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Dalla rivista D-M-D' N°16. Traduzioni:[EN][FR]
La parabola discendente del ciclo economico capitalistico del secondo dopoguerra, accelerata dal Covid-19, prosegue inesorabilmente. Vecchie e nuove potenze imperialistiche si confrontano per il predominio del pianeta a sottolineare la permanente conflittualità generata da un sistema economico i cui attori regolano i loro conti con l’esercizio della violenza e della rapina. L’imperialismo moderno è l’espressione del capitalismo giunto a minacciare la stessa vita sulla terra.
L’antistoricità del sistema capitalista si evidenzia compiutamente nella ricorrenza delle sue crisi, quando le contraddizioni accumulate esplodono in tutta la loro forza. In queste circostanze emerge con grande evidenza il paradosso originato dall’enorme sviluppo delle forze produttive, le quali a un certo punto non sono più in grado di garantire una adeguata redditività del capitale investito. Di conseguenza si palesa il contrasto tra la sempre maggiore ricchezza prodotta e il diffondersi, allo stesso tempo, tra i lavoratori e nella società di incertezza e povertà. L’attuale devastante situazione non è causata dal Covid-19, come vorrebbe far credere la propaganda borghese, la pandemia ha certamente amplificato gli effetti, ma la crisi era già presente da prima ed è tutta interna ai meccanismi dell’accumulazione capitalista. La finanziarizzazione delle economie mature è stata la risposta data dal capitale a questa crisi che si protrae, con alti e bassi, da decenni. Crisi che ha colpito in particolare la maggiore potenza imperialista mondiale: gli Stati Uniti d’America. Le misure messe in atto dagli stati, lungi dal risolvere i problemi, non fanno altro che ampliarli e procrastinarli nel tempo.
Il dominio della finanza significa per gli Usa drenare parassitariamente plusvalore da ogni angolo del pianeta. I meccanismi di tale rapina risiedono nel signoraggio del dollaro e nella produzione di capitale fittizio che permettono alla borghesia americana di incamerare una rendita finanziaria ingente.[1] Lo strapotere statunitense non poteva durare all’infinito senza che i suoi principali concorrenti, abitualmente sottomessi nella caccia al bottino, non facessero nulla per cambiare le cose. L’Unione Europea malgrado i mille problemi che ha al suo interno è riuscita nell’ambito del sistema monetario internazionale a erodere parecchio terreno a Washington. Dati recenti evidenziano un divario ridotto tra euro e dollaro, infatti negli scambi commerciali il dollaro viene impiegato per il 41,7% delle transizioni mentre l’Euro per il 38,5%.[2] L’Unione Europea è l’area economicamente più importante al mondo, una potenzialità sino ad ora inespressa, situazione a cui l’imperialismo europeo sta tentando faticosamente di porre rimedio.
La fine della guerra fredda terminata con l’implosione dell’Unione Sovietica sembrava assegnare stabilmente il primato di super potenza imperialista numero uno agli Stati Uniti d’America. Quell’evento fu soprattutto un’occasione straordinaria per la borghesia di tutto il mondo e di quella occidentale in particolare, per decretare il de profundis del comunismo, ovvero spacciare la morte del capitalismo di stato dell’est Europa, il cosiddetto socialismo reale, come la fine delle illusioni per chiunque aspirasse a una società diversa. Il proletariato internazionale avrebbe dovuto rassegnarsi per sempre al capitalismo, ovvero a una società non perfetta ma certamente l’unica possibile secondo gli ideologici del capitale, affermando che oltre il perimetro di questo sistema non c’è nulla di meglio se non vuote chiacchiere velleitarie. Trappola riuscita, per il momento, ai sostenitori del pensiero unico dominante.
Sennonché i fatti hanno la testa dura, certamente gli Stati Uniti sono ancora la prima potenza imperialista in circolazione, se non altro dal punto di vista militare, ma con una tale quantità di contraddizioni interne che rischiano di farli esplodere, come i recenti fatti dell’assalto al Congresso di Washington hanno dimostrato. Quanto accaduto è la spia della crisi economica e sociale nella quale è sprofondata la società americana, tanto da farci tornare alla mente, similmente, il rovinoso declino dei loro vecchi nemici sovietici. Alla passata contrapposizione Usa-Urss va sostituendosi un quadro imperialistico più articolato, ancora in divenire, non meno pericoloso e brutale del precedente. Da una parte abbiamo i tradizionali briganti di vecchia data: Stati uniti, Europa, Russia; dall’altra una nuova pretendente al titolo, la Cina, potenza in ascesa con ambizioni evidenti di proporsi come il nuovo centro di riferimento economico a scala globale.
