione nella forma individuata da Marx. Riconoscere il pericolo può significare che degli individui si ritirino dal pensiero calcolante e dal conseguente “scontro globale delle volontà”, aprendosi a un nuovo “orizzonte di senso”, ponendo il presupposto per una rivoluzione intesa come “liberazione dalla comunità astratta impositiva”[12].

Il comunismo, se non rappresenta una “negazione della negazione”, si dovrebbe quindi concepire in forma “positiva”, “senza relazioni di continuità col capitalismo”[13].

In questi termini ci appare non semplicemente e tanto più problematico, ma meno fattivo ripensare la trasformazione rivoluzionaria e il comunismo stesso, e di conseguenza meno produttivo quel dialogo ricercato tra Heidegger e Marx, in una prospettiva che non rinunci ad uscire dal capitalismo.

Pur non seguendo Leone nella sua ipotesi, allo stesso tempo, riteniamo che molte sue riflessioni critiche possano essere stimoli utili a un percorso di ricerca, che si ponga in continuità con il lavoro marxiano.

Produzione di una coscienza rivoluzionaria

Come lo stesso autore sottolinea, il proletariato e la lotta di classe non sono sufficienti per il comunismo. Questo, partendo dalla nostra ipotesi teorico-politica, ci sollecita a sottolineare, e sviluppare appunto in termini teorici e politici, la necessità di un partito capace di una visione che superi la contingenza e si proietti verso obiettivi storici. Non è una necessità nuova, inedita, se consideriamo le battaglie che da Marx in poi i comunisti hanno condotto contro lo spontaneismo, le ideologie dell'auto-organizzazione e dell'autogestione. E' tuttavia tanto più radicale quanto più, negli ultimi decenni, diversi fattori sono andati indebolendo le opportunità spontanee di produzione di una coscienza in sé dei proletari; cioè della possibilità di riconoscersi quantomeno come parte di una classe, in quanto individui accomunati dalla posizione nel processo produttivo, in una contrapposizione irrecuperabile al capitale. La drammatica riduzione delle concentrazioni di salariati negli stessi luoghi fisici di produzione, il processo di mondializzazione, le nuove forme contrattuali, ex lege o de facto, l'”americanizzazione” degli spazi urbani, non luoghi che radicalizzano la frantumazione e il solipsismo, rendono ancora più forte l'esigenza di un'avanguardia politica dei lavoratori salariati.

La vita dei proletari nella società capitalistica, le lotte che possono condurre, non portano effettivamente alla rivoluzione e al comunismo, e nemmeno a una loro coscienza. Non perché “non si lotti davvero”, o solo perché i sindacati svolgono con efficienza una funzione di contenimento delle lotte dei lavoratori salariati entro i limiti della “compatibilità capitalistica”, come ripetono gli spontaneisti. Questi ultimi sono incapaci di cogliere politicamente l'andamento del reale corso della lotta di classe perché nella loro concezione il ruolo del partito comunista è incomprensibile, e, quando viene posto, ciò avviene ritualmente. Non facendo parte del loro patrimonio teorico la concezione materialistica della storia e l'elaborazione di Lenin e della sinistra italiana relativa al partito comunista e alla relazione partito-classe, il fatto che non emerga alcunché di rivoluzionario dalla spontaneità delle lotte proletarie porta alla confusione e allo scoramento.

In maniera sempre più marcata, il partito si configura come essenziale fattore di produzione di una coscienza rivoluzionaria, all'interno di condizioni storicamente date. Sottolineiamo coscienza “rivoluzionaria” e non ancora “comunista”, perché solo una rivoluzione può comportare la trasformazione in massa della coscienza stessa degli individui in senso comunista[14].

Materialismo storico e dialettica

Se non ci pare plausibile che il comunismo si possa solo porre in termini positivi, senza continuità rispetto al capitalismo, il testo di Leone ci invita tuttavia a una chiarificazione di una concezione materialistica della storia che non dipenda da disegni teleologici metafisici, e che comunque non risponda a una prospettiva logica.

