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Dalla rivista D-M-D' n °10
Le vicende greche ci insegnano che il crollo della sua economia è solo la punta più avanzata della crisi dell’intero capitalismo internazionale e che per Atene non ci sono più margini per un ritorno alla vecchia moneta nazionale. La Grecia, in questi ultimi anni, è diventata una specie di laboratorio nel quale la borghesia ha potuto sperimentare politiche economiche devastanti per le condizioni di vita e di lavoro del proletariato greco. E sotto l’incalzare della crisi sono miseramente fallite le false illusioni riformiste di Syriza e del suo leader Tsipras che nel volgere di pochi mesi si sono trasformati da acerrimi oppositori alle politiche di austerità nei palafrenieri di Bruxelles e dei creditori di Atene.
E’ proprio vero che la storia si ripete sempre due volte. Le vicende politiche greche del 2015 confermano, dopo oltre 160 anni, quanto scriveva Karl Marx nel “Diciotto Brumaio di Luigi Bonaparte” ossia che “Hegel osserva da qualche parte che tutti i grandi avvenimenti e i grandi personaggi della storia universale si presentano, per così dire due volte. Ha dimenticato di aggiungere: la prima volta come tragedia, la seconda come farsa”. E’ quello che è accaduto a Tsipras e al suo partito Syriza nel corso del 2015. Infatti, mentre nella prima tornata elettorale di gennaio 2015 hanno ottenuto la maggioranza relativa nel parlamento greco sostenendo una netta opposizione alle politiche di austerità imposte dalla Commissione Europea dalla BCE e dal Fondo Monetaria Internazionale, la cosiddetta Troika, gli stessi protagonisti hanno sostanzialmente mantenuto lo stesso numero di seggi parlamentari nelle ultime elezioni politiche di settembre 2015 dopo essersi quasi trasformati negli esecutori testamentari della volontà della troika.
Ad un primo superficiale sguardo sembrerebbe quindi che nulla sia cambiato rispetto alle precedenti elezioni del gennaio 2015, quando con una clamorosa vittoria si era affermata la nuova formazione politica il cui programma elettorale era basato su una durissima opposizione ai diktat provenienti da Bruxelles. In realtà in soli nove mesi il quadro politico in Grecia è stato rivoltato come un calzino e solo nella forma tutto è come prima ma in sostanza il quadro politico greco che è venuto fuori dalle elezioni del settembre 2015 è completamente mutato rispetto a gennaio.
Anche se per poco tempo Syriza e il suo leader Tsipras hanno illuso milioni di greci e con essi l’intera schiera di riformisti sparsi nel vecchio continente circa la possibilità di opporsi alle politiche neo liberiste imposta dal grande capitale finanziario. Ma l’illusione, come già detto, è durata soltanto pochi mesi tant’è che alle illusioni riformiste e di cambiamento nel quadro greco ed europeo in generale, ha fatto seguito la dura realtà delle draconiane misure di politica economica imposte dai creditori della Grecia. Il cedimento di Tsipras alle pressioni della Troika non è stata indolore per il suo partito politico. Infatti, nel corso dei turbolenti mesi estivi del 2015 l’ala più radicale nell’opporsi alla politica di austerità e tagli allo stato sociale greco, ha abbandonato il partito. In tal modo Syriza, epurandosi dalla propria ala sinistra, e tra questi anche l’ex ministro delle finanze Varoufakis che aveva nella prima metà del 2015 guidato le trattative con gli esponenti della troika, ha potuto vincere nuovamente le elezioni di settembre alleandosi questa volta con gli ex avversari politici. Un bel volo pindarico che serve soltanto a difendere gli interessi del grande capitale finanziario e che nulla ha da spartire con un progetto alternativo alle barbarie imposte dal decadente modo di produzione capitalistico.
Torneremo in seguito sulle illusioni del riformismo e sulla necessità di costruire un progetto politico alternativo al capitalismo che necessariamente ed immediatamente deve porsi su un terreno internazionale e non limitato dagli angusti confini nazionali.
Diamo ora uno sguardo alla crisi economica greca e alla drammaticità dei suoi numeri.
