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L’estremismo riformista è un epifenomeno politico che coinvolge tutte le forze progressiste: a cospetto dell’irrazionale corso del capitalismo, in cui la speculazione finanziaria ha sostituito in parte l’accumulazione classica (D-M-D’), nessun partito schierato con la classe borghese potrà mai indicare una soluzione che, al suo interno, non comprenda il mantenimento della macchina mal funzionante
Le “politiche” del Capitale e l’Imperialismo.
Trovare soluzioni locali a contraddizioni globali[1] ha scritto il sociologo Zygmunt Bauman, riferendosi alle lotte sociali e ai tentativi localistici con cui le singole comunità, organizzate sovente dalla cosiddetta sinistra radicale, decidono di opporsi, spesso strenuamente, agli effetti nefasti della “globalizzazione” economica. In alternativa alle resistenze locali, che anche per Bauman sono inefficaci, nei programmi politici dei maggiori partiti di destra e di sinistra si sostiene che il conflitto tra “globale” e “locale” può essere, altresì, ridotto a una questione di “giuste” riforme da attuare.
Parafrasando la critica di Lenin a Kautsky, la riduzione dei problemi di economia nazionale a una banale questione di riforme e di “politiche” significa con ciò l’esclusione del contesto globale e della attuale crisi strutturale dal computo degli elementi concreti e materiali, benché a volte finanziari, di cui tener conto. Insomma, come spesso è accaduto in passato si continua a professare che l’imperialismo (lo si diceva ieri) e la mondializzazione dell’economia capitalista (lo si dice oggi) non sono altro che delle “politiche” integrate del Capitale. A esse non ci si rivolge, invece, come le immediate ricadute politiche, cioè sul piano della prassi borghese, delle trasformazioni strutturali, imposte dal perdurare delle modificazioni nel processo di valorizzazione capitalistico. Lenin, a tal proposito, precisava che l’”imperialismo” – inteso come la più recente evoluzione capitalistica e come “fase storica” del Capitale – e il concetto di “imperialismo” – che secondo Kautsky era un insieme occasionale di decisioni contingenti– fossero due sistemi ben distinti.
Per fare un esempio, il fenomeno dei monopoli precedeva l’imperialismo e ne era anzi una delle cause allorché anche le politiche di “apertura” agli scambi, o quelle segnate da un maggior “protezionismo”, non costituivano nient’altro che opzioni politiche, generate dal medesimo processo, ovvero la concentrazione dei capitali. La definizione leniniana di imperialismo è oggi ancora più attuale, poiché riporta l’attenzione sulla omogeneità dei processi internazionali e capitalistici – ossia sulla struttura globale del capitalismo, sul connotato globale del processo economico, sulle modificazioni nella produzione in via di naturale ed endemica generalizzazione –, relegando invece in secondo piano la, già peraltro limitata, eterogeneità e varietà delle vie d’uscita politiche – dal keynesismo al fascismo.
La gamma di risoluzioni politiche offerte è oggi più apparente che effettiva, dacché le proposte politiche avanzate oggi in Europa non vanno al di là di una forma estrema di riformismo: una povertà di soluzioni, riscontrabile nei programmi politici dei movimenti populistici, nei piani di governo di Tsipras, nelle proposte di Varoufakis e che, per il grado di irrealizzabilità e di retorica che le contraddistingue, risulta, di fatto, quasi senza precedenti[2].
Prima di chiarire questo aspetto, relativo alla stretta attualità, occorre prendere atto dell’evidenza con cui Lenin stabiliva nel 1916 la differenza tra quello che era uno “stadio dell’economia” e una qualunque altra “certa politica”: “Nondimeno bisogna discutere sulla definizione dell’imperialismo, innanzitutto col maggiore teorico marxista del periodo della cosiddetta II internazionale, cioè dei venticinque anni dal 1889 al 1914, con Karl Kaustky.