Possiamo apertamente mettere in discussione la formula del materialismo dialettico, non di Marx ma che, a partire da Plekhanov che la coniò, si impose nelle elaborazioni del movimento comunista, e nella stessa corrente politica e teorica dalla quale il nostro lavoro discende. Bordiga ebbe a rilevare come Lenin si fosse infatuato di Hegel e della sua logica dialettica[15], infatuazione dalla quale non sono state immuni intere generazioni di comunisti venuti dopo Marx.

Leone scrive giustamente che in Marx, in ogni caso, la dialettica non è il processo reale della storia umana, ma ne rappresenta una ricostruzione. Lo stesso Moro sottolinea che ha impiegato la dialettica per esporre quanto è stato assodato dalla ricerca. Non vengono posti a priori caratteri dialettici al processo reale, ma vengono constatati a posteriori. La negazione della negazione non è ritenuta a priori necessaria, ma, una volta dimostrato qual è stato e quali sono le prospettive di svolgimento di un processo, si può designare tale processo come corrispondente a una determinata legge dialettica. La dialettica viene utilizzata, in forma razionale, come “sintesi dei risultati più generali che è possibile astrarre dall'esame dello sviluppo storico degli uomini”. Questa sintesi subentra alla filosofia per facilitare l'”ordinamento del materiale storico e per indicare la successione dei suoi strati”. Si tratta dunque di astrazioni determinate che non forniscono “né schemi né ricette”, e che di per sé “non hanno assolutamente valore”[16].

L'opportunità di impiegare certe forme espositive è evidentemente storicizzabile (Marx stesso precisa di civettare con il linguaggio hegeliano anche spinto dal clima culturale dell'epoca, con gli epigoni che trattavano Hegel come un “cane morto”). In generale non ci preoccupa problematizzare l'interpretazione della dialettica, e le questioni sollevate da Leone non sono mai rubricabili come stantìe o sterili. Di certo l'enfasi sull'approdo necessario al comunismo è equivoca laddove assume toni finalistici. Che ciò possa essere letto anche in Marx non è mistero, e riteniamo che solo una lettura complessiva della sua opera possa offrire una chiave di comprensione più precisa alla prospettiva comunista. A Leone non manca la conoscenza di Marx, e, anche laddove esplicitamente “forza” il suo pensiero per favorire il superamento di quelli che individua come residui metafisici, non è mai a partire da approssimazione. Non è quindi una disputa ermeneutica che è utile condurre. Allo stesso tempo tuttavia riteniamo che nell'impianto teorico marxiano le risorse contro una impostazione con residui metafisici siano assolutamente prevalenti, nella misura in cui si dia l'adeguato rilievo al suo processo di formazione e sviluppo.

E' nota la lunga battaglia di Marx contro la “visione mistificata” della dialettica idealistica hegeliana, e non vi torneremo qui. Non è comunque questo il punto, ma il portato di “metafisica soggettivista assoluta” che comporterebbe di per sé la dialettica, per Leone, anche nella forma “razionale” di Marx.

Leone, per esempio, contesta che le contraddizioni trovino sempre risoluzioni, chiarendo come questa risoluzione sia elemento chiave della logica dialettica. Questa considerazione ci spinge a rapportarci al testo di Marx con spirito critico, in tutti quei passaggi che sembrerebbero propendere per una lettura finalistica del processo storico reale. Dietro alcuni orientamenti stilistici impregnati di un certo determinismo teleologico, riconosciamo però in Marx la consapevolezza, non ideologica, dell'assenza di ogni finalismo. Nella visione marxiana della dialettica vengono meno gli imperativi di risoluzione necessaria delle contraddizioni. La risoluzione delle contraddizioni si presenta come una possibilità storicamente determinata, ma non inevitabile. Nella celebre apertura del Manifesto del partito comunista del 1848, viene già dato risalto al fatto che la lotta tra le classi antagoniste (che contraddistingue la storia delle società classiste) “ogni volta è finita o con una trasformazione rivoluzionaria di tutta la società o con la comune rovina delle classi in lotta”.