L’Europa vuole liberarsi dall’abbraccio soffocante americano
L’amministrazione Trump ha sin dall’inizio fatto capire senza mezze misure, al netto dell’originalità dell’inquilino della Casa Bianca, che il gendarme del mondo erano e devono restare gli Stati Uniti d’America. La pandemia da coronavirus ha sollecitato ulteriormente le dinamiche interimperialistiche a causa degli effetti recessivi sull’economia internazionale.[3] Situazione che unitamente alla crisi strutturale del capitale apre scenari imprevedibili.
La Cina, l’unica potenza ad aver superato la pandemia e che secondo la Banca Mondiale chiuderà il 2020 con una crescita del Pil del 2,3% e del’8% quest’anno, diventa sempre più attraente per gli europei e ancora più pericolosa per gli statunitensi. Lo scorso 30 dicembre, Cina e Unione Europea dopo sette anni di negoziati hanno stipulato il EU-China Comprehensive Agreement on Investment (CAI), un accordo che dovrà essere ratificato dal Parlamento Europeo, riguardante normative e procedure per gli investimenti nei reciproci mercati. Si va dai veicoli elettrici, ai servizi finanziari, alla sanità privata, ai trasporti navali e aerei, alle telecomunicazioni, all’informatica, ecc. Bruxelles porta a casa un risultato importante a dispetto della Casa Bianca e del neoeletto presidente Joe Biden. Ancora una volta la borghesia europea, in particolare l’asse franco-tedesco, vuole marcare le distanze da Washington, che non ha preso per niente bene la faccenda.
Nella stessa direzione va la fase conclusiva della costruzione del gasdotto Nord Stream 2, nonostante la decisa opposizione ancora in atto e le sanzioni imposte dagli Usa alle società europee partecipanti al progetto. Altri 55 miliardi di metri cubi di gas naturale all’anno che dalla Russia andranno alla Germania, trasformeranno Berlino nel principale hub energetico europeo. Fatto che taglierà fuori definitivamente il petrolio e il gas di scisto americani, il cosiddetto “fracking”, poco competitivo dati gli alti costi di produzione e i relativi prezzi di vendita, al quale la pandemia e la conseguente recessione ha dato il colpo di grazia.
Washington nello scontro commerciale e geopolitico con Cina, Russia, Iran, pretende che l’Europa continui a comportarsi da semplice portaborse, come è sempre stato in passato. Un alleato a volte insoddisfatto ma sempre pronto, alla fine, a seguire il capo. Ma i tempi sono mutati e la conflittualità tra Europa e Usa si è intensificata nel corso del tempo deteriorando i rapporti, oramai non si contano più le polemiche di questi ultimi anni. Le strade tendono a separarsi, ma una reale autonomia dell’Europa potrà essere raggiunta solamente con una maggiore omogeneità economica e politica, almeno tra i principali Stati membri. Questa eventualità non può prescindere dalla realizzazione di un proprio esercito in grado di competere anche sul piano della forza. Più volte la Germania ha fatto sentire la sua voce sul tema; per ultimo è intervenuto aspramente il presidente francese Macron, il quale tempo fa, in polemica con Trump, ha affermato che «La Nato è in stato di morte cerebrale», quindi «L’Europa deve pensarsi come una potenza di equilibrio». L’imperialismo europeo sta giocando una partita decisiva o sarà in grado di affermarsi unitariamente nello scontro tra predoni per la spartizione del mondo, oppure finirà inevitabilmente nella marginalità.
L’alleanza economica e militare tra Russia e Cina
L’arroganza dell’imperialismo americano oltre ad entrare in collisione con gli storici alleati europei è riuscito a saldare i rapporti tra Russia e Cina, tradizionalmente poco amichevoli. La crisi ucraina del 2014, le continue provocazioni americane alla frontiera russa sotto lo scudo Nato per fomentare i paesi dell’ex blocco sovietico, le sanzioni economiche imposte trascinandosi dietro la riluttante Unione Europea, sono tutti episodi che insieme all’ostilità per la Cina, espressa senza mezze misure con l’applicazione di sanzioni unilaterali, hanno prodotto il risultato opposto: l’isolamento di Washington e l’avvicinamento di Mosca e Pechino.
I due paesi hanno firmato diversi accordi economici molto importanti e prospettato una ampia collaborazione politica e strategica di più lungo respiro. Inoltre, bisogna tenere conto di un’altra aspetto strategico molto importante, la posizione geografica della Russia quale anello di congiunzione tra Europa e Asia, cosa che interessa molto la Cina nel suo disegno espansionistico all’interno del mercato unico europeo. Fondamentale, inoltre, nella partita che si sta giocando sullo scacchiere imperialistico internazionale, sono gli accordi energetici e militari. Senza dimenticare il coinvolgimento di Mosca, nel ruolo di spalla ovviamente, da parte di Pechino nella gigantesca iniziativa della Belt and Road Initiative ( Bri), Nuova Via della Seta.