Già nel 1915, e perfino nel novembre 1914, Kautsky si schierò risolutamente contro il concetto fondamentale espresso nella nostra definizione, allorché dichiarò non doversi intendere per imperialismo una “fase” o stadio dell’economia, bensì una politica, ben definita, una certa politica “preferita” dal capitale finanziario, e non doversi “identificare” l’imperialismo col “moderno capitalismo”, sostenendo che la questione della necessità dell’imperialismo per il capitalismo si riduce ad una “piatta tautologia”, allorché s’intendano sotto il nome di imperialismo “tutti i fenomeni del capitalismo moderno”, – i cartelli, i dazi protettivi, il dominio dei finanzieri e la politica coloniale, – giacché in tal caso “naturalmente l’imperialismo è, per il capitalismo, una necessità vitale, ecc”[3].
Riprendendo una delle tesi di Hilferding, secondo cui “il capitale non può fare altra politica che quella imperialistica”[4], Lenin non commetteva l’errore di confondere la causa economica e strutturale con i singoli provvedimenti di adeguamento, che facevano seguito alla mutata situazione economica, internazionale e, dunque, storica. Egli perciò disambigua il termine “imperialismo” e in questo modo crea la separazione netta tra causa ed effetto, tra le modificazioni della struttura capitalistica e le evidenti ricadute sul piano politico, operativo, militare.
Questa è la ragione per cui nel noto scritto sull’Imperialismo è lo studio strutturale del fenomeno dei monopoli ad avere la precedenza e, anzi, ad anticipare l’analisi dei rapporti conflittuali tra gli Stati; la prima parte di quella disamina è, dunque, riservata alla ricostruzione storica che dallo stadio di “libera concorrenza” aveva condotto il capitalismo su scala mondiale al fenomeno progressivo della concentrazione dei capitali, coagulatisi intorno all’egemonia dei cartelli, dei trust, delle macro-imprese sempre più grandi.
Ed è solo aderendo a questa impostazione metodologica che anche oggi si può avanzare una modesta e circostanziata valutazione delle proposte, cioè delle “politiche” del Capitale, ovvero delle risposte singole e particolaristiche offerte su un piano appena successivo a quello strutturale ed economico. Il primo dato è per certi versi stupefacente: i fallimenti di politica economica del recente passato – ovvero quegli insuccessi legati a politiche di rilancio dell’economia tramite sviluppi keynesiani, protezionistici, pro-inflattivi – hanno fatto sì che di fronte a una crisi senza precedenti non rimanessero altre varianti ancora inutilizzate; i salvataggi delle banche europee ed americane o i quantitative easing, approvati dalla Federal Reserve e dalla BCE, sono gli unici strumenti che sembrano al momento calmierare la recessione, benché sul piano politico sia proprio la pochezza di questi antidoti a dominare la scena e a caratterizzare la propaganda di soggetti politici quanto mai inattendibili.
Sia i movimenti populistici, che i partiti quale espressione della defunta tradizione socialdemocratica detengono posizioni simili tra loro, in quanto comunemente orientate a una sottovalutazione delle ragioni strutturali alla base della crisi capitalistica Sia il movimento 5 stelle in Italia che i partiti al governo e all’opposizione in Europa sostengono difatti che i mali dell’economia derivino essenzialmente da una ignobile gestione dello Stato o dall’eccessivo dominio della finanza sull’economia “reale”. Se ci si attiene alla suddetta impostazione leniniana del problema delle crisi e dei fenomeni strutturali del capitalismo – per cui sono i dati della struttura a generare le politiche, e non viceversa – va invece dedotto che le analisi oggi più diffuse sulle ragioni del protrarsi della crisi espungano volontariamente ogni tipo di collegamento tra le riforme nazionali e le modifiche nella composizione del Capitale mondiale.
Alla stregua di coloro che oppongono una soluzione locale a una lotta globale – quella dei proletari contro il Capitale che usurpa lavoro – anche chi sostiene la suddetta parzialità di vedute crede che una riforma nazionale possa rappresentare l’antidoto al caos globale, facendo da calmiere ai fenomeni mondiali della finanziarizzazione, al ricorso alla guerra o all’intensificazione dello sfruttamento della forza lavoro.