Ciò che risulta è che la trasformazione rivoluzionaria di una società in una nuova si presenta come possibilità, a condizioni date, non in una fatalità. La negazione della negazione, più che configurarsi in Marx come “deriva mistica” logicamente necessaria per porre il comunismo a partire dal capitalismo, è una possibilità condizionata. Possibile, e storicamente necessario, il comunismo appare come la soluzione determinata e specifica a delle contraddizioni che di per sé e da sole non comportano automaticamente né la fine del capitalismo, né la salvezza da una comune catastrofe delle classi della società contemporanea.

Il comunismo come possibilità e necessità storicamente determinate

L'interpretazione del comunismo come condizionata negazione della negazione, storicamente possibile e non logicamente fatale, assume come è evidente dei presupposti appunto storici, e non logici.

La liberazione della massa dell'umanità “affatto priva di proprietà” e “in contraddizione con un mondo esistente della ricchezza e della cultura”, ha come presupposto un elevato grado di sviluppo delle forze produttive, tale da rendere da una parte possibile il comunismo al posto di una generalizzazione della miseria (permanenza nel regime di bisogno, coi suoi conflitti, che riporterebbe la “vecchia merda”), dall'altra quelle relazioni universali fra gli uomini, che fa di questi ultimi “individui empiricamente universali” (che rende possibile il comunismo come esistenza storica universale e non fenomeno locale, destinato alla soppressione). In questo senso il comunismo viene compreso da Marx come “movimento reale che abolisce lo stato di cose presente”, le cui condizioni “risultano dal presupposto ora esistente”[17].

Il senso non teleologico-fatalistico di questa possibilità storica è sottolineato da Marx che critica l'approccio filosofico che fa di ogni epoca “lo scopo di quella precedente”[18], definendo così una logica, una finalità, una direzione metafisica di marcia del processo storico.

Nell'ipotesi di Leone, l'epoca “del capitale” e “della tecnica” celerebbe il comunismo, più che aprirvi dialetticamente. Non grazie allo sviluppo “della tecnica e del capitale” si renderebbe possibile il comunismo, ma “malgrado questo”[19]. Il comunismo si presenterebbe così possibile solo “dopo il tentativo di un nuovo inizio del pensiero, quale quello tentato da Martin Heidegger”, non “una nuova teoria” ma un “atteggiamento nuovo rispetto al destino”, destino mai chiuso e fatale, poiché l'essere ha un carattere aperto e non assoluto. Una traccia di lavoro che evidentemente non può convergere con la nostra.

Il tempo, lo spazio dello sviluppo umano

Una parte della ricerca di Leone molto interessante è quella legata alla temporalità.

Il tempo di non lavoro, sottolinea l'autore, si “dispiega in forme spaesanti, che, quando non si accontentano della banalità e volgarità della chiacchiera quotidiana, si affidano all'infatuazione per la potenza virtuale (ma capace di violenze reali) dei nuovi mezzi telematici disponibili o all'esercizio materiale della potenza, che si esprime nella violenza metropolitana, meno sofisticata e molto più grossolana, ma ancora più spietata: quella fisica sulle minoranze, sui deboli, sugli sprovveduti. Il risparmio di tempo, anziché risolversi in libero gioco dell'esistenza, si subordina ovviamente all'essere come si presenta oggi, pura utilizzazione dell'utilizzabile, e si asservisce al Gestell, avendo come guida il mero pensiero calcolante”[20]. Per Leone questa incapacità di liberazione del tempo ha radici nella sua percezione, a partire dalla metafisica di Aristotele in poi: quella che Heidegger chiama “temporalità inautentica”.

Leone ritiene che Marx non si liberi da una visione “calcolante”, come emergerebbe dalla Critica al Programma di Gotha, dove si indica permanente nella fase di transizione al comunismo una forma di calcolo delle ore di lavoro cui corrispondere un equivalente in appropriabilità privata di beni e servizi.

