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Storicità del capitalismo
Tutte le formazione sociali che si sono finora succedute, giunte ad un certo grado del loro sviluppo sono entrate in una fase di decadenza che, nel corso del tempo, le ha caratterizzate sempre più facendo prevalere in esse le forme dell’appropriazione parassitaria della ricchezza e le spinte verso la barbarie.
Per molti da ciò si evincerebbe che ogni formazione sociale, costituendo la decadenza la sua fase ultima, al pari dell’invecchiamento biologico negli organismi viventi, è destinata per motu proprio alla sua fine. In realtà, ciò è quel che appare agli occhi di chi osserva il passato in quanto di esso sono noti già gli esiti degli scontri sociali a cui le contraddizioni della formazione sociale considerata diedero luogo. L’esperienza passata conferma, invece, solo il carattere storico delle formazioni sociali e la loro transitorietà, non certo l’esistenza di un piano della storia indipendente dalla volontà degli uomini e dalla loro azione realizzatrice, un fine ultimo a cui ineluttabilmente l’umanità approderà.
Il materialismo storico ha individuato nelle contraddizioni interne ai rapporti di produzione vigenti in ogni formazione sociale le cause della loro ascesa e decadenza.
Nella società capitalistica, in particolare, la contraddizione fondamentale è insita nel processo stesso d’accumulazione del capitale che, basandosi sullo sfruttamento della forza-lavoro, genera plusvalore che è incessantemente trasformato in nuovo capitale; pertanto alla fine d’ogni loro ciclo riproduttivo i capitali investiti risultano normalmente accresciuti (riproduzione su base allargata). Ne consegue perciò che, almeno proporzionalmente alla loro accresciuta grandezza, deve necessariamente crescere costantemente anche la massa del plusvalore estorto.
Ciò è possibile sia impiegando più forza-lavoro in proporzione all’accresciuta grandezza del capitale investito sia incrementando lo sfruttamento del lavoro mediante l’allungamento della giornata lavorativa e/o riducendo, mediante l’incremento della produttività del lavoro stesso per mezzo di nuove tecnologie e nuovi sistemi di organizzazione del lavoro, il tempo di lavoro necessario.
Il poderoso sviluppo che ha subito la tecnica applicata alla produzione di merci negli ultimi due secoli va ascritto proprio al fatto che la riproduzione allargata del capitale non può prescindere dal costante incremento della produttività del lavoro e quindi dall’introduzione nei cicli produttivi di tecnologie sempre più sofisticate determinandone così il loro continuo rivoluzionamento e che, nello stesso tempo, la riproduzione del capitale non può avvenire che su base allargata.
Ne discende – come sottolineava Marx che: “ Insieme con l’accumulazione del capitale si sviluppa quindi il modo di produzione capitalistico e, insieme al modo specificatamente capitalistico, l’accumulazione del capitale. Questi due fattori economici producono in ragione composta dell’impulso che si danno a vicenda, il cambiamento della composizione tecnica del capitale, in virtù del quale la parte costitutiva variabile diventa sempre più piccola a paragone di quella costante.” ( Marx – Il Capitale – libro primo – cap. 23° - Einaudi editore- 1970)
In ciò è racchiusa la contraddizione fondamentale del sistema; infatti, se da un lato la modificazione tecnica del capitale è ad un tempo causa e condizione fondamentale della crescita della produttività del lavoro, e dunque della stessa accumulazione capitalistica; dall’altro, la diminuzione, seppure relativa, del capitale variabile (forza-lavoro), cioè l’unica parte del capitale che, in quanto sfruttata, genera plusvalore, ripropone e accentua la caduta tendenziale del saggio medio del profitto.
Come è noto nel Terzo libro del capitale, Marx descrive la legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto “in quanto tale” e quelle che chiama “ le cause antagonistiche” cioè l’insieme delle risposte che il sistema attiva per contenerla e, a determinate condizioni, perfino per annullarla.
Qui non c’interessa approfondire lo studio della legge ma solo rilevare che periodicamente le cause antagonistiche, dato un determinato grado di sviluppo tecnologico e una determinata composizione organica media del capitale esistente, risultano insufficienti a contenere e/o ad annullare la caduta del saggio del profitto. Allora, il processo di accumulazione rallenta e, quando la sovraccumulazione dei capitali raggiunge livelli insostenibili, si blocca e si scatenano crisi economiche devastanti che sono superate soltanto mediante la distruzione dei capitali in eccesso sia per mezzo del blocco o del forte rallentamento della produzione, sia mediante la loro distruzione fisica per mezzo della guerra.
Inoltre, poiché la caduta tendenziale del saggio medio del profitto accelera la spinta alla concentrazione e alla centralizzazione dei capitali connessa al processo di accumulazione (vedi Marx – Il Capitale libro terzo - cap. 15°), da un lato è incentivata la costituzione di combinazioni produttive sempre più grandi; dall’altro la libera concorrenza cede sempre più il passo all’oligopolio e/o al monopolio grazie a cui è possibile innalzare il prezzo delle merci al di sopra del loro effettivo valore e realizzare così, insieme al profitto, anche quote crescenti di extraprofitto.