La tendenza ad astrarsi dalla realtà materiale dei processi produttivi su scala globale ha consentito di ridurre il dibattito politico a una questione di riforme; secondo il paradigma leniniano, non è quindi l’adesione a una politica di scambi o l’accettazione, totale o parziale, di una politica protezionista, o di una difesa costituzionalista, a dover intaccare la dinamicità delle logiche imperialistiche; tali “politiche”, in quanto risposte momentanee e transitorie, costituiscono solo delle manovre politiche rispetto alle avvenute e operanti modificazioni nello stato strutturale della produzione. Di fronte ai nuovi scenari della ulteriore meccanizzazione dei processi produttivi, è solo nell’irrealtà del Capitale che le contraddizioni capitalistiche possono essere ridotte a questioni locali o al placet di riforme nazionali ed europee. L’incapacità di fronteggiare i cambiamenti strutturali ha generato nelle élites politiche una forma di cecità, spintasi fino alla formulazione di proposte afferenti a quello che si può definire come una sorta di “estremismo riformista”. A latere, però, vi sono quelle riforme del lavoro che vanno ad agire sulla leva del costo della forza lavoro, abbassandola ulteriormente.
Ciò è avvenuto mentre la crisi ha ormai prosciugato gli spazi di contrattazione sindacale e due dei principali regimi capitalistici mondiali, la Russia e gli Stati Uniti, si sono confrontati militarmente e per via indiretta in Siria. In presenza di una chiara manifestazione del carattere imperialistico del capitalismo, mai come oggi mondializzato e interconnesso, la sinistra borghese e quella di tradizione stalinista si posizionano, in compagnia del populismo pentastellato, sulla sponda abitata da vetusti propositi statalisti e ultra-riformistici. A questo appartengono le richieste massimaliste, le sollecitazioni finalizzate all’ottenimento di un salario garantito, le istanze abitative, i solleticamenti – perché di questo pur si tratta – affinché vi sia un maggior controllo democratico sulle istituzioni europee e sulla finanza mondiale. Ma la storia insegna che ogni progetto di “riforma umanitaria” fallisce, se posto di fronte alla concretezza dei rapporti di forza tra le classi; né si può ipotizzare, con mente ferma, che l’avvento dei 5 stelle in Italia o di Tsipras in Grecia possa davvero andare a modificare quel tipo di relazioni storiche ed epocali. Eppure assistiamo a una sequela di rivendicazioni sterili, dalle richieste di reddito di cittadinanza fino al programma di controllo democratico avanzato da Luciano Gallino nel suo ultimo libro.
Nella propaganda politica si sprecano le richieste di equità, benché, poi, queste vengano rimesse placidamente nelle mani del dominio capitalistico. Si tratta, in sostanza, di un’intensa propaganda politica, che espandendosi a destra e a sinistra conduce a passi veloci verso quella società del lavoro sottopagato, modellata dall’azione della riforma tedesca Hartz IV, della Loi Travail e del Jobs Act. Movimenti e partiti, sebbene posizionati diversamente nell’arco politico, sono in accordo nel concedere all’analisi la transitorietà delle contraddizioni capitalistiche e la concezione secondo cui queste possano essere risolte hic et nunc mediante l’attuazione di riforme nazionali riguardanti l’organizzazione dello Stato e, persino, il controllo della finanza. Dietro questa proiezione ultra-riformistica si nasconde la nebulosità e la pochezza dei programmi politici promossi dai partiti di tradizione socialdemocratica e dai movimenti populistici, poi costituitisi in formazioni politiche; schieramenti che, come nel caso dei 5 stelle in Italia, si pongono mediaticamente all’avanguardia sul fronte del progresso, dell’innovazione politica, del ritorno idealistico a delle politiche di giustizia sociale. Questo accade mentre, in Grecia, il governo Tsipras ha dimostrato che in assenza di uno stravolgimento degli equilibri imperialistici non esiste per uno Stato sovrano altra opzione che accettare le imposizioni della Troika. A quel punto la scelta più credibile era l’affidamento di un piano riforme a un governo che almeno all’apparenza risultasse “amico” della masse. La situazione disastrosa del proletariato greco rende però il caso Tsipras piuttosto distante dalle altre situazioni che abbiamo finora citato. Siamo infatti in presenza di un governo il cui primo obiettivo non era quello di riformare lo Stato, quanto piuttosto di salvare le strutture statali, garantendo la pace sociale e quindi la mera sopravvivenza del proletariato greco. Le promesse fatte in campagna elettorale non sono servite soltanto ad ammaliare gli elettori, quanto a gestire un laboratorio sociale esplosivo, senza che vi si generassero minacciose contrapposizioni di classe. L’esenzione delle tasse per i redditi fino a 12 mila euro è solo una delle tante proposte politiche poi ritirate: dopo l’elezione del 2015, le pensioni sono scese e ci sono stati licenziamenti statali; persino il piano di privatizzazioni è andato avanti senza soste. Anche la decisione di rialzare a 684 euro il salario minimo rientrava tra le opzioni necessarie affinché la pace sociale venisse assicurata e il proletariato greco, già ridotto alla fame, continuasse per lo meno a soffrire.