Una crisi economica che parte da lontano
Una premessa metodologica è necessaria per orientarci nell’indagine delle crisi regionali che sono in atto tanti angoli del pianeta, ossia che l’attuale crisi economica greca rientra in quella più generale che ormai da molti anni investe globalmente il sistema capitalistico. Quella ellenica rappresenta nel vecchio continente la punta più avanzata della crisi dell’intero ciclo d’accumulazione capitalistico e la borghesia nel tentativo di gestirne le contraddizioni scarica i costi sociali sulle aree più periferiche e in ultima istanza sull’intero proletariato mondiale. Per orientarsi nella crisi greca e coglierne gli elementi di novità presenti nelle dinamiche imperialistiche globali è opportuno partire proprio dai numeri del tracollo economico ellenico.
Partiamo col dare qualche dato statistico. Dal 2010, anno in cui la crisi economica - innescata qualche anno prima negli Usa dallo scoppio della bolla immobiliare dei titoli sub-prime statunitensi - ha fatto sentire pesantemente i propri effetti sul continente europeo, il prodotto interno lordo greco è crollato del 25%, un calo che nella storia del moderno capitalismo si è registrato soltanto in occasione di eventi bellici. La Grecia non è stata militarmente bombardata ma l’attacco sferrato dal grande capitale finanziario ha provocato conseguenze che sul piano economico e sociale non sono diverse da quelle che sarebbero state provocate da un vero e proprio attacco armato. Il crollo del prodotto interno lordo greco ha determinato nel proletariato greco un impoverimento assimilabile a quello che in genere si subisce in conseguenza di una guerra. Questa è un’altra virtù della moderna guerra imperialistica permanente, capace di affamare milioni di proletari e distruggere l’economia di un’intera nazione senza che venga sparato un solo colpo di cannone. La potenza dei grandi gruppi finanziari non consiste solo nel poter gestire masse enormi di capitali che vagano per l’intero pianeta all’affannosa ricerca di gocce di plusvalore con le quali soddisfare la propria sete di profitti, ma nell’era del dominio delle forme più parassitarie del capitale fittizio tale potenza si esprime anche nella capacità di desertificare economicamente intere nazioni semplicemente chiudendo i rubinetti nel finanziamento dei debiti pubblici di quei paesi che non si omologano alle politiche economiche che più garantiscono le loro istanze di accumulazione. La Grecia da questo punto di vista rappresenta un vero e proprio caso di scuola in cui sono state sperimentate politiche che hanno messo in ginocchio l’intera economia ellenica scaraventando milioni di greci nella fame più nera. In questi ultimi cinque anni la Grecia ha rappresentato una sorta di laboratorio dove la borghesia da un lato ha sperimentato la potenza di fuoco che può sprigionare il grande capitale finanziario, mentre dall’altro ha potuto assaggiare la capacità di resistenza del proletariato greco alle politiche di austerità loro imposte.
Un dato molto interessante da analizzare per comprendere la crisi greca, ma anche quella più generale dell’intero sistema capitalistico è quello relativo alla produttività del lavoro. Nonostante gli sviluppi tecnologici fatti registrare in questi ultimi decenni e i miglioramenti di processo nella gestione del ciclo economico, la produttività del lavoro non cresce; anzi in alcuni contesti come quello greco tende a calare. Vediamo più da vicino la situazione ellenica: qui la produttività del lavoro già dal 2005 e fino al 2010 era calata annualmente di oltre mezzo punto percentuale, mentre nei successivi cinque anni la stessa è diminuita di oltre un punto percentuale l’anno. Il crollo del Pil unitamente al calo della produttività, ha accentuato la polarizzazione della ricchezza, tant’è che la quota di ricchezza prodotta spettante al mondo del lavoro si è ridotta negli ultimi cinque anni di quasi il 10% rispetto al livello ad esso spettante nel periodo immediatamente precedente lo scoppio della crisi economica. In altre parole, negli ultimi cinque anni, in Grecia come d’altronde in ogni altro angolo del pianeta, i ricchi si sono ulteriormente arricchiti mentre la classe lavoratrice ha subito un violento processo di impoverimento. Nel panorama europeo il paese dove si è di più accentuata la concentrazione della ricchezza è l’opulenta Germania. Sono interessanti i dati che riporta Luciano Gallino nella suo ultimo libro “ Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai nostri