In tal modo, nel corso del tempo si sono sviluppate la grande industria e la produzione su vasta scala e accanto all’appropriazione diretta di plusvalore mediante lo sfruttamento della forza-lavoro nell’ambito del processo di produzione delle merci anche forme di appropriazione parassitaria per mezzo delle quali i capitali più grandi, e in particolare il capitale monopolistico, si appropriano di quote di plusvalore estorto in altri settori o cicli produttivi o in aree diverse da quella di origine. E così che le forme dell’appropriazione parassitaria di plusvalore, connettendosi intimamente con la produzione delle merci hanno assunto via via un’importanza sempre maggiore fino a divenire, come accade oggi, caratterizzanti del modo di essere del sistema capitalistico.
Si sono sviluppate cioè forme di appropriazione per cui, per una parte crescente di capitali, il ciclo di riproduzione anziché raffigurarsi nella formula generale D-M-D’ si raffigura in quella D-D’ che è propria del modo di riprodursi del capitale finanziario non trasformato in capitale industriale e che produce interessi o qualsiasi altra forma di rendita finanziaria ovvero quell’appropriazione parassitaria di ricchezza propria della fase di decadenza di una formazione sociale.
Aveva, dunque, ragione Lenin nell’individuare nel fenomeno dell’esportazione dei capitali dai luoghi di origine verso altri in cui esistevano possibilità di remunerazione più vantaggiose e nello sviluppo delle forme del dominio imperialistico che ne derivano, non una politica della borghesia ma il modo di essere - come vedremo meglio in seguito- del capitalismo ormai giunto al suo più alto grado di sviluppo.
Molti, però, intendono la fase della decadenza come quella fase in cui non essendo più possibile un qualsiasi ulteriore sviluppo delle forze produttive, il capitalismo sia meccanicamente destinato a tirar le cuoia e a dar vita alla società socialista.
In realtà, nel sistema capitalistico, lo sviluppo delle forme di appropriazione parassitaria, accelerando il processo di accumulazione del capitale, ne dilatano la dimensione della base di partenza per cui se da un lato risultano accelerate le spinte alla sovraccumulazione, dall’altro cresce a dismisura la necessità di intensificare il grado di sfruttamento della forza lavoro e il bisogno di extraprofitto. L’introduzione di tecnologie sempre più avanzate nei processi produttivi e l’espansione della base produttiva pertanto non cessano; ma mutano radicalmente le conseguenze del loro impatto sull’insieme dei rapporti sociali esistenti.
D’altra parte, ascesa e decadenza sono il prodotto della medesima realtà contraddittoria, per cui è assurdo pensare a entrambe come due fasi nettamente separate fra loro e che inizi la seconda esattamente quando cessi la prima.
La contraddizione tra “lo sviluppo delle forze produttive e i rapporti di produzione vigenti” non si esprime pertanto in un limite quantitativo e/o qualitativo determinabile matematicamente, un tot oltre il quale c’è la fine tout court del sistema. E se il limite fosse così determinabile, oggi più che parlare di decadenza dovremmo solo prendere atto dell’indistruttibilità del sistema. Esso, infatti, ha in sé la possibilità di distruggere sistematicamente, mediante le crisi e le guerre che a esse si accompagnano, i capitali in eccesso e avviare nuovi cicli di accumulazione.
Anzi, proprio perché il presupposto dell’avvio di questi ultimi è la distruzione di grandi masse di capitali, nel nuovo ciclo può essere accolta una composizione tecnica del capitale in cui la sua parte costante risulta ancor più accresciuta rispetto a quello variabile e quindi tecnologie più avanzate possono essere introdotte nei processi produttivi senza particolari difficoltà tanto più che incrementandosi perciò la produttività del lavoro, la caduta del saggio medio del profitto può, almeno in una prima fase, essere attenuata quando non del tutto annullata.
Le crisi, però, pur traendo origine dalla medesima contraddizione che da cui si origina la decadenza, sono cosa distinta da questa e il loro superamento come l’avvio di nuovi cicli di accumulazione non riporta indietro le lancette della storia, il sistema alle sue origini.
Il nuovo ciclo non riparte cioè dalla macchina a vapore, né dall’impresa individuale operante in regime di libera concorrenza. Il grado di concentrazione e centralizzazione del capitale, in relazione alla sua nuova composizione organica media, non diminuisce, ma aumenta a sua volta e di conseguenza anche il controllo monopolistico dei mercati da parte dei capitali più grandi tende ad estendersi ulteriormente. Non viene cioè meno il presupposto fondamentale dell’appropriazione parassitaria di plusvalore. Anzi, assumendo dimensioni maggiori, essa deve necessariamente affinare le sue forme ed estendere, come vedremo meglio in seguito, i suoi tentacoli dalle attività connesse alla produzione e alla circolazione delle merci a tutte le fasi del processo di valorizzazione e circolazione del capitale.
