La tribalizzazione delle dinamiche capitalistiche

Creato: 06 Giugno 2019 Ultima modifica: 06 Giugno 2019
Scritto da Renato Marvaso Visite: 1706

Dalla rivista D-M-D' n°12

tribolazioneIl fenomeno del lavoro che viene ceduto gratuitamente si affaccia sulla nostra contemporaneità in forme, ambienti e contrattualizzazioni differenti: ma lo studio di tale meccanismo ci dà anche la stura delle sofferenze e delle privazioni dettate in tutto il mondo dai recenti cambiamenti del capitalismo moderno, sia nella sfera della produzione materiale, sia in quella rivolta a una fittizia generazione di plusvalore.

Come già era accaduto dopo il rivoluzionamento sociale ed economico scaturito dalla seconda rivoluzione industriale, l’irrazionalità della finanza e la voracità dei processi di accumulazione, un tempo prospettanti l’imperialismo, tendono ancora oggi, e quasi ciclicamente, a nascondersi sotto l’ombra del motto libero-scambista «laissez-faire, laissez passer». Nell’attuale momento storico il capitalismo sembra senza una direzione precisa, se da un lato la cronicità delle conseguenze della crisi sulle vite umane aggrava soprattutto le condizioni di vita dei lavoratori e dei disoccupati dall’altro la politica delle varie riforme governamentali non è stata in grado di far ripartire un altro ciclo di accumulazione, dopo quello apertosi nel secondo dopoguerra.

Nell’attuale fase di arresto della deflazione e di quasi stagnazione economica un dato certo, e che caratterizza gli ultimi decenni del corso capitalistico, è il decremento in tutto il pianeta del costo della forza lavoro1; l’effetto di tale ribasso ha creato su scala globale una serie crescente e multi-localizzata di squilibri sociali generando, in maniera sclerotizzata e, come ovvio, a seconda delle condizioni di vita locali, le rivolte del pane in Egitto, la protesta contro la Loi Travail in Francia e i finora pochi sparsi scioperi generalizzati in Europa2. Secondo quanto dedotto, filosoficamente e materialisticamente, da Karl Marx già al principio del capitalismo il costo della forza-lavoro è stabilito in base al valore complessivo dei beni di consumo, i quali assicurano la conservazione in buono stato della forza-lavoro stessa: ed esso rimane, dunque, invariato, non nel prezzo che può variare ma bensì nel contenuto, ovvero nella costante, corrispondente a un accesso monetario ai beni materiali che, al di là delle epoche e dei luoghi o dei modi di lavoro, garantiscono la sopravvivenza e il recupero (la rigenerazione) della forza fisica e mentale, elargite durante il faticoso atto della produzione3.

In alcuni casi storici le circostanze che hanno garantito una maggiorazione del salario hanno quasi sempre ovviato a dei periodi, più brevi che lunghi, in cui il capitale si accrebbe enormemente. Una parte degli extra-profitti poteva quindi essere concessa ai lavoratori in forma di tutele, incentivi, incrementi diretti o indiretti del costo della forza-lavoro, con relativo aumento dei salari, questi ultimi rigorosamente stabiliti, dal dopo-guerra in poi, su base contrattuale e organizzata collettivamente. Partendo dal presupposto che l’aumento dei salari risulti possibile solo qualora esso non intacchi la percentuale di plusvalore estorto si potrà comprendere per quali ragioni a partire dallo scoppio dell’imponente crisi capitalistica del 2008 la leva dei salari, ovvero il costo della forza-lavoro, si sia trasformata rapidamente in uno degli strumenti principali della concorrenza al ribasso. La corsa a rendere ancora più competitivi i prodotti immessi sul mercato ha inevitabilmente inciso sul costo della forza-lavoro volgendo al ribasso il suo valore in termini di salario. Ciò ha determinato finanche l’abbassamento dei salari al di sotto del valore dei beni necessari alla sopravvivenza del lavoratore stesso.