Non sfugge a nessuno, però, il differente peso specifico sull’economia mondiale di Cina e Russia: «nel 1992, secondo la Banca mondiale, il prodotto interno lordo cinese era leggermente inferiore a quello russo (427 miliardi di dollari contro 460). Nel 2017, dopo soli venticinque anni, il pil cinese è circa otto volte quello russo (12.200 miliardi di dollari contro 1.600).»[4] L’interscambio si basa principalmente su idrocarburi e sistemi d’arma, prodotti che costituiscono la struttura portante dell’economia della Federazione Russa, e beni manifatturieri da parte della Repubblica Popolare. La Cina dal 2017 è diventato il primo importatore mondiale di greggio, e naturalmente il principale acquirente di prodotti energetici russi. Però, attualmente gli oleodotti e i gasdotti eurasiatici sono insufficienti per l’approvvigionamento energetico del Celeste Impero, il quale deve fare affidamento sulle importazioni marittime dal Medio oriente. Tale ritardo ha intensificato gli sforzi per lo sviluppo di progetti infrastrutturali da realizzare all’interno della strategia complessiva della Bri per collegare l’Eurasia centrale, ossia l’Unione Economica Eurasiatica (Uee), composta da Russia, Kirghizistan, Kazakistan, Armenia e Bielorussia, allo scopo di modernizzare e rendere efficienti i collegamenti, e per la costruzione di nuove pipeline che dovranno passare da questi territori.
Altri accordi e investimenti, sempre in maggioranza cinesi, riguardano la Via della Seta su Ghiaccio che segue la rotta artica attraverso il Nord della Russia, opera che ridurrebbe sensibilmente i tempi di navigazione tra l’est e l’ovest del globo, con tutto ciò che questo comporterebbe sul piano commerciale e militare a scala internazionale. Su questo punto il cinismo borghese dimostra di non avere limiti. I briganti capitalisti vogliono approfittare del cambiamento climatico da essi stessi causato per transitare più comodamente nei ghiacci che si stanno sciogliendo. Il Polo Nord, oltretutto, è da tempo terreno di scontro tra le potenze per lo sfruttamento delle ingenti materie prime del sottosuolo. Come tante volte è successo nella storia di questo vergognoso sistema sono facilmente immaginabili le conseguenze sull’ambiente in caso di incidenti. In ogni caso, l’uso intensivo a fini economici di quel fragile territorio avrà comunque effetti deleteri. Altro che sviluppo sostenibile e green economy! Gli affari sono affari, per il borghese può crollare il mondo ma l’unica cosa che conta è il profitto.
Pechino e Mosca vanno avanti a tutto campo, anche nella collaborazione industriale. Gli accordi di cooperazione riguardanti la cosiddetta Via della seta digitale vede la partecipazione massiccia della Cina nel settore delle telecomunicazioni. La rete con tecnologia 5G della Huawei coprirà gran parte della popolazione e del territorio russo.
Non tutto, però, è così idilliaco come potrebbe apparire, la debolezza nei confronti del comune nemico yankee, fa di necessità virtù. La Russia, in primo luogo, è ben attenta dal non farsi schiacciare dal potente “amico” che la sovrasta sul piano economico e finanziario. La pomposa dichiarazione di «partenariato strategico complessivo di coordinamento in una nuova èra» firmata da Putin e Xi Jinping nel giugno 2019 esprime bene la genericità degli impegni e la prudenza nelle relazioni. Non si tratta di una reale alleanza ma di una avvicinamento non vincolante, entrambi i contraenti vogliono avere le mani libere. I cambiamenti di fronte tra gli stati imperialisti non sono certo una novità.
La Cina nuovo centro di gravità
Pochi decenni sono bastati alla Cina per trasformarsi da paese del terzo mondo in grande potenza imperialista. Spazzata via l’epoca maoista contrassegnata da un capitalismo di stato decisamente arretrato, naturalmente contrabbandato come una delle tante varianti di comunismo realizzato, i successori meno dottrinari del loro predecessore, sono stati capaci di mettere a disposizione del capitale internazionale una forza lavoro locale disciplinata e a bassissimo costo. I capitali dei paesi avanzati si sono precipitati a investire nella Repubblica Popolare trovando le condizioni ideali per lo sfruttamento della abbondante manodopera che dalle campagne si trasferisce in massa nelle città. In poco tempo spuntano come funghi nuove megalopoli che accolgono l’esodo di massa, con tutte le conseguenze che questo comporta, come l’esperienza storica insegna. Inquinamento, addensamento urbano, deforestazione, e tanti altri fenomeni disastrosi sono il risultato del turbocapitalismo in salsa cinese. Il rapido degrado ambientale è la causa dello sviluppo di nuove micidiali patologie e il Covid-19 è la drammatica testimonianza del rovinoso rapporto tra questo modo di produzione e la natura.