Ma trattandosi di attività che assorbono comunque plusvalore e in misura crescente, deve per forza di cose corrispondervi un più elevato grado di sfruttamento della forza-lavoro. Ecco quindi che all’introduzione nei processi produttivi di tecnologie sempre più avanzate e all’allargamento della base produttiva contemporaneamente all’avanzamento di settori limitati della società e perfino di fasce ristrette del proletariato, corrisponde progressivamente un peggioramento delle condizioni generali di esistenza e di lavoro del proletariato e degli strati sociali ad esso assimilabili cioè della maggioranza della società stessa. Allo stesso modo, al dilatare del monopolio e alla relativa attenuazione della concorrenza e dello scontro imperialistico fra e all’interno di determinate aree, non corrisponde l’attenuazione dello scontro imperialistico in generale, ma la sua estensione a tutte le aree del pianeta e la sua esasperazione.
Ne sono una prova quell’impoverimento totale e crescente di tanta parte della popolazione del pianeta che si è registrato nel corso dell’ultimo secolo e le prime due guerre mondiali. E più recentemente l’introduzione nei processi produttivi della microelettronica e delle macchine a controllo numerico e la guerra imperialistica che ormai non conosce soluzione di continuità.
E’ interessante rilevare come, specularmente ai sostenitori dell’impossibilità dell’ulteriore sviluppo delle forze produttive nella fase della decadenza, molti economisti borghesi, nella convinzione altrettanto meccanicistica dell’inarrestabilità del progresso scientifico, tecnico e sociale, hanno, al suo comparire, salutato il microprocessore come lo strumento grazie al quale la giornata lavorativa si sarebbe ridotta nel volgere di qualche anno a non più di due ore giornaliere e, finalmente, fame, degrado sociale e schiavitù avrebbero definitivamente lasciato la scena al benessere crescente, al riscatto sociale e alla libertà nella sua accezione più ampia.
E’ accaduto, invece, esattamente il contrario. Nonostante il poderoso sviluppo della produttività del lavoro, non solo si è ridotto enormemente il tempo di lavoro necessario ma la durata della giornata lavorativa, che per quasi tutto il XX secolo era sempre diminuita, è tornata ad allungarsi e, perfino nell’avanzatissima Germania, è ormai abbondantemente superiore alle 40 ore settimanali. E’ cioè cresciuto sia l’incremento del plusvalore relativo sia di quello del plusvalore assoluto con una svalutazione del valore della forza-lavoro senza precedenti tanto che anche nelle metropoli del capitale è sempre più diffusa la figura del lavoratore povero.
Di contro, grazie all’estendersi e all’affinarsi delle forme di appropriazione di plusvalore basate sulla dilatazione della rendita finanziaria per mezzo della produzione di capitale fittizio (capitale finanziario prodotto a partire da altro capitale finanziario), negli ultimi venti anni l’abisso fra una minoranza sempre più ristretta e sempre più ricca e una maggioranza sempre più grande e sempre più povera della società si è dilatato come mai prima nella storia del capitalismo moderno.
Altresì la guerra. Crollato il muro di Berlino, gli storici, gli economisti e in generale tutto il mondo borghese ritenevano ormai chiusa per sempre l’epoca delle guerre e pronosticavano un futuro di pace come mai prima si era dato. Da allora, invece, la guerra imperialista è divenuta “permanente” e quanto mai necessaria e funzionale alla sopravvivenza del sistema.
Facevano i conti senza l’oste e cioè senza il fatto che il capitalismo, essendo al pari delle formazioni sociali che l’hanno preceduto un prodotto storico, non ha modo di superare le sue contraddizioni; anzi, sviluppandosi, le esaspera tanto che ormai a più sviluppo tecnologico corrisponde più sfruttamento e a una maggiore capacità di produrre quanto necessario per soddisfare i bisogni degli uomini, la generalizzazione della fame e della miseria.
Ma farebbero i conti senza l’oste anche i comunisti se si sedessero sulla sponda del fiume ad aspettare il cadavere del capitalismo.
Come abbiamo visto, la sua decadenza non significa, infatti, un declino più o meno lento fino alla sua estinzione, ma l’ulteriore esasperazione di tutte le sue contraddizioni: l’impiego della macchina che potrebbe liberare l’uomo dalla fatica del lavoro e dal lavoro insieme allo sfruttamento sempre più intenso e feroce del lavoro stesso; la macchina che riproduce molte funzioni proprie dell’uomo e l’uomo sempre più subordinato alla macchina. La capacità di produrre ricchezza che aumenta e la miseria che si generalizza. Il possibile definitivo superamento dei conflitti e la loro macabra permanenza.
In tutto ciò sta la decadenza del sistema, la sua ormai evidente antistoricità e non in un suo immaginario limite quantitativo. E proprio perché un limite meccanicamente predeterminato e predeterminabile non esiste è evidente che senza rottura rivoluzionaria, senza l’intervento consapevole del proletariato, il processo di decadenza è destinato a generare sempre più barbarie, non socialismo. Potrebbe anche arrestarsi senza una rivoluzione sociale, ma in questo caso sarebbe la distruzione della società intera, “la comune rovina delle classi in lotta.” ( Marx- Engels - Il Manifesto del Partito Comunista).
I primissimi fenomeni della decadenza capitalistica risalgono alla fine del XIX secolo. In questo periodo il capitalismo genera le prime forme della propria decadenza, sulle quali Lenin concentra l’attenzione nel libro “L’imperialismo fase suprema del capitalismo”.