Se ciò che si guadagna nella prima fase del comunismo è solo “riduzione dell'orario di lavoro”[21], è possibile che l'individuo cada “ugualmente nella trappola del tempo libero tipico di una società tecnologica e per di più anche pianificata dal punto di vista produttivo e distributivo a un livello superiore a quello della società capitalistica. Lo scenario potrebbe riprodurre addirittura in maniera amplificata i comportamenti nichilistici dell'attuale società [...]. Ma, attenzione! Da Marx la liberazione comunista viene vista come aumento del tempo di non lavoro” realizzando però “l'attività libera, non il mero consumo”[22].

“Il fatto che qui abbiamo a che fare col tempo neutrale, inautentico, non significativo, è collegato alla non ancora piena liberazione dell'individuo dalla comunità, dato che per le ore di lavoro necessario, egli è ad essa pienamente sottoposto”[23]. Nella fase inferiore del comunismo la comunità è quindi “residuale”, legata solo a questa giornata lavorativa necessaria. Nel resto del tempo “l'individuo fa i conti con la società solo come presupposto, ma guadagna sempre maggiore spazio, perché il tempo liberato diventa per lui tempo creativo [...]”.  Negli squarci di comunismo che Marx ha offerto non ha mai “sciolto però tutte le ambiguità possibili riguardo all'uso del tempo liberato, perché non ha mai superato esplicitamente la concezione metafisica del tempo in auge dalla Fisica di Aristotele in poi, anzi in un passo dei Grundrisse vi fa esplicito riferimento [...]”[24]. Nella temporalità inautentica ha valore solo il presente (“come istante o come sua eternizzazione, insomma come oblio dell'essente stato e dell'avvenire”[25]).

Leone quindi ritiene che l'alienazione non consegua il furto di tempo, ma al contrario: il furto di tempo e la reificazione erano già avvenute quando la società “si è intonata a un modo di vivere il tempo come valore d'uso, come smarrimento nell'oggetto. Gli individui si identificano con le cose volta a volta presenti, smarrendo la significatività del tempo”; significatività che si dà solo nell'unità di passato, presente e futuro[26].

Quindi la fondazione del comunismo deve saper cogliere il furto del tempo significativo. Le cose possono prendere significatività solo “attraverso la loro messa in opera, come arte, come filosofia e come tutte le forme onnilaterali di produzione del lavoro libero”[27].

Accenniamo a tre problemi che riteniamo fondamentali.

Il primo problema, è la riflessione sul valore del tempo e sulla sua potenziale dimensione nel comunismo.

Il secondo, è l'origine del problema di quella che Leone, con termini heideggeriani, definisce temporalità inautentica.

In ultimo, la natura dell'alienazione umana in relazione al problema del tempo.

Marx, in Salario, prezzo e profitto, definì il tempo come “spazio dello sviluppo umano”, e come meno che bestiale una vita che non dispone di un tempo libero dal lavoro per il capitalista, al di fuori del tempo disponibile per le azioni fisiche del cibarsi, del dormire ecc.. Questa mancanza di tempo libero dal lavoro abbrutisce il lavoratore e lo rende una macchina per il capitale[28]. L'importanza attribuita da Marx alla disponibilità di tempo per il proprio sviluppo, per lo sviluppo fine a se stesso delle capacità umane, lo porta ad assumere come fondamentale la riduzione delle ore di lavoro, nel cui ambito del resto la “libertà” non può esser altro che la razionale regolazione del “ricambio organico con la natura”, sottoposto al “controllo collettivo” dei produttori associati, e che sia eseguitocol minor dispendio di energie e nelle condizioni più degne della loro natura umana e ad esse più adeguate”[29].