Da terra di conquista per i capitali stranieri, rapidamente la Cina si trasforma nella più grande fabbrica del mondo, capace di produrre in proprio tecnologia avanzata e di investire in ogni angolo del pianeta. Uno sviluppo così imponente in poco tempo non si era mai visto nella storia del capitalismo. Il progetto sopra menzionato della Nuova Via della Seta, malgrado gli intoppi frapposti dalla pandemia e dall’atteggiamento ostile americano, mira all’espansionismo cinese mediante infrastrutture di collegamento tra le diverse aree geografiche: «È un progetto grandioso che comprende più di ottanta paesi, pari al 36% del pil, al 68% della popolazione e al 41% del commercio mondiali. Sebbene l’iniziativa sia definita solo nelle sue grandi linee, con pochi progetti già realizzati, va dato atto alla Cina di essere riuscita a lanciare un programma onnicomprensivo per lo sviluppo di quasi tre continenti che né gli Stati Uniti, né l‘Europa hanno nemmeno tentato di concepire.»[5] Dunque, si tratta di investimenti enormi sia nei paesi avanzati che in quelli più poveri. Soprattutto a questi ultimi il Dragone fa prestiti per realizzare opere infrastrutturali la cui redditività è molto incerta. Conclusione: molti stati africani non sono più in grado di restituire il debito e sono costretti a fare concessioni di ogni sorta. Le insolvenze diventano un mezzo per strangolare i paesi del terzo mondo e renderli dipendenti sul piano finanziario e in prospettiva per ottenere concessioni alla realizzazione di basi militari.
Oltre l’accordo commerciale CAI tra Unione Europea e Cina, di cui abbiamo già detto, un altro importantissimo risultato storico è stato raggiunto dalla Repubblica Popolare nel Sud Est Asiatico, in quello che praticamente è il proprio giardino di casa e oltre. Da tempo i rapporti commerciali e di integrazione economica tra Cina e i dieci paesi dell’ASEAN (Associazione degli Stati del sud-est Asiatico), popolata da 652 milioni di persone, procedono speditamente. Nell’agosto 2020 l’interscambio commerciale, malgrado la pandemia: «ha raggiunto 430 miliardi di dollari, in crescita del 7% rispetto all’anno precedente. L’ASEAN ha così sorpassato l’UE come primo partner commerciale di Pechino.»6 A compimento dei già notevoli risultati raggiunti, il 15 novembre 2020, un altro accordo di libero scambio di straordinario rilievo geopolitico, che unisce l’Estremo Oriente e il Pacifico, è stato raggiunto tra Cina, ASEAN, Giappone, Corea del Sud, Australia e Nuova Zelanda: il Regional Comprehensive Economic Partnership (RCEP). Si tratta di un avvenimento in grado di scuotere gli equilibri strategici a livello internazionale data la rilevanza dei paesi interessati e delle relative dimensioni economiche: «il RCEP creerà un’area di cooperazione economica di 2,2 miliardi di persone, che producono il 30% del Pil e il 27,4 % del commercio globali. Il gruppo dei Paesi membri copre il 50% della produzione manifatturiera globale, il 50% della produzione automobilistica e il 70% di quella elettronica. E il blocco potrebbe divenire ancora più importante qualora l’India, ritiratasi dalle negoziazioni nel 2019, decidesse di aderirvi in futuro. L’area attualmente attrae il 24% degli investimenti diretti esteri ed è la più dinamica a livello internazionale, grazie anche a una strategia di successo nel contenimento della pandemia da coronavirus.»[6]
Siamo di fronte a un nuovo grande successo della Cina e all’ennesimo fallimento Usa che nell’area hanno brigato non poco per impedire che ciò accadesse: «Il RCEP è il più grande accordo di questo tipo mai siglato. E senza Washington! Vedere la Cina troneggiare maestosa in questo Sud-est asiatico fino a ieri tanto ostile è una singolare svolta della storia.»[7] Gli eccellenti risultati economici contrastano con la vulnerabilità militare, evidente anche nel Sud Est Asiatico, che Pechino manifesta nei confronti di Washington. Ad esempio, per quanto la produzione di carbone cinese soddisfi il grosso dei bisogni interni, il consumo di petrolio è in costante aumento, e transita dallo Stretto di Malacca, il secondo stretto al mondo per traffico energetico dopo quello di Hormuz, un eventuale blocco marittimo in un luogo tanto delicato costituirebbe un reale pericolo: «La Cina è fortemente vulnerabile a un blocco marittimo: importa il 60% del greggio che consuma, di cui il 90% via mare.»[8] Essere una potenza economica non è sufficiente per dominare se non si è altrettanto forti sul piano militare. Per questo il Dragone sta intensificando gli sforzi per primeggiare anche in campo militare. La collaborazione con la Russia va in questa direzione, ma oramai i risultati raggiunti con le proprie forze sono notevoli: la Cina in base a recenti dati è diventata la seconda maggiore nazione al mondo produttrice di armi, dietro solo agli Stati Uniti.