Il passaggio da un’economia di libero scambio, nella quale i singoli soggetti economici subiscono il meccanismo della concorrenza, ad un capitalismo dominato dai grandi gruppi monopolistici è il primo e fondamentale segnale della decadenza del modo di produzione capitalistica. Con l’affermarsi del monopolio si modificano radicalmente i meccanismi dell’accumulazione del capitale. Mentre in un sistema dominato dalla libera concorrenza ogni singolo capitalista può sperare di ottenere dal proprio investimento un profitto pari a quello medio presente sul mercato, con l’affermarsi delle concentrazioni economiche, i profitti realizzati dai grandi capitalisti monopolistici possono essere più alti rispetto al saggio medio. Questa differenza è definita da Marx come extraprofitto derivante dalla rendita da monopolio.
Il fatto di assumere una posizione dominante sul mercato attribuisce al capitalista monopolista il vantaggio di poter vendere la propria merce ad un prezzo più alto rispetto a quello che avrebbe dovuto praticare se non si fosse trovato in quella posizione economica dominante.
Il monopolio è un prodotto economico-sociale che trae le proprie origini nella libera concorrenza. A differenza di quanto sostengono gli economisti borghesi il monopolio non è il frutto di un retaggio della vecchia economia feudale, ma è il punto d’arrivo delle contraddizioni in cui si dimena il capitalismo nella sua fase liberoscambista. La crisi economica, determinata dalla caduta del saggio medio di profitto, accentua le spinte verso l’affermarsi del monopolio e delle forme di appropriazione parassitarie di plusvalore tipiche di una società che è entrata nella sua fase di decadenza. E’ proprio in questo particolare momento storico in cui la società borghese per sostenere il processo d’accumulazione rende sistemico un meccanismo di appropriazione parassitario come quella della rendita, che si può affermare che tale formazione sociale è entrata nella sua fase di decadenza.
Contemporaneamente alla formazione delle grandi concentrazioni monopolistiche, assumono un ruolo economico sempre più importante le banche. Da semplice istituzione che raccoglie risparmi, la banca assume una funzione completamente diversa rispetto al passato, intervenendo direttamente nella produzione di merci. Sono i grandi gruppi bancari e detenere le leve del comando, decidendo a chi e a quali condizioni prestare soldi. I fenomeni di concentrazione e centralizzazione del capitale hanno trovato nelle istituzioni bancarie il loro terreno ideale. Basta detenere una quota pari ad un quarto delle azioni di una banca per determinare le scelte non solo di quella particolare banca ma anche di tutte quelle che ad essa sono subordinate. In questo contesto assume una rilevanza straordinaria la funzione del capitale finanziario, ossia di quel capitale bancario che sotto forma di denaro è investito nel mondo della produzione. Banche e monopoli industriali rappresentano entità tra di loro distinte e separate, ma hanno fittissime relazioni fra di loro per cui a capo delle banche si possono trovare gruppi industriali, mentre questi ultimi possono essere l’espressione diretta di qualche istituzione bancaria. Il capitale finanziario in eccesso, pur essendo in definitiva investito nella produzione, rappresenta una spia importante per comprendere come il capitalismo agli inizi del secolo scorso stesse sviluppando a dismisura attività parassitarie. Il capitale finanziario ottiene una sua remunerazione come qualsiasi altro capitale, ma direttamente non produce un solo atomo di plusvalore. Il parassitismo del capitale finanziario è uno dei più significativi fenomeni della decadenza capitalistica.
Con l’affermarsi dei grandi gruppi monopolistici e il formarsi di ingenti masse di capitale finanziario in eccesso si amplia a dismisura il fenomeno dell’esportazione di capitali. Le concentrazioni monopolistiche economico-finanziare delle potenze imperialistiche investono i loro capitali in paesi arretrati per realizzare un profitto più elevato rispetto a quello che realizzerebbero investendo nel paese d’origine. Soprattutto a partire dall’inizio del XX secolo si apre la possibilità di investire in paesi in cui i saggi di profitto sono mediamente più alti rispetto a quelli che si realizzano in paesi come l’Inghilterra, la Francia o la Germania. Questo sovraprofitto è determinato dal fatto che nei paesi meno progrediti vi sono pochi capitali investiti, le materie prime sono a buon mercato e soprattutto il costo della forza-lavoro è bassissimo.
Conseguenza dell’esportazione di capitali è la creazione di un unico grande mercato mondiale nel quale i diversi grandi gruppi monopolistici scatenano una competizione prima economica ma poi militare per la spartizione del pianeta. La possibilità di ottenere profitti più alti esportando capitali in paesi meno progrediti genera una competizione imperialista che sfocerà drammaticamente nel primo conflitto mondiale. Giustamente Lenin ha definito la guerra una guerra imperialista in quanto le sue cause andavano cercate nelle contraddizioni del capitalismo e nella spasmodica ricerca, da parte dei grandi gruppi monopolistici, di nuovi mercati dove esportare capitali.
Gli extra-profitti derivanti dal monopolio e dall’esportazione di capitali hanno fatto aumentare enormemente i profitti dei capitalisti dei paesi imperialisti. Una parte di questi extra profitti sono stati utilizzati dalla borghesia con la finalità di dividere il fronte della classe operaia dei paesi più avanzati. Attraverso elargizioni, aumenti salariali, una parte di essa è stata materialmente staccata dal proletariato per trasformarsi in quella che Lenin ha definito: aristocrazia operaia. La divisione sul terreno economico si è riflesso anche sul terreno ideologico, tanto che il riformismo ha potuto attecchire facendo leva proprio sull’aristocrazia operaia.