Ma una delle tendenze in atto è anche quella di svalutare a tal punto il cosiddetto “lavoro vivo” da trasformare una prestazione lavorativa retribuita in una prestazione che, benché mantenga intatto il suo valore sul piano capitalistico, è privata di una sua retribuzione. La fase attuale di crisi economica e l’immissione di tecnologia nei processi produttivi (si passa ormai dalla robotizzazione all’informatizzazione e viceversa) ha causato, da un lato, l’espulsione della forza-lavoro, dall’altro ha favorito la dequalificazione del lavoro stesso, di modo che a un lavoratore formato (dotato cioè di una formazione professionale) si potesse sostituire un lavoratore dequalificato (dunque, facilmente sostituibile e, quindi, dotato di meno diritti e meno forza contrattuale). L’imponenza di questi processi sta influendo tuttora anche su un altro fenomeno “moderno”: il lavoro gratuito, di cui qui si cercherà di notare i caratteri di arretratezza.

Il salario come forma di consumo di mezzi materiali o come parziale remunerazione di diritti

L’abbassamento del costo della forza-lavoro ha incrementato ulteriormente gli effetti della concorrenza per il salario tra i proletari, ovvero tra i “venditori di tempo” secondo un’accezione marxistica. Rispetto a quanto accaduto nei decenni appena trascorsi, quando la diffusione del sistema capitalistico comportava una regolazione programmata nel tempo dell’acquisto di forza-lavoro (secondo i piani fordisti della produzione), oggi assistiamo a una compravendita gestita in base a delle esigenze temporanee, instabili e indecifrabili, della produzione e del mercato. Oscillazioni, la cui portata è stata di fatto ingrandita dallo strapotere della finanza. La penetrazione dell’ideologia taylorista, liberale e neo-liberale, nei gangli vitali della società ha favorito l’approvazione di leggi e nuove procedure atte a de-responsabilizzare il capitalista medio-grande da oneri e tutele nei confronti del nuovo lavoratore assunto. La Loi Travail in Francia e il Jobs Act in Italia dimostrano perciò l’effettività di tali proposte, finalizzate ad allargare il numero dei lavoratori, a discapito della stabilizzazione lavorativa e dell’aumento delle tutele.

Eppure desta una certa meraviglia il fatto che nonostante il già palese arretramento sul piano dei diritti sindacali, delle tutele e del costo della forza-lavoro, nel vasto sottobosco delle attività lavorative del primo, del secondo e del terzo settore si stiano facendo spazio una serie di fenomeni stigmatizzati persino dal Capitale per via della loro natura ancora più estrema e che, sebbene strettamente legati al mondo del lavoro salariato, sembrano puranche sfuggire ai caratteri tipici delle relazioni di subalternità tipiche nell’universo capitalistico, basato come detto sulla retribuzione di un salario in cambio di una manodopera (fisica e manuale, altamente qualificata e intellettuale che sia). Mi è parso perciò di utilità riassumere, seppur schematicamente, queste nuove forme di lavoro, oggettivando il più possibile la diversa natura di questi rapporti personali e insieme, come insegna Marx, “sociali” in quanto “umani”; bisognerà, tuttavia, tenere presente che sia le sopravvenute precipue caratteristiche di queste relazioni, alcune delle quali ci appaiono come un doloroso ritorno a forme di dipendenza tribale, sia la trasformazione delle ore dedicate alla formazione del futuro lavoratore in ore lavorate (ed è il caso dei tirocini introdotti dalla legge 107 del 2015, «Alternanza Scuola lavoro») non influiscono assolutamente sull’esito e sulla funzione della prestazione offerta, la quale, elargita gratuitamente, non è altro che un camuffamento di un’ulteriore sottrazione di plusvalore. Nel caso in cui il lavoro venga prestato gratuitamente tali escamotages non generano un’alterazione delle relazioni consensuali di dipendenza tra il capitalista e il salariato. Le due forme del lavoro capitalistico, e che solo nominalmente possono essere ascritte all’universo capitalistico del lavoro salariato, sono:

1) Il lavoro gratuito giustificato come periodo di formazione professionale.

2) Il lavoro elargito gratuitamente, senza alcuna giustificazione morale o strutturale che ne sostenga l’elargizione senza scambio monetario.