Un gigante dai piedi d’argilla
Malgrado il ruolo crescente della Cina nel modo, coesistono al suo interno criticità dirompenti in grado di minarne le aspirazioni di grande potenza imperialistica. Le questioni relative ai separatismi in Xinjiang e in Tibet, le proteste a Hong Kong e Taiwan, sono solamente una parte dei tanti problemi aperti, indubbiamente di non facile gestione.
Ancora più complesso e spinoso è per la Cina l’argomento demografico in relazione alle condizioni geoclimatiche. Il 94% della popolazione vive nel 46% del territorio, dato che il restante è inabitabile: «La popolazione ha da tempo travalicato la capacità dell’ecosistema locale di sostenerla. Secondo gli scienziati cinesi, dal punto di vista dell’ecosostenibilità la popolazione ottimale del paese è compresa tra 700 e 800 milioni di persone; in particolare, le riserve idriche sono adeguate per non più di 250 milioni di individui, quelle alimentari per circa 330 milioni e quelle minerarie (se usate razionalmente) per circa 950 milioni. Con una popolazione attuale di 1,3 miliardi, la Cina ha dunque ecceduto di gran lunga i suoi limiti ecologici.»[9] Da qui la politica attiva delle autorità cinesi nello stimolare e programmare l’emigrazione; uno strumento utilizzato da Pechino per compiere una sorta di espansionismo coloniale e di penetrazione del proprio capitale. Strategia già efficacemente adottata nel Sud-Est asiatico: «Pechino considera la diaspora uno strumento chiave per accrescere i propri interessi nella regione. Si stima che qui vi siano oltre 35 milioni di cinesi, cioè il 60% di quelli dislocati in tutto il mondo.»[10] Stessa cosa vale per lo sterminato e poco abitato territorio siberiano, ricco di risorse naturali. Per il Cremlino la questione ha dei risvolti ambigui, sia per le opportunità che si presentano ma anche per i rischi. Da una parte la Russia ha tutto l’interesse a favorire l’insediamento in territori semi disabitati che potrebbero generare ricchezza, dall’altra il timore per la presenza soverchiante dell’ingombrante vicino: «Forse non è un caso se negli ultimi cinque anni vi è stata una crescita esplosiva dei cinesi presenti in Siberia orientale e nell’Estremo Oriente russo. I residenti locali (non solo russi, ma anche rappresentanti dei popoli indigeni della Siberia, come i buriati) parlano senza mezzi termini di “espansione” per descrivere la dinamica in corso.»[11]
Sempre in termini di sovrappopolazione un altro tema allarmante riguarda il rapporto tra aree urbane e rurali. In Cina la popolazione delle città ha superato quella delle campagne solo in tempi relativamente recenti. Il tradizionale sistema di registrazione familiare hukou, certifica la residenza di un individuo e stabilisce i differenti diritti per i cittadini provenienti dalle diverse aree geografiche del paese. I sistemi di registrazione sono diversi e vincolano al luogo di nascita, generando disparità tra coloro che appartengono all’hukou di una grande città rispetto all’appartenenza all’hukou di un piccolo villaggio di campagna, poiché da tale classificazione dipendono i diversi tipi di welfare. Di conseguenza i servizi a cui si ha diritto in una metropoli, scuola, sanità ecc., sono ben diversi da quelli offerti da un piccolo centro rurale. Un tale sistema discriminatorio produce cittadini di serie A e serie B: «Infatti, è il contadino per lo più giovane migrante nelle officine cittadine ma ancora legato alla campagna dall’hukou, a costituire la gallina dalle uova d’oro dello sviluppo industriale della Cina degli ultimi decenni.»[12] La migrazione di massa di centinaia di milioni di contadini nelle città, per giunta discriminati e invisi alla popolazione locale, super sfruttati nelle fabbriche, ha permesso di realizzare enormi profitti alla borghesia straniera e cinese. Viceversa ai contadini trasformati in salariati non sono garantiti né i servizi nei luoghi di residenza temporanei, né la sicurezza del posto di lavoro: «In effetti i ritmi di lavoro tremendi non possono essere sopportati a lungo dagli operai, il che genera un ricambio continuo cui solo una riserva ampia e qualificata di forza lavoro come quella cinese è in grado di sopperire con adeguata tempestività.»[13]
Il regime sta cercando di modificare il sistema hukou, non più funzionale alle esigenze del capitalismo cinese che malgrado i considerevoli progressi dell’agricoltura presenta ancora oggi una eccessiva frazionamento della terra: «Si tratta di modernizzare l’agricoltura superando la parcellizzazione della terra ponendo così gradualmente fine all’hukou e utilizzando la tassazione delle terre per stabilire un moderno sistema welfaristico e rilanciare i consumi interni.»[14] Operazione alquanto rischiosa ad alto impatto sociale, si tratta di 200 o 300 milioni di contadini che non potranno trovare un impiego in città, l’introduzione delle nuove tecnologie nelle fabbriche non sarà in grado di assorbire la manodopera in eccesso. A quel punto verrà meno anche quel minino supporto rappresentato dall’hukou, il diritto all’uso della terra, rifugio del migrante che torna alla campagna in caso di licenziamento o di necessità.