nipoti” pubblicato qualche settimana prima della sua scomparsa “In Germania, secondo una statistica ufficiale, nel 2010 il decile più ricco della popolazione deteneva il 66% della ricchezza finanziaria del paese. Il corrispondente indice Gini, che misura appunto le diseguaglianze di ricchezza, era a quota 0,78, il più alto del mondo dopo gli Stati Uniti”; e poche righe più sotto prosegue “Sempre in Germania, il 20% meno ricco ha un patrimonio finanziario netto di meno 12 mila euro, in altre parole ha 12 mila euro di debiti. Al centro della distribuzione, i componenti del terzo ventile hanno un patrimonio di quasi 80 mila euro. La ricchezza vera si incontra quando si arriva all’1% più ricco, visto che dispone di 1,3 milioni di euro. Dopodiché si fa il grande salto verso la super ricchezza, quella dello 0,1% della popolazione: a queste vette il patrimonio dei singoli individui supera i 19 milioni di euro”[1]. Tale polarizzazione della ricchezza si spiega grazie al concomitante agire di due fattori, la concentrazione e centralizzazione dei capitali in poche mani e l’affermarsi sul mercato della forza lavoro di milioni di precari che mensilmente percepiscono un salario pari a 450 euro. Sono i cosiddetti mini jobs che di fatto sono stati alla base in questi ultimi anni del rilancio dell’export della Germania in Europa e nel mondo intero. Sempre il già citato libro di Luciano Gallino ci fornisce in merito qualche altro interessante dato statistico ove si legge: “Il supposto miracolo tedesco dell’occupazione si fonda sulla formazione della maggior quota di lavoratori poveri rilevabile nella Ue: 11 milioni di individui, oltre un quarto delle forze di lavoro della Germania, metà dei quali dispone dei minijobs già ricordati (contratti di lavoro regolari che prevedono un salario di 450 euro mensili per un massimo di 15 ore alla settimana), mentre l’altra metà dei contratti che prevedono orari più lunghi a fronte di salari inferiori a 6 euro all’ora.”[2]
Se è vero che Germania e Grecia sono i due poli opposti dell’economia europea, rappresentando la prima la più importante potenza e vera locomotiva dell’Europa e la seconda la cenerentola del vecchio continente, nei due paesi il proletariato vive condizioni di vita e di lavoro quasi identiche. Come si può osservare da questi dati statistici la condizione del proletariato tedesco non è poi così diverso da quello greco, essendo entrambi chiamati a sostenere con continui peggioramenti nelle proprie condizioni di vita e di lavoro il processo d’accumulazione del capitale.
Un altro dato statistico ci sembra rilevante per meglio comprendere il processo d’impoverimento che la classe lavoratrice greca ha subito in questo ultimo periodo di crisi economica, quello relativo al rapporto tra il prodotto interno lordo pro capite della Grecia e quello del paese guida dell’Unione Europea, ossia la Germania.
A metà degli anni 90 del secolo scorso il Pil pro capite della Grecia era pari al 66% di quello della Germania, e grazie alla crescita economica nel decennio successivo la forbice tra i due paesi si è notevolmente ristretta tant’è che nel 2007 il Pil pro capite greco rappresentava l’80,5% di quello tedesco. Con lo scoppio della crisi agli inizi del 2010 la tendenza alla riduzione del gap tra i due paese ha subito una repentina inversione di tendenza ed alla fine del 2014 il prodotto interno lordo pro capite della Grecia rappresentava soltanto il il 60% di quello tedesco con una tendenza verso un ulteriore peggioramento per il 2015.
L’esplosione del debito pubblico
Una delle più importanti conseguenze del crollo del prodotto interno lordo e della produttività del lavoro è stata la crescita esponenziale del debito pubblico greco. Tale aumento è il frutto dell’azione sinergica del calo del Pil e della produttività e del contestuale aumento dei tassi d’interesse sui titoli del debito pubblico, schizzati all’insù per la perdita di fiducia degli investitori internazionali e tedeschi in modo particolare. Nel volgere di pochi anni il debito pubblico greco è cresciuto in termini assoluti e relativi in maniera tale da mettere in pericolo la stabilità finanziaria dell’economica ellenica e di conseguenza di molti investitori internazionali che rischiano di non veder rimborsati i loro prestiti. La crescita dei tassi d’interesse dei titoli greci è pertanto la diretta conseguenza del peggioramento del quadro economico interno e a loro volta i tassi crescenti hanno alimentato la spinta all’innalzamento dello stesso debito pubblico.