La prima tipologia si è ormai affermata a livello planetario. In un precedente articolo sulle condizioni globali del proletariato, pubblicato su questa stessa rivista, è stata messa in luce la barbara procedura di sfruttamento dei giovani studenti cinesi nelle più grandi e sofisticate catene di montaggio della produzione di articoli e prodotti tecnologici. In Europa, e in Italia, la legge 107 del 2015, approvata dal governo Renzi con il nome di «Alternanza Scuola-Lavoro» introduceva per la prima volta (in forma compiuta) e per dei periodi circostanziati le modalità di passaggio temporaneo dalla scuola alla sfera lavorativa.

La seconda tipologia è stata invece oggetto di studi recenti, quella che qui definiamo come “lavoro gratuito”. Di primo acchitto la vendita di forza-lavoro a titolo gratuito appare del tutto irragionevole, in quanto sul piano materiale essa non può certo garantire nessuno dei mezzi di sostentamento di cui il lavoratore ha, pure, bisogno per mantenere in vita se stesso, ed eventualmente riprodursi. Difatti, la legislazione sul lavoro, quale stabilizzazione giuridica dei rapporti tra le classi (tra i compratori e i venditori di forza-lavoro), proibisce con severità l’elargizione gratuita di prestazioni lavorative. L’articolo 36 della Costituzione italiana, difatti, impone chiaramente che vi sia una retribuzione proporzionata per ogni tipo di prestazione lavorativa concessa. Quest’articolo costituisce il presupposto delle successive specificazioni in materia, nel 1999 la legge sul volontariato ha colmato un vulnus nella definizione di lavoro volontario reso a titolo gratuito, circostanziandolo come attività senza fini di lucro «prestata in modo personale, spontaneo e gratuito, tramite l’organizzazione di cui il volontario fa parte, senza fini di lucro anche indiretto ed esclusivamente per fini di solidarietà». Per le suddette ragioni al “volontario” non viene retribuito il suo lavoro ancorché «possono essere soltanto rimborsate dall’organizzazione di appartenenza le spese effettivamente sostenute per l’attività prestata». Presentando dei caratteri differenti sia dal lavoro volontario, sia dal lavoro-tirocinio dell’«Alternanza Scuola-Lavoro», il lavoro gratuito “contrattualizzato” si regge infatti su circostanze, aspettative reciproche tra le parti e relazioni personali contrassegnate dalla drammaticità dell’ultima condizione del proletariato moderno nei paesi capitalisticamente avanzati. Ed in effetti il lavoro gratuito – è stato già osservato – s’inserisce (a pieno titolo) nella relazionalità sociale di tipo capitalistico, originata dalla cosiddetta “economia politica della promessa”. In altre parole il lavoratore cede la sua forza-lavoro in cambio di una promessa “informale” di future collaborazioni con il privato o con l’ente beneficiante della prestazione ceduta (ad esempio un Comune). La dipendenza che si crea automaticamente tra il datore di lavoro beneficiante della prestazione e il singolo lavoratore non tutelato è, dunque, del tutto asimmetrica oltreché basata su una semplice promessa, priva cioè di qualsiasi possibilità di contestazione legale o di formalizzazione “contestabile”. La nuova asimmetricità del rapporto di forza, la sua informalità e precarietà rappresentano un notevole passo indietro nelle relazioni di diritto tra le classi; riportano il capitalismo ai primordi delle relazioni umane vigenti all’interno di comunità pre-capitalistiche. Il rapporto che si crea tra il lavoratore e il datore di lavoro limita infatti l’individualizzazione del lavoratore stesso, sottoponendo la sua “libertà di vendersi” a dei vincoli e a un reticolato di rapporti strutturanti relazioni fittiziamente affettive e caduche, cioè inumane. Pure, in cambio di tutto ciò il lavoratore ottiene qualcosa, un riconoscimento che non è paradossale, bensì è il prodotto dell’attuale condizione alienata del lavoratore moderno una volta privato degli strumenti di solidarietà, tradunionistici e politici della difesa collettiva.