Tutti contro tutti
La Cina fabbrica del mondo, massima produttrice di plusvalore estratto dal feroce sfruttamento dei propri lavoratori, di cui hanno beneficiato soprattutto le multinazionali, ha rappresentato un boccata di ossigeno per il declinante capitalismo. Ma ora il Dragone gioca in proprio, la maggior parte dei profitti restano in casa, e si propone sul mercato mondiale come grande potenza imperialista con la quale tutti devono fare i conti. Gli investimenti esteri cinesi, conseguenza degli enormi attivi nell’interscambio commerciale, in questa fase storica, si caratterizzano per essere ancora legati alla catena del valore, con peculiarità prossime al capitalismo descritto da Lenin nell’Imperialismo: «Per il vecchio capitalismo, sotto il pieno dominio della libera concorrenza, era caratteristica l'esportazione di merci; per il più recente capitalismo, sotto il dominio dei monopoli, è diventata caratteristica l'esportazione di capitale». All’opposto l’imperialismo americano presenta i tratti maturi di un imperialismo aggressivo, militarista, ed economicamente parassitario potendo utilizzare le leve della finanza per stornare plusvalore a livello mondiale a danno dei concorrenti. Queste differenze sono destinate a ridursi perché lo scontro interimperialistico presuppone che tutti gareggino sullo stesso piano, cioè i comprimari degli Stati Uniti devono svincolarsi dal signoraggio del dollaro e rafforzarsi sul piano finanziario e militare.
Per quanto riguarda l’attacco al dollaro l’UE è in vantaggio rispetto alla Cina, essendo l’euro la seconda moneta più utilizzata al mondo. Il tallone d’Achille dell’Unione, a tutt’oggi, è la poca coesione politica e il prevalere degli interessi nazionali, problematiche che se non verranno superate costituiranno un grave handicap per la borghesia del Vecchio continente. L’Europa, come abbiamo visto, è nettamente in ritardo dal punto di vista militare, mentre la Cina, con il sostegno della Russia, è diventata una potenza militare di tutto rispetto in costante crescita, in grado di garantire nella produzione bellica standard qualitativi e quantitativi notevoli. La Cina è attualmente uno dei paesi che produce ed esporta più armi al mondo. Nonostante tutto gli Stati Uniti restano di gran lunga la principale potenza militare. Sul piano economico Russia e Cina stanno operando in comune per la de-dollarizzazione dei loro scambi commerciali. A fronte di un netta diminuzione dell’uso del dollaro tra i due paesi, crescono l’impiego dell’euro e delle rispettive valute, rublo e yuan. Obiettivo comune: attaccare il dollaro e accelerarne il ridimensionamento nel sistema finanziario internazionale. Insomma, i motivi di conflittualità crescono e le tensioni tra gli stati imperialisti alimentano la dilatazione della guerra permanente.
E’ necessaria una precisazione a riguardo della Cina. Esiste una letteratura pseudo marxista di presunti rivoluzionari e intellettuali di “sinistra” che non riconoscono la natura imperialista dello stato cinese. Per alcuni la Repubblica Popolare persegue la propria specifica via al socialismo. Per altri siamo di fronte ad una società originale con caratteristiche non ben decifrabili. Questi giudizi non riflettono la realtà dei fatti, ma sono intrisi di ideologia e presupposti teorici che allontanano dalla prospettiva di una reale alternativa al capitalismo. Spesso si tratta delle solite rimasticature tendenti a contrabbandare il capitalismo di stato per socialismo.