Secondo le ultime previsioni, il rapporto del debito pubblico con il Pil supererà, alla fine del 2015 sfonderà la barriera del 200%, quando solo pochi anni fa era di poco superiore al 100% del Pil.
Con la crescita esponenziale del debito pubblico, unitamente al continuo peggioramento del quadro economico interno, lo stato greco ha dovuto affrontare un grosso problema di rifinanziamento dei titoli del debito pubblico in scadenza nei mesi estivi di questo drammatico 2015 e le rate da rimborsare nello stesso periodo al Fondo Monetario Internazionale e ad altri creditori internazionali. Soltanto grazie all’accordo siglato lo scorso mese di luglio, accordo sottoscritto dal governo greco e da varie istituzioni europee con l’appoggio anche del Fondo Monetario internazionale, la Grecia ha potuto scongiurare la dichiarazione di fallimento, ma i costi sociali imposti alla classe lavoratrice ellenica sono a dir poco drammatici.
L’accordo siglato nella metà di luglio prevede l’apertura di una nuova linea di credito a favore della Grecia per un ammontare complessivo di oltre 85 miliardi di euro, a fronte dell’impegno del governo di varare nel volgere di poco tempo misure draconiane di politica economica che attaccano ulteriormente le condizioni di vita e di lavoro del proletariato ellenico. Alcune misure sono state già varate in questa seconda metà dell’anno mentre altre sono in fase di approvazione, in ogni caso tutti i provvedimenti sono incentrati nell’attaccare il mondo del lavoro. Tra le più importanti misure imposte dai creditori greci è previsto l’aumento dell’Iva, il progressivo aumento dell’età per poter percepire la pensione, che a regime sarà di 67 anni, la completa liberalizzazione del mercato del lavoro e la fine della contrattazione collettiva. A queste misure occorre aggiungere la previsione di confisca di tutti gli immobili i cui proprietari non rispettano il piano di pagamento delle rate del mutuo, il cui provvedimento è in corso di approvazione in queste ultime settimane del 2015.
Il terzo salvataggio greco
La sottoscrizione dell’accordo che ha evitato, almeno per ora, il fallimento dello stato greco ha reso ancor di più evidente come il capitalismo per affrontare le proprie crisi strutturali debba obbligatoriamente percorrere la strada della compressione del costo del lavoro e dell’aumento della sua produttività. Tutto questo serve a soddisfare la fame di plusvalore di quell’enorme massa di capitali che vaga oggi nei mercati internazionali. Il caso greco da questo punto di vista rappresenta un vero e proprio caso di scuola che vale la pena analizzare meglio nei dettagli.
Durante le trattative per raggiungere l’accordo, intervallate anche dal referendum svoltosi il 5 luglio in cui i greci avevano espresso il proprio voto negativo rispetto all’ipotesi di accordo proposto dall’Eurogruppo e dall’Unione Europea, si era fatta strada anche l’ipotesi di una fuoruscita della Grecia dalla moneta unica europea. I primi a “minacciare” un ritorno alla dracma sono stati proprio gli esponenti del governo greco, i quali avevano anche fatto credere che in caso di fuoruscita dall’euro avrebbero potuto contare sugli aiuti finanziari della nuova istituzione bancaria fondata dai paesi Brics. Tale istituzione prevede la concessione di prestiti non più subordinati all’applicazione da parte del paese che richiede il prestito, di misure di politica economica, rompendo in tal modo con i diktat del Fmi, della Banca Mondiale o delle istituzioni europee.
L’ipotesi di un ritorno all’utilizzo della vecchia moneta nazionale paventato dai greci, si è repentinamente trasformata in una vera e propria minaccia di far uscire la Grecia dall’euro da parte della Germania per bocca del ministro delle finanze Schauble. L’opzione Grexit, ossia l’uscita della Grecia dalla moneta unica, se per il governo greco ha rappresentato il tentativo mal riuscito di far credere che il salvataggio europeo non era poi così indispensabile in quanto la Grecia poteva contare sul sostegno dei paesi Brics, in particolar modo di russi e cinesi, per la Germania tale opzione è servita per mettere spalle al muro il governo greco affinché si assumesse l’impegno di adottare i provvedimenti di politica economica richiesti. In assenza di una reale alternativa sul piano internazionale, Tsipras è stato costretto ad accettare i diktat di Bruxelles, imposti di fatto dalla Germania, nonostante la vittoria del No al referendum. Messo con le spalle al muto e privo del necessario aiuto finanziario e sostegno politico da parte di Russia e Cina, Tsipras ha dovuto abbandonare le barricate e per far approvare le misure loro imposte ha epurato Syriza della sua ala sinistra sostituendola con i partiti dell’ex opposizione di centrodestra. Le elezioni di settembre sono servite solo a sancire il nuovo quadro politico greco che è venuto fuori dalle turbolente giornate di luglio.