Il miglioramento delle condizioni di vita di un settore del proletariato dei paesi a capitalismo avanzato potrebbe sembrare a prima vista una contraddizione rispetto al fenomeno che stiamo descrivendo. Ma la contraddizione è solo apparente. L’affermarsi dei fenomeni della decadenza della società borghese possono momentaneamente convivere con dei miglioramenti nelle condizioni di vita di alcuni settori del proletariato. Scadremmo in una visione idealistica della realtà se pensassimo che al manifestarsi di un fenomeno discendono meccanicamente delle conseguenze. In primo luogo, l’aristocrazia operaia è definita tale per il fatto che il proletariato nel suo complesso non ha migliorato le proprie condizioni di vita e di lavoro, neanche in quei paesi a capitalismo avanzato. In secondo luogo le elargizioni di briciole ad alcuni settori di classe operaia è avvenuta solo grazie alla completa spoliazione di interi continenti. I fenomeni della decadenza, infatti, da un lato hanno prodotto la nascita della cosiddetta aristocrazia operaia, dall’altro hanno completamento ridotto alla fame il proletariato di interi continenti che, grazie all’internazionalizzazione dei mercati, sono entrati a far parte del meccanismo della produzione di plusvalore.
Le forme di appropriazione parassitarie tipiche di una società in decadenza, già evidenti agli inizi del secolo scorso, hanno subito negli ultimi decenni un’evoluzione neanche immaginabile ai tempi di Lenin. Alle forme tipiche in cui si è espressa la decadenza capitalistica agli inizi del suo manifestarsi si sono aggiunte nuove forme di appropriazione parassitaria di plusvalore. Mentre ai tempi di Lenin i grandi gruppi monopolistici, pur dominando il panorama economico internazionale, erano in ogni caso circondati da una serie di imprese di piccole e medie dimensioni, le quali giocavano un ruolo tutt'altro che secondario nella composizione del prodotto interno lordo di un paese, i livelli di concentrazione raggiunti dal capitale in questa fase non lasciano il benché minimo spazio alla presenza di imprese che siano fuori controllo o gestione del monopolio. L’extra-profitto derivante dal fatto che il monopolista può praticare un prezzo più alto rispetto a quello di un mercato di libera concorrenza non è più un fenomeno isolato e minoritario, ma è diventata la regola di funzionamento dell’economia capitalistica. Dall’altra parte, la tendenza a ridurre il numero di imprese presenti sul mercato è dettata anche dalla necessità di concentrare i mezzi di produzione per abbassare i costi e incrementare la massa dei profitti.
Il capitale finanziario è stato definito da Lenin come quel capitale bancario sotto forma di denaro investito nel mondo della produzione. Giustamente Lenin sottolineava come fosse insita nella natura del capitale finanziario sviluppare forme di appropriazione parassitarie. Ora, a ben vedere, nei primi anni del novecento il capitale finanziario, pur non essendo direttamente legato al mondo della produzione, se non tramite l’intermediazione della banca, aveva come suo scopo finale quello di essere investito in attività produttive. In questo meccanismo la riproduzione allargata del capitale è stata garantita dall’operare della formula D-M-D’, seppur mediata dall’azione della banca. Per tutta una fase storica il capitale finanziario in definitiva ha trovato un suo impiego nel mondo della produzione; si è visto che a fianco alle attività parassitarie si sono di pari passo sviluppate anche le classiche attività produttive, le uniche a fornire la linfa vitale del processo d’accumulazione ossia il plusvalore.
Negli ultimi tre decenni le attività finanziarie hanno subito una crescita a dismisura, tanto che il capitale finanziario nella spasmodica ricerca di autovalorizzazione tende sempre di più a sfuggire dal mondo della produzione. Masse ingenti di capitale finanziario, non trovando un’adeguata remunerazione nelle attività produttive a causa di saggi di profitto industriali sempre più bassi, sono investite esclusivamente in attività speculative e parassitarie, senza interessarsi minimamente della produzione di plusvalore. Il vecchio sogno del capitalista di non sporcarsi più le mani nel mondo della produzione, ma valorizzare il proprio capitale solo ed esclusivamente attraverso speculazioni finanziarie, si è avverato in questi ultimi decenni grazie all’espandersi delle attività di borsa e dei mercati valutari internazionali. La formula D-M-D’ è apparsa semplificata in D-D’, saltando completamente la fase della produzione di merci e, in definitiva, di plusvalore. Capitali che ovviamente pretendono di essere remunerati pur non avendo contribuito a produrre neanche una goccia di plusvalore.