Ma cosa sta accadendo davvero? Facciamo alcuni esempi: 1) il fotografo fiorentino al quale il 16 marzo 2017 il Comune di Firenze offriva un contratto di lavoro con cui si presupponeva una prestazione gratuita vede in qualche modo riconosciuta l’alta professionalità, foriera, nel migliore dei casi, di ulteriori collaborazioni4; 2) i lavoratori migranti ai quali è stato assegnato in appalto, il lavoro di cura e di manutenzione del centro cittadino ottengono in cambio delle loro prestazioni lavorative non pagate, il riconoscimento pubblico e sociale, in qualche modo anche “culturale”, di essere considerati lavoratori ‘abili’: presupposto essenziale per entrare stabilmente nel mercato del lavoro e, tramite ciò, essere riconosciuti socialmente dalla comunità di accoglienza del luogo in cui già vivono5; 3) i lavoratori del mondo della conoscenza (Università, Centri di ricerca, Istituti di studio) ai quali è quasi sempre chiesto di lavorare gratis per un docente o per l’ente in cui si sono formati professionalmente aspirano a una stabilizzazione per la quale, oltre a concorrere con gli altri colleghi, è spesso richiesto il lavoro gratuito, come forma di fidelizzazione e di integrazione cooptante da parte della comunità accademica.

Per fare luce su quanto già accade proviamo a partire dalle caratteristiche comuni a questi tre casi che ci permettono, altresì, di inquadrare storicamente il fenomeno senza per questo disgiungerlo dall’abbassamento del costo della forza-lavoro su scala globale (e sulle cause di questo) e dalla costante dequalificazione delle mansioni lavorative (cui una delle cause è da ricercare certamente nella recente introduzione di tecnologia supplementare nei processi produttivi). Si può quindi dedurre preliminarmente che: si tratta di un rapporto (o relazione lavorativa) riguardante lavoratori con alte e con scarse competenze e professionalità già acquisite; non è una tipologia lavorativa includibile nelle forme del lavoro nero, del lavoro volontario, del lavoro-tirocinio, del lavoro accessorio (si veda la nuova definizione di «lavoro accessorio» inscritta nell’articolo 51 del decreto legge Jobs Act); per contro, si tratta di una relazione la cui natura intima (ovvero psicologica e contingenziale) è connessa con l’economia della promessa e con un «atteggiamento neo-servile» di cui «la promessa di futuri guadagni e di uno status spendibile nel presente» (Bascetta)6 è dichiarata come il fine ultimo accertabile; inoltre, come è sottolineato nella valutazione degli esempi, la ‘dipendenza’ gratuita consente (sempre nel migliore dei casi, il ché vuol dire con una bassa percentuale di realizzazione) il riconoscimento della propria professionalità acquisita, il riconoscimento culturale in quanto lavoratore ‘abile’ da parte della comunità di accoglienza, il conseguimento della fiducia e il raggiungimento di un più stretto rapporto collaborativo con il datore di lavoro informale (ad esempio un docente accademico o una figura di riferimento nelle comunità migrante stabilizzate sul territorio europeo); infine, mi pare si possa concludere che tali forme di “dipendenze” coatte tendano a riesumare l’asimmetricità e persino l’archetipicità (attraverso il tratto pseudo-culturale di un ritorno al paternalismo-servilismo) delle relazioni umane nelle società pre-capitalistiche laddove la dipendenza è vissuta e intesa come il raggiungimento di un minimo di ‘tutela’ o di ‘riconoscimento’ e non, al contrario, come minorazione della libertà capitalistica di potersi vendere sul mercato della forza-lavoro. Nelle società pre-capitalistiche o nelle società rurali con un basso impiego di manodopera il salario è sostituito da sempre con forme di tutela e di mantenimento con cui si supplisce alla determinazione di un vincolo contrattuale. Invece di venir meno, il vincolo neutro (e finora contrattualizzato) che lega il lavoratore a un soggetto impersonale (il Capitale) è ridotto in termini personalistici7.