Marx precisa: “L'eliminazione della forma di produzione capitalistica permetterà di limitare la giornata lavorativa al lavoro necessario. Tuttavia, quest'ultimo, a parità di condizioni, estenderebbe il suo spazio, da un lato perché le condizioni di vita dell'operaio sarebbero più ricche e le sue esigenze vitali maggiori, dall'altro perché una parte dell'attuale pluslavoro conterebbe come lavoro necessario, cioè come lavoro necessario alla costituzione di un fondo sociale di riserva e accumulazione. Quanto più cresce la forza produttiva del lavoro, tanto più si può abbreviare la giornata lavorativa, e quanto più si abbrevia la giornata lavorativa, tanto più l'intensità del lavoro può crescere. [...] Data l'intensità e la forza produttiva del lavoro, la parte della giornata lavorativa sociale necessaria alla produzione materiale sarà tanto più breve, e la parte di tempo conquistata alla libera attività intellettuale e sociale degli individui sarà tanto maggiore, quanto più il lavoro sarà proporzionalmente distribuito fra tutti i membri della società in grado di lavorare [...]. Il limite assoluto dell'abbreviamento della giornata lavorativa è, in questo senso, la generalizzazione del lavoro[30]. Nella società capitalistica si produce tempo libero per una classe, trasformando tutto il tempo di vita delle masse in tempo di lavoro”[31].

L'uso del tempo “libero” del lavoratore, nel capitalismo, rientra nel processo di produzione e riproduzione del capitale. Speso - oltre alle mere “pause fisiche” - principalmente in attività di consumo, riproduce così, costantemente, l'individuo bisognoso, facendone un accessorio del capitale.

Prendiamo in considerazione “non il processo di produzione della merce isolatamente preso, ma il processo di produzione capitalistico nel suo flusso continuo e in tutta la sua dimensione sociale. Convertendo in forma lavoro una parte del suo capitale, il capitalista valorizza tutto il suo capitale. Prende due piccioni con una fava. Trae profitto non solo da ciò che riceve dall'operaio, ma anche da ciò che gli dà. Il capitale ceduto nello scambio contro forza lavoro, viene convertito in mezzi di sussistenza il cui consumo serve a riprodurre i muscoli, i nervi, le ossa, il cervello, degli operai esistenti, e a generarne di nuovi. Perciò, nei limiti dell'assolutamente necessario, il consumo individuale della classe operaia è riconversione dei mezzi di sussistenza, ceduti dal capitale contro forza lavoro, in forza lavoro nuovamente sfruttabile dal capitale. E' produzione e riproduzione del mezzo di produzione più indispensabile al capitalista, l'operaio stesso. Il consumo individuale dell'operaio – avvenga dentro l'officina, la fabbrica ecc., o fuori, all'interno o all'esterno del processo lavorativo – rimane quindi un momento della produzione e riproduzione del capitale esattamente come la pulizia della macchina, avvenga essa durante il processo lavorativo o in date pause di questo; e a ciò nulla cambia il fatto che l'operaio compia il proprio consumo individuale per amore non del capitalista, ma di se stesso, così come il consumo della bestia da soma non cessa d'essere un momento necessario del processo di produzione perché la bestia gusta ciò che mangia. La costante conservazione e riproduzione della classe lavoratrice rimane costante presupposto della riproduzione del capitale. Il capitalista può tranquillamente affidarne il soddisfacimento all'istinto di conservazione e procreazione dei lavoratori. Ha soltanto cura che il loro consumo individuale si limiti, per quanto possibile, al puro necessario [...]. Perciò, anche, il capitalista e il suo ideologo, l'economista politico, considerano produttiva soltanto la parte del consumo individuale dell'operaio richiesta ai fini della perpetuazione della classe lavoratrice, cioè la parte che dev'essere effettivamente consumata affinché il capitale consumi la forza lavoro; quello che l'operaio può, per proprio piacere, consumare in più, è consumo improduttivo. [...] In realtà: il consumo individuale dell'operaio è improduttivo per l'operaio stesso perché non fa che riprodurre l'individuo bisognoso; è produttivo per il capitalista e per lo Stato perché è produzione della forza che produce la ricchezza altrui. Dal punto di vista sociale, la classe operaia, anche fuori dal processo lavorativo immediato, è quindi un accessorio del capitale quanto il morto strumento di lavoro. Perfino il suo consumo individuale, entro certi limiti, è solo un momento del processo di riproduzione del capitale”[32].