Il paese che più di ogni altro ha sviluppato questo meccanismo di appropriazione parassitaria sono gli Stati Uniti d’America. Rinviando ad altri lavori di partito sul problema della rendita finanziaria, in questa sede possiamo sottolineare come in questi ultimi decenni gli Stati Uniti, grazie al ruolo svolto dal dollaro sui mercati internazionali, riescano a stornare plusvalore da ogni angolo del pianeta. Questo meccanismo permette loro di trovarsi nella parassitaria condizione di poter semplicemente stampare moneta ottenendo in cambio dal resto del mondo merci e servizi. In tal modo sono diventati il paese più indebitato al mondo, ma nello stesso tempo quelli che imperialisticamente impongono agli altri paesi di pagare una rendita necessaria a sostenere il processo d’accumulazione statunitense. Se ai tempi di Lenin il dominio imperialistico si esprimeva attraverso l’esportazione di capitale finanziario, grazie al meccanismo dell’appropriazione parassitaria di plusvalore mediante la produzione di capitali fittizio, gli Stati Uniti sono nello stesso tempo la maggiore potenza imperialistica e il paese più indebitato al mondo. Se dovessimo trasportare alla realtà odierna le analisi fatte da Lenin dovremmo arrivare alla conclusione che gli Stati Uniti sono un paese dominato imperialisticamente. E’ evidente che la realtà va studiata in tutte le sue dinamiche e compito dei rivoluzionari è di cogliere le modificazione che si verificano nel modo di manifestarsi del capitalismo e delle sue forme di decadenza. Ecco che allora Lenin non va letto talmudicamente, ma secondo la critica del materialismo storico. La decadenza è un prodotto storico che subisce continue modificazioni, pertanto i fenomeni della decadenza si manifestano in diversi modi in relazione al modificarsi delle attività parassitarie.
Decadenza e lotta di classe
Mentre la decadenza del capitale sorge dalle stesse leggi immanenti della riproduzione del capitale, le forme che la decadenza assume sono dettate anche da altri fattori. Tra questi, non ultimo è l’equilibrio delle forze tra le classi contrapposte di borghesia e proletariato. Dopo una prima fase in cui il capitalismo estorceva più plusvalore attraverso l’allungamento della giornata lavorativa, quest’ultima si è andata poi riducendo fino a raggiungere, almeno nelle nazioni guida del capitalismo, le famose 8 ore al giorno. Il capitalismo, come risposta anche alla combattività della classe operaia, è stato obbligato a ridurre le ore lavorative. In questo modo ha sviluppato la tendenza all’incremento dell’estorsione di quella parte di plusvalore che Marx definiva “relativo” non allungando la giornata lavorativa, ma accorciando il tempo di lavoro necessario a produrre il valore della forza-lavoro o, piuttosto, i salari ricevuti dai lavoratori. Incrementando il plusvalore relativo i capitalisti aumentano la loro massa di profitti, ma nello stesso tempo, storicamente, il proletariato ottiene un aumento del tempo libero e perciò migliora le sue condizioni di vita.
Fin dall’inizio del XX secolo, come abbiamo spiegato sopra, il capitalismo è entrato nella sua fase di ”decadenza e parassitismo” (Lenin) o, in breve, nella sua fase imperialista. Il prezzo per il proletariato fu di essere massacrato nella guerra globale, combattuta dagli stati capitalisti per il controllo monopolistico del pianeta. Discuteremo le ragioni economiche della guerra nella prossima sezione, ma una delle conseguenze dell’imperialismo (della guerra imperialista del XX secolo) fu anche il tentativo dello stato capitalista dei paesi più avanzati di aumentare la coesione sociale introducendo il welfare state. All’inizio questo fu fatto piuttosto a malincuore e parzialmente, ma verso la fine della II Guerra Mondiale tutte le principali nazioni capitaliste avevano costruito un welfare state che, benchè dipinto come una conquista del proletariato, in realtà era pagato proprio dal proletariato. L’arrivo del welfare state significò anche che i vantaggi derivanti dai più alti salari prima concessi solo ai settori più qualificati del proletariato, che avevano indotto Lenin a parlare di “aristocrazia operaia”, ora venivano estesi al proletariato dell’intero centro capitalista, tanto da privare l’espressione “aristocrazia operaia” del suo valore analitico.
Ma il welfare state era anche condizionato. Fin tanto che il periodo di accumulazione post-bellica era nella sua fase ascendente, il cosiddetto boom, allora i capitalisti erano disposti a tollerare questo stato sociale. Avevano poca scelta dato che la svalutazione del capitale e la penuria di forza-lavoro causata dalla seconda guerra mondiale li obbligavano ad accettare il ruolo dello stato nella ridistribuzione del plusvalore per mantenere la pace sociale tra le classi. Comunque, una volta conclusasi la fase ascendente del terzo ciclo di accumulazione del capitale (evento marcato dalla svalutazione del dollaro USA), la crisi economica obbligò la borghesia ad attaccare in maniera generalizzata gli standard di vita della classe operaia. La crisi in realtà fornì ai capitalisti un’arma per sconfiggere la classe operaia, dato che ora il lavoro era abbondante a causa della crescente disoccupazione. Dopo aver sconfitto le grandi lotte degli anni ’70 e ’80, i capitalisti ricominciarono ad estorcere più plusvalore assoluto tramite tagli ai salari reali e giornate lavorative più lunghe.