Se è vero che le riforme sul lavoro sono l’emblema della contrapposizione tra le classi, è proprio con questo tipo di risposte che la borghesia matura la sua più autentica forma di provvedimento politico. Tuttavia, tali adeguamenti, se da un lato sono possibili data l’assenza di resistenze, delineano altresì le difficoltà di un regime capitalistico costretto a tirare la corda. Il carattere velleitario dell’estremismo riformista è poi confermato dalle più comuni interpretazioni della crisi economica: dalla vacuità con la quale il Movimento 5 stelle individua le cause della crisi nello sperpero, nel mercimonio e negli eccessi finanziari, emerge l’inconsistenza assoluta del panorama politico di classe. Per contro, l’interpretazione marxistica è stata in grado nell’ultimo decennio di addurre almeno due diverse decifrazioni organiche della crisi capitalistica, laddove, al di là di notevoli differenze, si concorda tuttavia sull’origine sistemica e strutturale delle contraddizioni nei processi di valorizzazione delle merci prodotte (D-M-D’).
Gallino e l’estremismo riformista
Su questa rivista sono state indagate le cause che si supponeva essere all’origine della più grande recessione mondiale del capitalismo, dopo il 1929. Avendo evidenziato in tempi remoti le conseguenze nefaste, ma prevedibili, della caduta del saggio di profitto nei tradizionali ambiti di investimento del capitale industriale non sorprende neanche che a tale lettura, una volta confermata dagli eventi, siano arrivati, accodandosi, anche altri pensatori. Le cause di tipo strutturale che, a nostro avviso, stanno alla base della recessione sono legate a doppio filo alla generazione di capitale fittizio, quale mezzo di appropriazione parassitaria. Sul piano politico, appare lampante che, di fronte a simili veloci mutazioni strutturali, le élites politiche mondiali non siano state in grado di fronteggiare i cambiamenti in atto: al predominio della finanza, le deboli politiche europee non paiono poter accoppiare né promesse, né scenari attendibili. Lo scollamento tra la finzione della retorica politica, l’oratoria e la risibilità delle proposte neo-keynesiane sembra poggiarsi sulla ignoranza delle masse, di cui una grossa parte è creata artificialmente e imposta tramite il dominio ideologico. Né i proclami nazionalistici, né la propaganda borghese possono allentare il morso della crisi sociale o sopprimere le conseguenze che ricadono sull’individuo dalla brutale realtà dello sfruttamento. I moniti di alcune figure della politica, rimandanti a una maggiore attenzione per la pace sociale sembrano attestare una certa preoccupazione della classe dominante per il quadro di instabilità creatosi[5].
Se, da un lato, la velocità delle mutazioni capitalistiche e il dominio ideologico accrescono l’incapacità da parte del singolo proletario di trovare risposte adeguate ai suoi interrogativi, è proprio nel vuoto di comprensione che si insediano le caduche proposte dell’estremismo riformista.
