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La Grecia è tornata al centro del mondo, non per essere di nuovo la culla della civiltà occidentale, ma per rappresentare la miccia che rischia di far saltare in aria l’euro e con esso i mercati finanziari internazionali. La comprensione dell’attuale crisi economica greca richiede che essa sia necessariamente inquadrata nella più generale crisi che investe globalmente il sistema capitalistico. La Grecia non è pertanto un caso isolato ma la punta più avanzata di una crisi dell’intero sistema capitalistico che nel tentativo di gestire le proprie contraddizioni scarica i costi sociali sulle aree più periferiche e in ultima istanza sull’intero proletariato mondiale. Per orientarsi nella crisi greca e cogliere gli elementi di novità presenti nelle dinamiche imperialistiche globali è opportuno partire proprio dai numeri del tracollo economico ellenico.
Partiamo col dare qualche dato statistico. Dal 2010, anno in cui la crisi economica - innescata dallo scoppio della bolla immobiliare dei titoli sub-prime statunitensi - ha fatto sentire pesantemente i propri effetti sul continente europeo, il prodotto interno lordo greco è crollato del 25%, un calo che nella storia del moderno capitalismo si è registrato soltanto in occasione di eventi bellici. La Grecia non è stata militarmente bombardata ma l’attacco sferrato dal grande capitale finanziario ha provocato conseguenze che sul piano economico e sociale non molto dissimili da quelle che sarebbero state provocate da un attacco bellico. Il calo del Pil ha prodotto nelle condizioni di vita del proletariato greco un processo di impoverimento assimilabile a quello che in genere si subisce in conseguenza di un scontro militare. Questa è un’altra virtù della moderna guerra imperialistica permanente, che riesce ad affamare milioni di proletari e a distruggere l’economia di un’intera nazione senza che venga sparato un solo colpo di cannone.
La produttività del lavoro già dal 2005 e fino al 2010 era calata di oltre mezzo punto percentuale l’anno, mentre nei successivi cinque anni la stessa è calata annualmente di oltre un punto percentuale. Il crollo del Pil unitamente al calo della produttività, ha accentuato la polarizzazione della ricchezza, tant’è che la quota di ricchezza prodotta spettante al mondo del lavoro si è ridotta negli ultimi cinque anni di quasi il 10% rispetto al livello ad esso spettante nel periodo immediatamente precedente lo scoppio della crisi economica. In altre parole, negli ultimi cinque anni, in Grecia come d’altronde in ogni altro angolo del pianeta, i ricchi si sono ulteriormente arricchiti mentre la classe lavoratrice ha subito un violento processo di impoverimento. E’ interessante esaminare, per comprendere quest’ultimo processo subito in questi anni dalla classe lavoratrice greca, l’andamento del rapporto tra il Pil pro capite greco e quello tedesco. Nel 1995 il prodotto interno lordo pro capite greco era pari al 66% di quello tedesco, nel decennio successivo la forbice tra i due paesi si è notevolmente ristretta tant’è che nel 2007 il Pil pro capite greco rappresentava l’80,5% di quello tedesco, alla fine del 2014, in conseguenza della crisi, rappresentava meno del 60% e la tendenza per l’anno in corso è ancora verso un ulteriore peggioramento.
Parallelamente al crollo del prodotto interno lordo e della produttività del lavoro è cresciuto in termini esponenziali il debito pubblico; secondo le ultime previsioni, il rapporto del debito pubblico con il Pil supererà, alla fine di quest’anno il 200%, quando solo pochi anni fa era di poco superiore al 100% del Pil. L’esponenziale aumento del rapporto tra debito pubblico e Pil è dovuto al concomitante crollo del prodotto interno lordo e all’aumento dei tassi d’interesse pagati dal governo ellenico sui titoli pubblici.
Con la crescita esponenziale del debito pubblico, lo stato greco non è stato più in grado di onorare il pagamento delle rate in scadenza a fine giugno 2015 al Fondo Monetario Internazionale e ad altri creditori internazionali. La dichiarazione di fallimento da parte della Grecia è stata finora scongiurata grazie al recente accordo siglato lo scorso mese di Luglio 2015 tra il governo greco e le varie istituzioni europee. Accordo che prevede l’apertura di una nuova linea di credito a favore della Grecia, per un ammontare complessivo di oltre 85 miliardi di euro, a fronte dell’impegno del governo di varare in pochissimi giorni misure draconiane di politica economica che attaccano ulteriormente le condizioni di vita e di lavoro del proletariato ellenico. Tutti i provvedimenti sono incentrati nell’attaccare il mondo del lavoro; infatti, oltre all’aumento dell’Iva, è previsto il progressivo aumento dell’età per poter percepire la pensione, che a regime sarà di 67 anni, la completa liberalizzazione del mercato del lavoro e la fine della contrattazione collettiva.
La gestione della crisi greca rappresenta un vero e proprio caso di scuola di come per il capitalismo in crisi c’è una sola strada percorribile: quella della compressione del costo del lavoro e dell’aumento della sua produttività[1].
Durante le trattative per raggiungere l’accordo, intervallate anche dal referendum greco dello scorso 5 luglio in cui i greci avevano espresso il proprio voto negativo rispetto all’ipotesi di accordo proposto dall’Eurogruppo e dall’Unione Europea, si è fatta strada anche l’ipotesi di una fuoruscita della Grecia dalla moneta unica europea. I primi a “minacciare” un ritorno alla dracma sono stati proprio gli esponenti del governo greco, i quali hanno anche fatto credere che in caso di fuoruscita dall’euro avrebbero potuto contare sugli aiuti finanziari della nuova istituzione bancaria fondata in questi ultimi giorni dai paesi Brics[2].