Oltre a questo storico ritorno ad una giornata lavorativa più lunga, c’è la tendenza del capitale ad aumentare i suoi profitti anche estorcendo più plusvalore relativo. Da una parte possiamo osservare la paurosa crescita della produttività del lavoro condotta attraverso il miglioramento continuo dell’apparato produttivo, miglioramento che potenzialmente potrebbe portare alla riduzione del tempo di lavoro per i lavoratori, ma d’altra parte il bisogno di sostenere il debole processo di accumulazione spinge il capitale ad allungare la giornata lavorativa. Ma tale allungamento è solo uno dei tanti segni del declino degli standard di vita della classe operaia in tutto il mondo. Il capitalismo nelle fasi di crisi deve necessariamente svalutare il costo della forza lavoro. Nel corso degli ultimi decenni, il proletariato ha sofferto un violento attacco ai suoi livelli salariali. La svalutazione dei salari è andata tanto avanti da coinvolgere l’intera classe operaia internazionale; la possibilità di spostare la produzione nei più disparati angoli del pianeta, dove i livelli salariali sono molto bassi, ha permesso al capitale di attivare un meccanismo di svalutazione della forza lavoro le cui conseguenze sono sotto gli occhi di tutti.
E sotto l’impatto della crisi, ciò che il capitalismo decadente aveva concesso quando era attaccato dal proletariato insorgente e quando gli abbondanti extra-profitto lo avevano consentito può essere ora ripreso smantellando il welfare state. Tutte le risorse devono essere dirette al processo di accumulazione, così lo stato sociale, sebbene essenziale al capitale per ristabilire la pace sociale dopo le guerre imperialiste, deve essere smantellato, dato che il capitale non può più garantirlo. Questo porta perciò a tagli a sanità, educazione, pensioni, ferrovie e trasporti pubblici, in breve, allo stato sociale. Non dovremmo dimenticare che lo stato sociale non è un dono gratuito della borghesia, dato che i lavoratori devono rinunciare a una parte del salario per avere questi servizi, ma se questi non vengono più forniti allora ha luogo un vero e proprio saccheggio della classe operaia. E questo sta accadendo in ogni area avanzata del capitalismo, dove in passato esisteva il welfare state.
Il fenomeno che forse più di ogni altro caratterizza la fase di decadenza della società borghese è la sua intima necessità di ricorrere alla guerra per uscire dalle proprie crisi economiche. Pur nella varietà delle giustificazioni ideologiche delle guerre combattute negli ultimi cento anni, tutte traggono la loro origine nelle contraddizioni del modo di produzione capitalistico. Ogni guerra è una guerra imperialista del capitale e in quanto tale sempre combattuta contro il proletariato.
Nella fase imperialistica i primi due cicli d’accumulazione del capitale si sono drammaticamente chiusi con altrettanti conflitti mondiali, dimostrando che il capitalismo nella sua fase decadente può funzionare solo se è in grado di distruggere capitali e forze produttive in eccesso e massacrando milioni di proletari al fronte. Nel perverso meccanismo distruttivo della guerra il capitalismo ha trovato una singolare risposta alla propria crisi. Le due guerre imperialiste hanno quindi segnato il punto di chiusura e d’inizio dei cicli d’accumulazione; nel modus operandi del capitalismo decadente le guerre sono state delle drammatiche parentesi necessarie per superare le crisi e rilanciare il ciclo d’accumulazione.
L’avanzare della decadenza del capitalismo ha determinato che le guerre non siano solo una parentesi nella vita del capitale, ma siano diventate un modo permanente di vivere della società borghese. Negli ultimi decenni la guerra imperialistica è stata una costante nella realtà del capitale. L’avanzare della decadenza ha quindi determinato che le guerre siano diventate il modo di essere del capitalismo. Una società come quella capitalistica che, per continuare a riprodursi, è quotidianamente portata a distruggere mezzi e uomini. Una guerra permanente che è funzionale agli interessi delle grandi oligarchie economiche e finanziarie al potere e che impone all’intero proletariato internazionale un prezzo salatissimo sia in termini di vite umane sia con un vero salto all’indietro nelle proprie condizioni di vita. La guerra imperialistica permanente di questi ultimi decenni presenta alcune differenze rispetto a quelle combattute nel passato, differenze non nel loro contenuto di classe, ma che testimoniano l’aggravarsi della decadenza della società capitalistica. Mentre i due precedenti conflitti imperialistici hanno consentito al capitalismo di avviare un nuovo ciclo d’accumulazione, determinando una fase di crescita dell’intera economia mondiale, le guerre combattute in questi ultimi decenni hanno avuto come unica conseguenza l’arricchimento esclusivo di alcune frange della borghesia internazionale e la distruzione di interi paesi. Stiamo assistendo a guerre permanenti che rispetto a quelle del passato non creano le premesse di una nuova fase di sviluppo dell’economia, attraverso la ricostruzione dei sistemi produttivi distrutti, ma che hanno come unico effetti la morte per milioni di proletari e la distruzione generalizzata. Le guerre dimenticate del continente africano, i conflitti nell’ex Yugoslavia e le recentissime guerre in Afghanistan e Iraq sono i segni più evidenti di cosa può produrre una società nella sua fase di decadenza se l’ondata rivoluzionaria del proletariato non sarà in grado di spazzarla via.