Il salario ridotto a feticcio

Da insieme di mezzi materiali, finalizzati al consumo e alla riproduzione delle energie fisiche, sembra quasi che il salario abbia assunto per i lavoratori giovani e meno giovani di oggi i crismi e le caratteristiche del feticcio. Una modificazione che ci trasporta finanche culturalmente e antropologicamente ad ambienti e comunità la cui omeostasi interna è garantita dall’assorbimento delle istanze vitali, attraverso una gestione clanica di diritti, doveri, prerogative. I risultati di alcune ricerche etnografiche, ambientate in Africa, in Asia e in Europa e quasi tutte inerenti le forme di lavoro nelle società non occidentali ma modellate da un processo di colonizzazione e di capitalisticizzazione dei rapporti produttivi, hanno individuato la presenza diffusa di forme di lavoro gratuito, sia nel lavoro rurale (in cui prevale, come retaggio del passato, una struttura produttiva costruita sui rapporti familiari e di tipo mezzadrile), sia nel mondo del lavoro nelle città – ove si è sviluppata una rete di conoscenze e di legami etnici attraverso cui si promuove il lavoro ‘gratuito’, ‘dipendente’ nei confronti di un datore di lavoro posto generalmente molto in alto nelle gerarchie comunitarie8. Né è una casualità che il datore di lavoro nelle società africane o asiatiche sia quasi sempre riconducibile agli alti gradi delle gerarchie religiose, tribali o semplicemente comunitarie; cosicché in un saggio del 2006 un antropologo, Paolo Viti, poteva sostenere come: «Nuove e forse inattese analogie si stabiliscono tra il Primo e il Terzo mondo: precarietà, discontinuità, flessibilità, informalità nelle relazioni di lavoro, proprie dei Paesi del Sud del mondo si espandono nel cuore dell’Occidente, già luogo della piena occupazione (Beck, 1999). Ciò a cui si assiste è la costante sostituzione di lavoro regolamentato con lavoro non regolamentato (idem: 130-131) e che questo punto di vista, i Paesi pre-moderni, quelli in cui il lavoro salariato non è mai stato predominante, si trasformano in uno schermo nel quale i Paesi occidentali post-moderni vedono non già il loro passato, bensì il loro avvenire, fatto di lavoro informale, non contrattuale, non regolamentato, precario o “a progetto”9». La dinamica inter-culturale agisce come un vettore nelle trasformazioni capitalistiche; essa perciò avrà di certo un peso, qualora lavoratori di diverse etnie, religioni, culture cominceranno nuovamente a parlarsi e a discutere. Fatto sta che come ha dimostrato la recente e preziosa indagine di due ricercatori10 può accadere esattamente il contrario, ovvero che individui parcellizzati sul piano contrattuale benché a contatto sulla catena di montaggio, e nonostante una condizione lavorativa molto degradata con condizioni di sfruttamento condivise e comuni, finiscano col trincerarsi nella sottrazione di libertà comunicativa cui costringe l’esclusività della propria lingua e l’esclusività della propria cultura, riducendo sia i contatti, sia i naturali processi di solidarietà a protezione della vita. Tuttavia, l’idea stessa di progresso civile ed economico pone un pesante interrogativo sul regresso sul piano sociale e umano oltreché economico, e di cui forme di non contrattualizzazione o di informalità assoluta o di precarizzazione del lavoro non fanno che aggravare la situazione ereditata. Il deterioramento dei rapporti capitalistici è l’altra faccia della disoccupazione o di quell’enorme numero di soggetti che non cercano né un lavoro, né un’occasione di formazione. Accanto a questa larga percentuale di NEET va quindi ad aggiungersi un’altra porzione di lavoratori, disposta a cedere gratuitamente il proprio lavoro: segno che nemmeno i più motivati tra i lavoratori vedranno garantita la loro inclusione nel mercato.

Al di là della retorica liberale, separante i vecchi dai giovani, i “privilegiati” dai non privilegiati, l’avvicendamento tra le generazioni di lavoratori sta vedendo emergere un fenomeno nuovo e preoccupante: la tribalizzazione dei rapporti capitalistici, lo scambio di tutele e riconoscimenti immateriali in cambio di prestazioni gratuite ha di fatto già trasformato in un “privilegio” la “libertà di potersi vendere”, ossia l’accesso al mercato del lavoro tramite l’inclusione nell’esercito industriale di riserva. Laddove un tempo, neanche troppo lontano, ci si poteva considerare fortunati ad entrare in FIAT o ad accedere al mercato del lavoro (persino in una catena di montaggio degli anni settanta) il lavoratore odierno, soprattutto se giovane e qualificato aspira al mero mantenimento della sua posizione di attesa tramite un minimo contatto con il mercato del lavoro o “delle promesse”. Ciò persino a “costo” di non essere pagato.