La nuova banca internazionale dei Brics prevede la concessione di prestiti non più subordinati all’applicazione da parte del paese che richiede il prestito, di misure di politica economica, rompendo in tal modo con i diktat del Fmi, della Banca Mondiale o delle istituzioni europee.
L’ipotesi di un ritorno all’utilizzo della vecchia moneta nazionale, paventato da Tsipras e dall’ex ministro dell’economica greca Varoufakis (la convocazione del referendum del 5 luglio va letto in quest’ottica), si è trasformata in una vera e propria minaccia di far uscire la Grecia dall’euro da parte della Germania per bocca del ministro delle finanze Schauble. L’opzione Grexit, ossia l’uscita della Grecia dalla moneta unica, se per il governo greco ha rappresentato il tentativo mal riuscito di far credere che l’aiuto europeo non era poi così indispensabile in quanto la Grecia poteva contare sul sostegno dei paesi Brics, in particolar modo di russi e cinesi, per la Germania tale opzione è servita per mettere spalle al muro il governo greco affinché si assumesse l’impegno di adottare i provvedimenti di politica economica richiesti. In assenza di una reale alternativa sul piano internazionale, Tsipras è stato costretto ad accettare i diktat di Bruxelles, imposti di fatto dalla Germania, nonostante la vittoria del No al referendum dello scorso 5 luglio. Tsipras per far approvare le misure ha dovuto mutare la composizione della maggioranza parlamentare che lo sosteneva accettando, di fatto, l’ingresso in essa dei partiti dell’ex opposizione di centrodestra al posto della componente più radicale di Siryza che lo ha abbandonato.
La vittoria referendaria di Tsipras ricorda molto da vicino quella del vecchio conterraneo Pirro: entrambi vincitori nelle singole battaglie ma sconfitti nella guerra. Ma a Tsipras è andata peggio che a Pirro; infatti il condottiero dell’Epiro, nonostante le vittorie riportate sui romani nel 280 e nel 279 a.c., pur non traendo da esse alcun vantaggio politico e militare riuscì a mantenere la propria autonomia rispetto alla repubblica romana; mentre il leader di Syriza, nonostante la vittoria referendaria, nell’arco di una sola settimana, ha dovuto cedere nelle mani dei propri creditori le leve del comando dello Stato ellenico.
La crisi greca ci insegna che, al di là della propaganda politica, è impossibile un ritorno alla moneta nazionale senza che nel contempo non si produca una frattura negli schieramenti imperialistici, con il conseguente passaggio da un fronte all’altro dell’imperialismo. La crisi economica che sta imperversando in tutto il sistema capitalistico internazionale agisce da volano per la formazione di nuovi schieramenti imperialistici, ma le vicende greche di questi ultimi mesi dimostrano che i tempi non sono ancora maturi per spostare la Grecia dall’euro ad un polo alternativo come quello eventuale dei Brics.
I fatti di queste ultime settimane ci dimostrano che la borghesia greca non ha alcuna possibilità di uscire dall’euro e stampare la vecchia dracma, troppo elevati sarebbero i costi economici e sociali da affrontare per ripristinare la vecchia moneta nazionale. E’ questa la ragione della capitolazione di Tsipras e di tutti coloro che pensavano ad un possibile ritorno alla dracma. Da questo punto di vista l’euro è veramente un evento irreversibile, nel senso che una volta che si è fatta la scelta di aderire, i costi economici e sociale da sostenere per un eventuale ritorno alla vecchia moneta nazionale sarebbero così elevati che la scelta di rimanere dentro il sistema dell’euro rappresenta veramente il male minore. Ed è per questo che la Germania ha potuto imporre le proprie condizioni , mandando in tal modo un chiaro messaggio anche agli altri paesi, aderenti all’euro non in regola con i parametri stabiliti dalla Commissione europea. Finora si è sostenuto che la crisi greca e la sua fuoruscita dall’euro potesse rappresentare l’inizio della fine della moneta unica europea. I fatti di queste ultime settimane ci dimostrano cose un po’ diverse. L’euro, infatti, si è dimostrato in grado di sostenere l’impatto di una eventuale fuoruscita dal sistema da parte di un singolo paese economicamente marginale come la Grecia. Rappresentando ormai una parte cospicua delle riserve valutarie dei più importanti paesi al mondo ed essendo utilizzato nel 6,6% degli scambi internazionali[3], una sua eventuale frattura destabilizzerebbe in modo imprevedibile i già fragili equilibri finanziari internazionali. Sarà stato proprio questo timore a indurre Russia e Cina, le cui banche centrali sono fra i maggiori detentori di riserve denominate in euro, ad astenersi dall’aiutare finanziariamente la Grecia.
L’ultimo insegnamento che ci arriva dalla Grecia è che la classe lavoratrice non ha alcun interesse a difendere l’euro o a sostenere l’illusione di un ritorno alla moneta nazionale. In tal caso si tratterebbe, per il proletariato, di scegliere solo un diverso strumento monetario con il quale essere affamato. L’alternativa reale che si va profilando con sempre maggiore concretezza non è cioè fra una moneta sovranazionale e una nazionale ma un mondo senza denaro e Capitale in cui siano i bisogni dell’umanità a determinare le scelte di cosa come e quanto produrre.
[1] Vedi: L. Procopio – Grecia docet - http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla/questionieconomiche/121-lacrisigrecasistemica
[2] Brics è l’acronimo di Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica.
[3] Il dato è tratto dall’articolo di Ding Yfan Presto ci saranno yuan in ogni tasca? apparso su Le Monde Diplomatique del luglio 2015