Sotto la determinazione della necessità di autovalorizzazione del capitale, il capitalismo maturo comporta[33] forme proprie e specifiche di consumo, che non possono sussistere in una formazione economico-sociale comunista, che necessariamente significherà modalità del tutto altre di relazione con i prodotti, con gli altri individui e con l'ambiente complessivo in generale. E' non secondario, in questo senso, sottolineare come il processo di superamento dell'alienazione e del feticismo delle merci è anche superamento della subordinazione dell'individuo alla comunità; comunità di persone alienate, nella quale i rapporti sociali appaiono come rapporti tra cose[34], sotto l'incombenza dominatrice delle merci, la cui appropriazione da parte degli individui si presenta come unica possibile manifestazione di sé. In un'associazione di uomini liberi[35]pienezza di individui, viene meno tanto l'esigenza percepita di un consumo che rappresenti l'esistenza, quanto, contestualmente, la ricerca mistificante della propria interezza umana nella intera comunità. che vivono la propria

Quando si riferisce al comunismo come alla dimensione del libero sviluppo delle individualità[36], Marx evidenzia esplicitamente la funzione fondamentale del tempo in questo processo.

Dai Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica, riteniamo emergano su questi temi due punti essenziali. Da una parte, la riduzione del tempo di lavoro, che trova le sue premesse nel capitalismo stesso, è condizione dello sviluppo onnilaterale degli uomini. Il tempo “libero” sotto il capitalismo, d'altra parte, significa comunque partecipazione al processo di produzione e riproduzione del capitale; nel comunismo, invece, il tempo libero consente sia ozio che attività superiori, ed esso stesso rende possibile la trasformazione dell'individuo che ne dispone.

Si può distinguere un profilo qualitativo del tempo libero nel comunismo, che diventa partecipe della trasformazione in massa degli individui e della loro coscienza finalmente possibile.

Il tempo libero non si può configurare quindi come la dimensione di libertà dell'uomo socializzato, ma solo come una sua condizione. Il modo in cui si utilizzerà il tempo liberato potrebbe trovare declinazioni varie, che, escludendo la pratica consumistica, possono oscillare solo all'interno di uno spettro che ha come estremi l'ozio più profondo e il massimo dispiegamento relativamente possibile di “attività superiori”, come le definisce Marx. E' verosimile, intanto, prefigurare una crescente inclinazione degli individui verso il proprio libero sviluppo, laddove i produttori liberamente associati si troveranno nella condizione di non (poter) essere soggetti all'identificazione della propria esistenza con una cosa da consumare.

Marx dopo Heidegger

Marx dopo Heidegger è un libro da leggere, che qui non intendiamo né riassumere né tanto meno banalizzare nella sua complessità. Non ci siamo qui avvicinati a partecipare al dialogo tra Marx e Heidegger, e in tutta evidenza la nostra ricerca si muove lungo direzioni decisamente differenti. Al tempo stesso questo libro è un lavoro acuto e ricco di riflessioni, che merita di essere approfondito senza pregiudizi.

Mario Lupoli



[1] L'espressione titola il colloquio che Heidegger tenne con due giornalisti del Der Spiegel nel 1976, con la consegna di pubblicarlo dopo la sua morte. Disponibile in italiano in M. Heidegger, Ormai solo un Dio ci può salvare. Intervista con lo «Spiegel», Guanda, Parma 1998.

[2] L'apertura a un “dialogo produttivo” col marxismo è una traccia di lavoro già contenuta in Martin Heidegger, Lettera sull'umanismo, Adelphi, Milano 1995. Per un confronto con l'opera di Heidegger, segnaliamo l'ampia bibliografia che correda il saggio qui presentato.

[3] Giovanni Carlo Leone, Marx dopo Heidegger. La rivoluzione senza soggetto, Mimesis Edizioni, Milano 2007.

[4] G. C. Leone, op. cit., pag. 17.