L’impossibilità di individuare l’entità dei processi economici in atto in assenza di una guida politica e la presenza delle inafferabili multinazionali ha reso difficile la propagazione degli scioperi da un settore a un altro, o da un proletariato nazionale a un altro; ma è nel ristretto ambito nazionale – si tratti di provvedimenti ministeriali, di accordi sindacali o leggi e riforme costituzionali – che le manovre della borghesia, benché abbiano inciso sul costo e sulle condizioni di lavoro, non hanno trovato ancora un’opposizione di classe. In questo iato, incolmabile senza un partito schierato con le ragioni della classe proletaria, la battaglia assume dei connotati ideologici in grado di stravolgere la realtà e l’esperienza empirica del singolo proletario isolato.
Ed è sul piano della propaganda e dell’ideologia che la borghesia, nonostante gli scenari di guerra, ha continuato a proporre un orizzonte benevolo in cui la pace, i consumi e la crescita potessero continuare a modellare l’esistenza. La crescita del PIL, il ribasso del deficit, la riduzione del debito pubblico e l’efficienza dello Stato, con la contemplata fine dell’evasione, sono, tuttora, le promesse ambiziose che, da circa venticinque anni, vanno di pari passo con la garanzia del ritorno alla crescita dopo la lunga crisi. Ma, al di là di questi impegni inevasi, l’unica “politica” possibile del Capitale si rivela essere anche oggi quella imperialistica, ovvero l’adozione di scelte “di conquista”, orientate a seconda della fase storica e strutturale, recedente o progressiva, del Capitalismo. Il ricorso agli armamenti e la compressione del costo della forza-lavoro sono ad oggi le uniche due tendenze che informano ogni altra proposta politica messa finora in campo.
Non bisognerebbe dimenticare che: “I capitalisti si spartiscono il mondo non per la loro speciale malvagità, bensì perché il grado raggiunto dalla concentrazione li costringe a battere questa via, se vogliono ottenere dei profitti.”[6] Per cui, solo evitando di perpetuare la confusione tra le “politiche” e uno “stadio dell’economia imperialista” si potrà percepire fino in fondo la debolezza delle recenti decisioni marionettistiche dei parlamenti nazionali, o si terrà in giusta considerazione i programmi politici dei 5 stelle o di Tsipras[7]. Se la crisi economica e il confronto inter-imperialistico rendono evidente l’indirizzo storico del capitalismo, queste due circostanze stanno spingendo attualmente a una riduzione ulteriore dei margini di profitto delle borghesie nazionali. Nondimeno, è sempre l’assenza di un partito a difesa degli interessi della classe proletaria mondiale a impossibilitare il protagonismo di un altro importante attore sulla scena internazionale: il proletariato. C’è, perciò, da chiedersi quali prospettive permetteranno al proletariato di inserirsi nuovamente in quel vuoto di comprensione in cui ad oggi esso è costretto a sguazzare.