Lezioni greche
La crisi greca ci insegna che, al di là della propaganda politica riformista, è impossibile un ritorno alla moneta nazionale senza che nel contempo non si produca una frattura negli schieramenti imperialistici, con il conseguente passaggio da un fronte all’altro dell’imperialismo. La crisi economica che sta imperversando in tutto il sistema capitalistico internazionale agisce da volano per la formazione di nuovi schieramenti imperialistici, ma le vicende greche di questi ultimi mesi dimostrano che i tempi non sono ancora maturi per spostare la Grecia dall’euro ad un polo alternativo come quello eventuale dei Brics.
I fatti di questi ultimi mesi ci dimostrano che la borghesia greca non ha alcuna possibilità di uscire dall’euro per tornare a stampare la vecchia dracma, troppo elevati sarebbero i costi economici e sociali da affrontare per ripristinare la vecchia moneta nazionale. Se da un punto di vista teorico lo stato greco ha l’autonomia di ripristinare la dracma, tale moneta non avrebbe alcuna credibilità economica per consentire alla Grecia di utilizzarla negli scambi internazionali. Si creerebbe una situazione in cui la moneta greca potrebbe essere utilizzata negli scambi interni, mentre per il commercio con l’estero la Grecia dovrebbe affidarsi ad una moneta forte riconosciuta a livello internazionale (dollaro e/o euro). Tale soluzione sarebbe solo teorica in quanto nel volgere di pochissimo tempo si scatenerebbe un processo inflattivo che annichilirebbe il potere d’acquisto della nuova dracma. E’ questa la ragione della capitolazione di Tsipras e di tutti coloro che pensavano ad un possibile ritorno alla dracma. Da questo punto di vista l’euro è veramente un evento irreversibile, nel senso che una volta che si è fatta la scelta di aderire, i costi economici e sociale da sostenere per un eventuale ritorno alla vecchia moneta nazionale sarebbero così elevati che la scelta di rimanere dentro il sistema dell’euro rappresenta veramente il male minore. Ed è per questo che la Germania ha potuto imporre le proprie condizioni, mandando in tal modo un chiaro messaggio anche agli altri paesi aderenti all’euro non in regola con i parametri stabiliti dalla Commissione europea. Finora si è sostenuto che la crisi greca e la sua fuoruscita dall’euro potesse rappresentare l’inizio della fine della moneta unica europea. I fatti di questi ultimi mesi ci dimostrano cose un po’ diverse. L’euro, infatti, si è dimostrato in grado di sostenere l’impatto di una eventuale fuoruscita dal sistema da parte di un singolo paese economicamente marginale come la Grecia. Rappresentando ormai una parte cospicua delle riserve valutarie dei più importanti paesi al mondo ed essendo utilizzato nel 6,6% degli scambi internazionali, una sua eventuale frattura destabilizzerebbe in modo imprevedibile i già fragili equilibri finanziari internazionali. Sarà stato proprio questo timore a indurre Russia e Cina, le cui banche centrali sono fra i maggiori detentori di riserve denominate in euro, ad astenersi dall’aiutare finanziariamente la Grecia.
L’ultimo insegnamento che ci arriva dalla Grecia è che la classe lavoratrice non ha alcun interesse a difendere l’euro o a sostenere l’illusione di un ritorno alla moneta nazionale. In tal caso si tratterebbe, per il proletariato, di scegliere solo un diverso strumento monetario con il quale essere affamato. L’alternativa reale che si va profilando con sempre maggiore concretezza non è cioè fra una moneta sovranazionale e una nazionale ma un mondo senza denaro e Capitale in cui siano i bisogni dell’umanità a determinare le scelte di cosa come e quanto produrre.
[1] Luciano Gallino - Il denaro, il debito e la doppia crisi spiegata ai nostri nipoti – Ed. Einaudi 2015 pagg 111 e 112.
[2] Ibidem pag. 112