Note

1 Scrive Marx, a proposito della differenza tra il consumo del salario in epoca schiavistica e in epoca capitalistica: «Nel lavoro schiavistico, anche la parte della giornata lavorativa in cui lo schiavo si limita a reintegrare il valore dei propri mezzi di sussistenza, e nella quale, perciò, lavora di fatto per se stesso, appare come lavoro per il suo padrone: ogni suo lavoro appare come lavoro non pagato. Nel lavoro salariato, invece, anche il lavoro non pagato, il pluslavoro, appare come lavoro pagato. Là, il rapporto di proprietà nasconde il lavoro compiuto dallo schiavo per sé; qui, il rapporto monetario nasconde il lavoro che il salariato compie gratuitamente» (K. Marx, Il Capitale, Libro I, Torino, UTET, 2013, pp. 694-695.

2 Si v. l’articolo di Gianfranco Greco NordAfrica e Medioriente tra rivolte popolari e guerra imperialista permamente, sul nr. 3 di D-M-D’ .

3 Dice Marx a proposito delle differenze di salario di nazione in nazione e dei fattori che influiscono sul prezzo finale: «Nel raffrontare i salari nazionali, bisogna quindi considerare tutti i fattori che determinano una variazione nella grandezza di valore della forza lavoro: prezzo ed entità dei primi bisogni di vita naturali e storicamente sviluppati; costi di istruzione professionale dell’operaio; ruolo del lavoro femminile e minorile;» (K. Marx, Il Capitale, Libro I, cit., p. 719); e continua elencandoli tutti. 

4 La notizia è apparsa qualche tempo fa all’interno di una petizione pubblicata sul sito web Firmiamo.it e consultabile sul web all’indirizzo https://firmiamo.it/comune-di-firenze—no-all-offerta-di-lavoro-gratuito. 

5 Lo riportava il 31 agosto 2017 il sito di informazione online TG24infonews (l’articolo è consultabile all’indirizzo web http://www.tg24.info/frosinone-migranti-al-lavoro-gratuito-per-il-comune/). 

6 La citazione dello studio di Bascetta contenuto nel volume Salari rubati si trova in una recensione della raccolta di studi pubblicata da Roberto Ciccarelli il 2 giugno del 2017 sulla versione online de Il Manifesto (ora consultabile all’indirizzo web https://ilmanifesto.it/mappe-per-sfuggire-allinferno-del-lavoro-gratuito/).

7 Scrive Fabio Viti sull’individualizzazione del lavoratore che si acuisce come fenomeno allorché il lavoro gratuito viene ceduto allo stesso modo di quello salariato; tuttavia, la libertà tipica del “lavoro salariato formalmente libero” viene intaccata laddove l’assenza del salario non consente una piena individualizzazione, sul piano economico e sociale, alla stregua dei salariati: «Nel quadro del lavoro salariato formalmente libero, invece, il lavoratore non ha altre risorse se non il proprio lavoro individuale, precisamente misurabile e apprezzabile in quanto tale; questa condizione del lavoro implica anche un passaggio significativo di dipendenza delle strutture familiari, protrettrici e costrittive, a un soggetto impersonale, il capitale, passaggio che conduce appunto dalla dipendenza personale alla dipendenza materiale e prefigura il processo di individualizzazione.» (F. Viti, Dipendenza, lavoro, diritti, in Antropologia dei rapporti personali, Edizioni Il Fiorino, Modena, 2006, p. 24). 

8 Sulla confluenza di dinamiche culturali e di dinamiche lavorative all’interno delle comunità di stranieri in Italia e in Europa si vedano gli altri saggi contenuti nel volume collettaneo Antropologia dei rapporti personali, cit. 

9 Ivi, p. 34. E si aggiunge che: «Nelle società in cui il lavoro si configura come attività non salariata, cioè come lavoro familiare o come servizio, prevale quello che potremo definire il soggetto comunitario, strettamente dipendente dalla comunità organica o dal proprio gruppo familiare, mentre solo con il lavoro salariato si completa un lungo processo di emergenza dell’individuo, dotato della legittima aspettativa di una “vita per sé”. (Ivi, p. 14).

10 Si v. lo studio utilissimo e attualissimo di R. Andijasevic – D. Sacchetto, Dalla Cina all’Europa: l’onda lunga della Foxconn, in Nella fabbrica globale, Ombre corte, Verona, 2015, pp. 187-215.