A tale domanda rispondono anche coloro che, come il sociologo Luciano Gallino, pur non aspirando a una società comunista, sono giunti a una conclusione simile a proposito del falso mito della crescita capitalistica ad libitum. Gallino afferma che la prospettiva di una crescita capitalistica è falsa, ma è tuttora digeribile ancorché “non esiste più alcun punto di riferimento di qualche peso e visibilità sociale dal quale un pensiero critico emerga per confutare ad alta voce tali fittizie rappresentazioni della nostra società” (p. 6)[8]. Su queste parole pesa, senz’altro, l’assenza di un soggetto politico in grado di opporsi all’anarchia capitalistica; tuttavia, non si tratta della sola “egemonia dell’ideologia liberale” (p. 6), come ha scritto Gallino, bensì della forza del dominio ideologico di imporsi sulla comprensione della realtà. Ma nel momento in cui occorre configurare uno scenario alternativo le debolezze sul piano dei rapporti di forza tra le classi si tramutano nella leggerezza del precorritore senza idee da spendere: perciò Luciano Gallino, come ogni intellettuale isolato, ha adottato nel suo ultimo libro alcune soluzioni che stanno a metà tra l’estremismo riformista e l’utopia comunista. Dacché non considera alcuna altra opzione politica al di là del consueto invito all’unità dei movimenti di protesta e delle intelligenze critiche, giunge in maniera sintomatica ad affermare la necessità di riforme radicali: senza postulare la permanenza o meno del capitalismo, teorizza un cambiamento in cui non è messo in discussione il funzionamento capitalistico. Perciò vengono fuori soluzioni macroeconomiche post-capitalistiche, sebbene si dica che le “vie per uscirne non sono molte” e che “l’insorgere di movimenti sociali sempre più cruenti e incontrollabili” rende ormai imminente la proposta di “una riforma del denaro e del potere di crearlo e controllarlo” (pp. 16-17). Pur rimanendo all’interno dell’ordine economico già dato Gallino ha prospettato riforme che, come quella del denaro e della finanza, non potevano che trascenderlo inevitabilmente. Dunque, si assiste all’emergere di una involuta e schizofrenica logica politica che pur rispondendo con le parole a ciò che accade nella realtà conclude ogni postulazione sul futuro con un paradosso: proprio nel momento in cui la crisi economica si confronta con le immutate esigenze di accumulazione, i partiti, i movimenti e i pensatori isolati continuano a proporre una società organizzata in base ai bisogni individuali e collettivi, ma ancora affatto interna al capitalismo. Al di là di alcune sfumature, non cambiano i connotati dell’estremismo riformistico: se nel caso di Tsipras o per il movimento 5 stelle alle proposte riformistiche, ancorate a una visione limitata dei processi in atto, non corrispondeva nient’altro che una proposta politica caratterizzata dall’impraticabilità delle richieste, nel caso di Luciano Gallino ci troviamo in presenza di una lettura corretta degli eventi della crisi ma a cui corrisponde un’idealizzazione ancora più estremistica di ciò che bisognerebbe fare.
Per quanto riguarda l’analisi dei funzionamenti capitalistici che hanno condotto alla crisi Gallino ha difatti riassunto con grande capacità di sintesi le contraddizioni che, originate dalla caduta del saggio di profitto, hanno causato dagli anni Ottanta del secolo scorso il ricorso alla genesi di capitale fittizio. La finanza, come strumento di valorizzazione del Capitale, non va dunque intesa come degenerazione quanto, piuttosto, come lo sviluppo storico del Capitale; all’origine della crisi dei subprime Gallino colloca quindi la “crisi dell’economia reale - che è la vera base della crisi” (16) e la “drastica riduzione di occasioni d’investimento redditizio nella maggior parte dei settori dell’industria e dei servizi” (p. 36). Benché, a differenza di quanto da noi sostenuto[9], la crisi venga ricondotta alla sovrapproduzione di merci, e non alla caduta del saggio medio di profitto, Gallino mostra robustissime capacità di sintesi teorica dei processi economici e politici in atto. Eppure, al dato materiale e alla ottima sintesi organica non segue una messa in discussione della struttura.
L’ultimo capitolo, dedicato alle generazioni future e a ciò che esse dovranno riformare, rivela la nebulosità degli orizzonti, su cui emerge l’idea balzana che le stesse strutture che il capitalismo si è dato in Europa dovrebbero porsi da sole dei freni democratici al loro avanzare. Ciò consentirebbe che invece di “un superamento totale del capitalismo, come forse sarebbe necessario” si giunga “quantomeno” a “un modo realistico per tentare una volta ancora di sottoporlo a un grado ragionevole di controllo democratico” (p. 17).