Cosa è più evidente del mastodontico progetto della Nuova Via della Seta a dimostrazione della strategia imperialista della Cina? Si tratta di programmi infrastrutturali di ogni genere con esborso enorme di capitale finanziario. L’esportazione di capitali da parte di Pechino nei tanti paesi coinvolti nella Bri si concretizza con investimenti diretti e concessione di prestiti. Lungo la Via della Seta corrono i treni e ancora più veloce corre l’influenza e l’espansionismo del capitale cinese.
Un altro punto cruciale che caratterizza l’azione del governo cinese, per esempio, è il saccheggio delle ricchezze naturali in Africa. La Cina compra a prezzi da saldo grandi spazi di terreno agricolo per compensare l’insufficiente produzione interna di derrate alimentari. La stessa cosa vale per le materie prime necessarie al proprio apparato industriale. Il brutale sfruttamento della forza lavoro dei paesi arretrati comporta dipendenza e devastazione del territorio. L’imperialismo cinese non ha nulla da invidiare ai propri rivali.
E’ possibile andare oltre
Il protrarsi della crisi sistemica del capitalismo fa emergere nella società, più o meno inconsciamente, la sensazione che qualcosa si è rotto, che non è più possibile andare avanti come prima. L’individuo spersonalizzato della propria umanità nella società borghese è solamente merce, e quando non può fungere neanche da mercanzia può essere gettato via come cosa inutile. Il capitalismo dal volto umano, come vorrebbero farci credere i riformatori è un inganno. Non esiste un capitalismo buono, produttivo di ricchezza reale oggettivata in beni e servizi, e un capitalismo cattivo egoista e speculativo. Esiste un capitalismo che nel corso del tempo percorre diverse fasi, e come tutte le cose ha un inizio e una fine. Realizzare profitti è l’unica ragione d’essere di questo sistema dove conta solo il Dio denaro. La valorizzazione del capitale sta diventando sempre più problematica, se i profitti calano tutto si complica, gli investimenti nella produzione delle merci diventano sempre meno convenienti: «lo sviluppo del capitale finanziario anziché essere antitetico all’industria è invece l’ “ultimo rifugio” del capitalismo industriale, che permette sia di evitare un crollo alla anni ‘930, con conseguente distruzione di capacità produttiva in eccedenza e di capitali sovraccumulati, sia di rialzare il tasso di sfruttamento e quindi evitare un tracollo dei saggi di rendimento dei capitali. Ma da un lato sposta in là il problema senza risolverlo, e dall’altro aggiunge nuovo materiale infiammabile sotto forma di bolle finanziarie destinate a scoppiare, con effetti di ritorno sui meccanismi base capitalisti imprevedibili e potenzialmente catastrofici.»[15]
Il peggioramento delle condizioni di vita e la mancanza di prospettive per una società radicalmente antitetica al capitalismo, senza sfruttamento e senza classi sociali, ha fatto cadere nella trappola tanti proletari finiti nelle braccia dei partiti reazionari e populisti del capitale. Il controllo ideologico della classe dominante, in ogni caso, non può risolvere le gigantesche e insolubili contraddizione del modo di produzione capitalistico. Né può mistificare la natura di un sistema improntato sullo sfruttamento e la trasformazione in moneta sonante di qualsiasi aspetto della vita umana. Alla propaganda borghese che vuole far credere che il capitalismo sia l’unica organizzazione sociale possibile, fa da contraltare una desolante realtà in costante deterioramento. Altro che fine delle classi sociali e progresso inarrestabile della civiltà! Al contrario siamo in presenza di un mondo che va caratterizzandosi, come mai prima d’ora, “in due grandi campi nemici, in due grandi classi direttamente opposte l'una all'altra: borghesia e proletariato”, come perfettamente anticipato da Marx ed Engels nel Manifesto. Mai la divaricazione tra le classi si è spinta così avanti, la ricchezza è concentrata in poche mani, mentre la povertà è dilagante e colpisce anche le stratificazioni sociali un tempo agiate.
Il criminale sistema capitalista sta portando alla catastrofe. E’ causa della degradante condizione umana. E’ causa della distruzione del pianeta. E’ causa della pandemia. La borghesia pur di salvare se stessa è disposta a tutto. Il processo di accumulazione capitalistico deve andare avanti a ogni costo. Non può fermarsi un attimo, neppure nel dilagare del virus, tanto a morire sono soprattutto i poveri e gli anziani. Gli stati borghesi intanto continuano a stampare denaro ingigantendo il debito pubblico da scaricare sulla collettività. L’ingente massa di capitale fittizio in cerca di remunerazione va a gravare tutto sulle spalle del proletariato, che intanto sprofonda sempre più nella miseria: «Così nei giorni drammatici della pandemia del coronavirus mai è stato così chiaro che è solo il lavoro umano che permette alla società di riprodursi, e dall’altro che la sete di plusvalore nella finanza e nella produzione è un ostacolo a questa riproduzione, ma l’unica “soluzione” adottata a livello economico è aumentare sempre più il capitale finanziario fittizio, in una infinita spirale di crescita.»[16]
La borghesia ha paura che il proletariato gli si rivolti contro. Per questo continua a fare propaganda martellante con i propri leccapiedi televisivi e della carta stampata per tentare di convincere che le classi sociali non esistono più, che siamo tutti sulla stessa barca e che l’ordine capitalistico è immortale. Tante falsità che rivelano timore, perché il proletariato esiste, eccome, e potrebbe comprendere che si deve liberare al più presto di questo marcio sistema: il capitalismo.