Lo scontro di classe tra borghesia e proletariato non è una caratteristica esclusiva della fase di decadenza della società capitalistica. La realizzazione del socialismo da parte del proletariato è una potenzialità valida per tutto l’arco storico del modo di produzione capitalistico, non solo di quest’ultima fase di decadenza. La lotta di classe è determinata dalla permanente contraddizione tra capitale e lavoro e gli attacchi portati avanti dal proletariato nel corso del XIX secolo non sono stati velleitari atti volontaristici di alcuni settori della classe operaia. La Comune di Parigi del 1871, tanto per citare il caso più eclatante di attacco proletario, è stato un eroico per quanto immaturo atto del proletariato francese con il quale si è tentato di conquistare il potere ed è avvenuto molto prima che il capitalismo entrasse nella sua fase di decadenza.
Affinché il proletariato possa fare la propria rivoluzione occorrono due condizioni fondamentali:
1) condizioni obiettive di crisi economiche tali da spingerlo a mobilitarsi sul terreno dello scontro di classe;
2) la presenza del partito rivoluzionario che possa guidare politicamente ed organizzativamente il proletariato verso la conquista del potere.
Queste due imprescindibili condizioni si potevano verificare anche nella fase ascendente del modo di produzione capitalistica, tanto è vero che prima della fase di decadenza il capitalismo è stato investito da crisi economiche violentissime che hanno visto il proletariato reagire con significativi episodi di lotta di classe, ma che in assenza di un’efficace guida politica sono stati riassorbiti nell’ambito della conservazione borghese. In termini potenziali il proletariato poteva fare la rivoluzione senza aspettare che il capitalismo percorresse il percorso storico che lo ha condotto versa la sua decadenza. La rivoluzione il proletariato non l’ha fatta non perché non ci fossero le condizioni oggettive per farla, ma perché non ha saputo esprimere un proprio partito politico capace di guidarlo fino alla conquista del potere. Questo, però, è un problema che non riguarda solo il passato, ma è drammaticamente attuale.
Crisi economica e decadenza sono legati dialetticamente tra loro, ma esprimono due differenti realtà temporali del modo di manifestarsi del capitalismo. La crisi economica si verifica quando i meccanismi dell’accumulazione s’inceppano e si assiste a tutti quei fenomeni tipici della crisi (crollo della produzione, disoccupazione di massa, tagli ai salari ecc.). Queste crisi sono state delle costanti periodiche del capitalismo ancor prima che questo iniziasse la sua fase di decadenza. Le crisi economiche caratterizzano quindi tutta l’esperienza storica del capitalismo. La decadenza del sistema capitalistico presuppone ovviamente le crisi economiche, ma si manifesta con tutti quei fenomeni che abbiamo cercato di individuare nel corso del presente lavoro (parassitismo, ricerca di extra-profitti, ritorno a forme di sfruttamento selvaggio della forza lavoro, guerre ecc.). Il capitalismo ha subito delle crisi ancor prima di entrare nella sua fase di decadenza, ma nello stesso tempo ha vissuto periodi di sviluppo economico anche nella sua fase di decadenza.
Il successo o l’insuccesso di un assalto rivoluzionario della classe lavoratrice dipendono dalla contemporanea presenza dei due fattori summenzionati. Entrambi questi fattori non dipendono in alcun modo dalla fase storica in cui si trova il capitalismo. Così come la decadenza non deve essere identificata con le crisi economiche, allo stesso tempo la fase di decadenza del capitalismo non agevola in alcun modo la ricostruzione del partito di classe. Storicamente dobbiamo purtroppo verificare che il proletariato è riuscito ad esprimersi meglio come soggettività politica soprattutto agli inizi del XX secolo, quando i fenomeni della decadenza iniziavano a manifestarsi in modo compiuto. Mentre in questi ultimi decenni in cui la decadenza è un fenomeno così penetrante, anche per le nefaste conseguenze dello stalinismo, il proletariato non riesce a dare una propria risposta di classe ai problemi posti dal capitalismo.
Una società decadente può continuare la propria esistenza per un periodo lunghissimo che non può essere determinato a priori. Già in passato il mondo romano nella sua fase di decadenza ha prolungato la sua lenta agonia per quasi mezzo millennio. Solo con lo sguardo retrospettivo dello storico possiamo affermare che la vecchia società schiavista romana ha concluso la propria parabola grazie all’urto delle invasioni barbariche. Lo stesso metro di giudizio non può essere utilizzato per fare delle proiezioni temporali per l’attuale decadenza borghese. Noi stiamo drammaticamente vivendo la decadenza del capitale, possiamo individuare i diversi fenomeni in cui essa si esprime, ma non possiamo ovviamente prevedere quando questa fase storicamente si concluderà. In assenza di una sua alternativa, il capitalismo potrebbe continuare nella sua folle corsa ancora per secoli. Dalla decadenza della società capitalistica non discende meccanicamente il socialismo. E’ metodologicamente sbagliato prevedere la naturale fine del capitalismo e l’affermarsi del socialismo in assenza di un attacco rivoluzionario del proletariato. Il socialismo non è la naturale conclusione della decadenza capitalistica, ma è il frutto della vittoriosa lotta di classe del proletariato guidato dal suo partito internazionale ed internazionalista.