[5] Cfr. Karl Marx, Manoscritti economico-filosofici del 1844, Einaudi, Torino, nuova edizione 1970. Si tratta di una serie di manoscritti giovanili, base di un ambizioso disegno di lavoro. Frammentati e incompleti, non sono esenti da contraddizioni interne, che evidenziano il processo di transizione dall'idealismo a una teoria scientifica.

[6] Le Tesi, scritte da Marx nel 1845, furono stimate da F. Engels “il primo documento in cui è deposto il germe geniale della nuova concezione del mondo”. Cfr. Friedrich Engels, Ludovico Feuerbach e il punto di approdo della filosofia tedesca, Editori Riuniti, Roma 1950;  cfr. anche F. Engels, Per la storia della lega dei comunisti del 1885.

[7] Cfr. Louis Althusser, Per Marx, Mimesis Edizioni, Milano-Udine 2008.

[8] Numerosi lavori sono dedicati, in maniera più o meno condivisibile, a questo tema. Per un primo orientamento segnaliamo l'antologia K. Marx, L'alienazione, Donzelli Editore, Roma 2010, a cura di Marcello Musto.

[9] Per la questione della tecnica, cfr. Giorgio Paolucci, “Gli uomini, le macchine e il capitale”, DMD' n.1, aprile 2010.

[10] G. C. Leone, Marx dopo Heidegger, op. cit., pag.18.

[11] Ivi, pagg.18-19.

[12] Ivi, pag.124.

[13] Ivi, pag.78.

[14] Cfr. K. Marx, F. Engels, L'Ideologia tedesca, Editori Riuniti, IX ed., Roma 1993.

[15] Il riferimento è ai relativi appunti di studio di Lenin, del periodo 1914-1917, pubblicati nei cosiddetti Quaderni filosofici nel 1929-1930; cfr. V. Lenin, III volume delle Opere scelte in VI volumi, Ed. Riuniti Roma – Ed. Progress Mosca 1973.

[16] K. Marx, F. Engels, L'Ideologia tedesca, op. cit., pag. 16.

[17] Ivi, pag. 25.

[18] Ivi, pag. 27: la storia “è un processo che sul terreno speculativo viene distorto al punto di fare della storia successiva lo scopo della storia precedente, di assegnare per esempio alla scoperta dell'America lo scopo di favorire lo scoppio della Rivoluzione francese; per questa via poi la storia riceve i suoi scopi speciali e diventa una «persona accanto ad altre persone» (che sono: «autocoscienza, critica, unico», ecc.), mentre ciò che viene designato come «destinazione, «scopo», «germe», «idea» della storia anteriore altro non è che un'astrazione della storia posteriore, un'astrazione dell'influenza attiva che la storia anteriore esercita sulla successiva”.

[19] G. C. Leone, Marx dopo Heidegger, op. cit., pag. 127.

[20] Ivi, pag. 92.

[21] Ivi, pag.93.

[22] Ibidem.

[23] Ivi, pagg.94-95.

[24] Ivi, pag.96.

[25] Ivi, pag.97.

[26] Ibidem.

[27] Ivi, pag.98.

[28] Cfr. K. Marx, Salario, prezzo e profitto, Editori Riuniti, Roma 1988

[29] K. Marx, Il Capitale, Libro III, UTET, Torino 2009, pagg. 1011-1012.

[30] Allgemeinheit der Arbeit, lett. “Universalità del lavoro” (dalla nota 1 a piè pagina del curatore Bruno Maffi).

[31] K. Marx, Il Capitale, Libro I, UTET, Torino 2009, pagg. 681-682.

[32] Ivi, pagg. 734-735.

[33] In generale il capitalismo produce tanto l'oggetto di consumo, quanto il suo bisogno nel consumatore e lo stesso modo di consumo: cfr.  Marx, Introduzione del 1857 a Per la critica dell'economia politica, Editori Riuniti, Roma 1979.

[34] Cfr. K. Marx, Il Capitale, Libro I, op. cit..

[35] Ibidem.

[36] Molto interessante anche la riflessione di Leone sul tema individui e comunità (cfr. Leone, op. cit, pag. 81).