[1] Lorenzo Procopio, Analisi di una crisi che cambierà il quadro imperialistico mondiale, apparso su DMD’ n. 15, maggio 2020.
[2] Dati tratti da https://www.ilsole24ore.com/art/l-ascesa-apparente-ruolo-internazionale-dell-euro-AD2Sv47
[3] Gianfranco Greco, I fantasmi di una recessione prossima ventura. Le sue implicazioni sul piano di classe e su quello internazionale, apparso su DMD’ n. 14, settembre 2019.
[4] Gian Paolo Caselli, Le deboli radici economiche di un’intesa acrobatica, apparso su Limes 11/2019, p. 108.
[5] Ivi, pp. 109-110.
[6] Ibid.
[7] Martine Bulard, Bomba liberoscambista in Asia, apparso su Le Monde diplomatique/il manifesto, gennaio 2021.
[8] Collin Koh, Malacca la cruna dell’ago, apparso su Limes 6/2020, p. 145.
[9] Aleksandr Khramčikhin, Siberia lo spazio vitale di Pechino, apparso su Limes 11/2019, p. 77.
[10] Giorgio Cuscito, La Cina non domina (ancora) il Sud-Est asiatico, apparso su Limes 6/2020, pp. 115-116.
[11] Aleksandr Khramčikhin, Siberia lo spazio vitale di Pechino, apparso su Limes 11/2019, p. 83.
[12] Raffaele Sciortino, I dieci anni che sconvolsero il mondo, Asterios Editore, Trieste 2019, p. 142.
Il testo presenta spunti interessanti a riguardo della decadenza del sistema e la supremazia del capitale fittizio nel moderno imperialismo. Allo stesso tempo la traduzione politica dei fenomeni sociali porta l’autore a conclusioni a dir poco sconcertanti. L’autore vede nei neopopulismi una sorta di involucro che anticipa possibili passi successivi per il superamento del capitalismo. Il proletariato non essendo in grado, attualmente, di esprimere una propria azione indipendente è trascinato dalle forze reazionarie del capitale. Ma pur sempre si tratta di manifestazioni di profondo disagio. Ad esempio sulla Brexit l’autore scrive: «Il voto – piaccia o non piaccia – ha una chiara connotazione di classe. Classi medio-basse contro upper middle class, periferie urbane contro capitale, working class contro finanza, la City!, ed euroburocrazia». Ancora, Negli Stati Uniti le contraddizioni di classe hanno portato alla elezione di Trump: «mentre la cupola finanziaria-militare coadiuvata dall’impero dei media liberal che dirige il partito democratico pensa a come poter interrompere la corsa imprevista del presidente dei miserabili». Le mobilitazioni di massa contro le élite come quella dei gilets jaunes in Francia sono, per l’autore, portatrici di istanze potenzialmente alternative al sistema: «Siamo alla s/composizione definitiva del soggetto proletario… L’ambivalenza caratteristica dei neopopulismi dal basso sta così nel loro essere espressione di istanze di classe, ma di una classe iperproletaria liquida, sciolta nella completa subordinazione al rapporto di capitale… non più classe contro classe, già espressione del rapporto contraddittorio e però inscindibile tra capitale e lavoro per soluzioni di compromesso sul terreno comune dello sviluppo, ma in nuce ricerca a tentoni di soluzioni comuni per una comunità senza classi da costituire di fronte al disastro che avanza». Affermazione quest’ultima che ricorda le posizioni della corrente dei comunizzatori. Al di là delle buone intenzioni dell’autore, decretare la fine della classe proletaria e vedere nei populismi altro dal semplice fatto che sono organizzazioni borghesi reazionarie, significa prendere un grande abbaglio e scadere politicamente su posizioni fuorvianti.
[13] Ibid.
[14] Ivi, p. 149.
[15] Ilario Salucci, Discorrendo di imperialismo, I libri di Crisi Globale, aprile 2020, p. 117.
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[16] Ivi, pp. 117-118