L’estremismo riformista è per tali ragioni un epifenomeno politico che coinvolge tutte le forze progressiste: a cospetto dell’irrazionale corso del capitalismo, in cui la speculazione finanziaria ha sostituito in parte l’accumulazione classica (D-M-D’), nessun partito schierato con la classe borghese potrà mai indicare una soluzione che, al suo interno, non comprenda il mantenimento della macchina mal funzionante. Persino il piano futuro sviluppato da Gallino, pur contenendo spunti interessanti e una sintesi efficace dell’attuale stato capitalistico, aspira più a un “controllo” democratico, che alla chiusura della fucina degli orrori. Il ragionamento di Gallino è, dunque, particolarmente paradigmatico, in quanto è evidente uno sforzo di teorizzazione il cui approdo, però, arriva fino alla contraddizione tra scenari attuali e innovazioni percepite ad oggi come ineludibili. E, difatti, si resta fermi all’imperativo di “domare la finanza”, così come spesso si invoca un “giusto salario”. In questa maniera si elude la questione di quale soggetto dovrebbe prendere tali decisioni e soprattutto in quale contesto politico, considerato che tutte queste richieste sono in palese contrasto con la doppia tendenza capitalistica ad abbassare i costi di produzione e ad aumentare la giornata lavorativa – sono queste le due principali prerogative dell’attuale sistema. A tal proposito è lo stesso autore de Il denaro, il debito e la doppia crisi a precisare che “tali riforme sarebbero necessarie persino nel caso di un superamento del capitalismo” (p. 179). Gallino afferma, dunque, che le proposte di radicale revisione del capitalismo servirebbero a democraticizzare il sistema e a “ridurre il dominio dell’estrazione di valore” (p. 179); con ciò si consentirebbe la “creazione di valore d’uso ovvero di beni di sussistenza” (p.179), un obiettivo non alieno da ciò che in una società comunista garantirebbe la trasformazione della produzione generale in beni di solo consumo.
Nei limiti dettati dalla diffusione del libro, il sociologo ha riportato d’attualità una lettura marxiana del duplice concetto di valore della merce. Riaffiora nelle suddette citazioni la contrapposizione tra valore di scambio e valore d’uso, in una società capitalistica fondata sul mercato. A latere di questa impostazione estremistica e riformista al tempo stesso si muovono gli altri programmi politici che, sia a destra che a sinistra, propongono una ristrutturazione del capitalismo e dello Stato, una riduzione delle spese, l’eliminazione dei parlamentari e, in Europa, una minore delega a Bruxelles delle decisioni in materia economica.
Anche per coloro che come il Movimento 5 stelle si appellano alla verità, alla trasparenza e alla riduzione dei costi il capitalismo resta l’unico orizzonte possibile. A riguardo delle cause che hanno generato la crisi, i pentastellati mostrano una ingenuità direttamente proporzionale al cretinismo parlamentare di cui sono la più emerita espressione: i più stolti tra loro vanno quindi enumerati tra gli epigoni di Lamartine, che nel 1848 dei tumulti e delle rivoluzioni europee sosteneva come il contrasto tra le classi fosse in realtà solo un pessimo equivoco[10]. La proposta del reddito di cittadinanza è, quindi, consequenziale alla loro impostazione riformistica, priva peraltro di una lettura organica dei processi capitalistici in atto. Nelle proposte contenute nel loro programma, anche il movimento grillino si dice favorevole alla contrattazione sindacale, alle riforme del lavoro e al controllo della finanza, mentre all’opposizione radicale è riservato un cancelleresco rifiuto della riforma Biagi. Laddove il riformismo di Gallino mira a un cambiamento epocale, ma non ne prefigura le movenze, le riforme “umanitarie” di Tsipras hanno finito con il rinsaldare una pace sociale impossibile allorché il capitalismo stringerà ulteriormente – come è costretto a fare – le corde del sacco.
Note
[1] Scrive Bauman: “Per farla breve: le città sono diventate discariche di problemi generati a livello globale. Gli abitanti delle città e i loro rappresentanti eletti si trovano ad affrontare un compito che non possono assolutamente risolvere per quanto grande possa essere il loro ingegno: il compito di trovare soluzioni locali a contraddizioni globali” (Z. Bauman, Amore liquido, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 140).
[2] Nella recente pubblicazione del volume l’ex ministro Varoufakis conclude il suo lungo saggio con una serie di proposte caratterizzate dai limiti imposti a ogni economia nazionale dalle dinamiche capitalistiche e mondiali: cfr. Y. Varoufakis, I deboli sono destinati a soffrire?, Milano, La Nave di Teseo, 2016.
[3] V. I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Roma, Editori Riuniti, 1970, p. 130.
[4] R. Hilferding, in V. I. Lenin, cit., p. 154.
[5] In un’intervista Carlo De Benedetti sostiene che il referendum di Dicembre 2016 sulla Costituzione sarà decisivo per l’andamento dell’economia, poiché: “L’Occidente è a una svolta storica: è in gioco la sopravvivenza della democrazia, anche a causa della situazione economica e finanziaria. La globalizzazione, di cui tutti noi, e mi ci metto anch’io, eravamo acriticamente entusiasti e ci siamo affrettati a raccogliere i frutti, ha creato una deflazione che ha ridotto i salari della media di tutti i lavoratori del mondo, e ha accresciuto le ingiustizie sociali sino a renderle insopportabili. Si sta verificando la previsione di Larry Summers, l’ex segretario al Tesoro di Clinton: una stagnazione secolare” (reperibile online: http://www.corriere.it/politica/16_settembre_28/de- benedetti-una-nuova-grave-crisi-economica-mettera-pericolo-democrazie-renzi-parisi-berlusconi-referendum- 57791092-84e8-11e6-b7a9-74dcfa8f2989.shtml).
[6] V. I. Lenin, cit., p. 113.
[7] Nel programma del Movimento 5 stelle la profonda ignoranza e l’estrema confusione tra ambito economico e ambito politico inducono gli ingenui redattori a invocare “l’abolizione della scatole cinesi in Borsa” e a prefigurere il “divieto degli incroci azionari tra sistema bancario e sistema industriale”: due provvedimenti alquanto irrealistici nell’epoca della finanziarizzazione dell’economia e allorché non è fatto alcun richiamo a una società non capitalistica. Cfr.: https://s3-eu-west-1.amazonaws.com/materiali-bg/Programma-Movimento-5- Stelle.pdf.
[8] Questa e le successive citazioni con tra parentesi l’indicazione della pagina si trovano in L. Gallino, Il denaro, il debito e la doppia crisi, Torino, Einaudi, 2015.
[9] Infatti, occorre precisare che: “Per il pensiero economico borghese la distinzione fra crisi del ciclo di accumulazione e ciclo congiunturale (vedi al riguardo «Prometeo», n.6 - VI serie) consiste, in ultima istanza, nella loro diversa parametrazione temporale per cui gli è pressoché impossibile comprendere non solo che anche nell’ambito della fase discendente del primo si possono avere cicli congiunturali positivi e viceversa, ma che gli incrementi della redditività realizzati per queste vie, avendo natura congiunturale, non rimuovono le cause strutturali che determinano la diminuzione della redditività, quella cioè che più correttamente il marxismo chiama caduta del saggio medio del profitto” (G. Paolucci, La ripresa dell’economia che non c’è, in «Prometeo», s. VI, nr. 9, 2004). Per un aggiornamernto della crisi in atto, cfr. G. Paolucci, Sulle cause della crisi e le sue prospettive, in «D-M- D’», nr.2, 2010, consultabile su http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/questionieconomiche/173-crisiprospettive.
[10] La frase che corrisponde a questa pretesa eliminazione dei rapporti di classe fu la fraternité. Questa idillica astrazione dai contrasti di classe, questo livellamento sentimentale degli interessi di classe contraddittori, questo immaginario elevarsi al di sopra della lotta di classe - la fraternité, ecco quale fu la vera parola d’ordine della rivoluzione di febbraio. Ciò che divideva le classi era un semplice malinteso, e Lamartine il 24 febbraio battezzò il governo provvisorio: “Un gouvernement qui suspend ce malentendu terrible qui existe entre les différentes classes”. (K. Marx, Le lotte di classe in Francia, Roma, Editori Riuniti, 1973, pp. 117-118).”