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Senza entrare nei dettagli dei meccanismi che innescarono quella crisi, possiamo solo dire che da quel momento nulla è stato più come prima. Gli Stati nazionali hanno impiegato somme enormi per salvare dal fallimento grandi banche d'affari e assicurazioni private (“Freddie Mac” e “Fanny Mae” tanto per fare un esempio), e interi stati sono arrivati sull'orlo del dafault. Si stima che l'intero sistema finanziario mondiale, in poco più di un anno, subì perdite di attivi finanziari per oltre 40 trilioni di dollari.
La crisi ha comportato in tutto il mondo costi elevatissimi sia sotto il profilo dell'occupazione che delle condizioni di vita dei lavoratori. Già nel 2009, l'Organizzazione Internazionale del Lavoro (Oil) stimava, per la fine di quello stesso anno, che i disoccupati sarebbero aumentati di 50 milioni e contemporaneamente 200 milioni di lavoratori sarebbero caduti in condizioni di povertà estrema.
Nella stessa Cina (la locomotiva dell'economia mondiale), a fine 2009, si calcolava che almeno 23 milioni di lavoratori avessero perso il posto di lavoro nelle città e fossero rifluiti nelle campagne dalle quali provenivano (dove però l'agricoltura non era più in grado di accoglierli).
Contemporaneamente, la Commissione europea calcolava che a fine 2009 il tasso di disoccupazione medio era del 9,5% con punte del 19%, ma al netto dei lavoratori in cassa integrazione e di quelli che avevano smesso di cercare un posto di lavoro perché scoraggiati. Percentuali che, poi, sarebbero risultate di gran lunga superiori. E tutto ciò mentre erano già in atto i processi di delocalizzazione degli investimenti diretti nei Paesi emergenti, per cui consistenti volumi di produzione industriale venivano trasferiti in aree in cui il costo complessivo del lavoro era anche decine di volte più basso che nei Paesi industrialmente più sviluppati.
In quegli anni a ispirare le politiche economiche e monetarie degli Stati, e delle maggiori Banche centrali, è stata l’idea che ben presto il trasferimento di gran parte della produzione industriale - soprattutto quella ad alto contenuto di forza-lavoro - nei paesi emergenti, favorendo in essi la crescita della domanda aggregata locale, avrebbe generato una domanda supplementare di tutte quelle produzioni di merci e servizi basate sulle più recenti acquisizioni tecnologiche, che erano allora quasi tutte a esclusivo appannaggio dei paesi capitalisticamente più sviluppati. In altri termini, la crescita della produzione industriale in una parte del mondo particolarmente arretrata, avrebbe attivato quel famoso circolo virtuoso in cui domanda aggregata, investimenti e occupazione si alimentano l’un l’altro.
Lo schema, però, non teneva in alcun conto che: a) la crisi era stata causata dalla caduta del saggio medio del profitto, che si era manifestata già a cominciare dai primi anni ’70 del secolo scorso[1]; b) le nuove tecnologie, cancellando più posti di lavoro di quanti ne creavano, unite ai processi di unificazione su scala mondiale del mercato del lavoro, avrebbero contribuito alla costituzione del più grande esercito industriale di riserva mai visto nella storia del moderno capitalismo che avrebbe impresso alla spinta alla riduzione dei salari reali posta in essere dalla caduta del saggio medio del profitto, un’ulteriore e devastante accelerazione.
Era, dunque inevitabile che, a un certo punto, nei paesi più sviluppati si registrasse una riduzione della domanda aggregata di dimensioni tali da non poter essere compensata dalla nuova domanda che andava costituendosi nei paesi emergenti, peraltro limitata dal permanere in essi di livelli salariali molto bassi.
Insomma, la montagna ha partorito il topolino. Per esempio, ancora oggi, osservando attentamente la nuova occupazione statunitense, si evince che nei nuovi posti di lavoro creati è impiegata quasi esclusivamente manodopera part-time, mentre nel solo mese di ottobre si sono persi 623.000 posti di lavoro full-time. Sostanzialmente quindi il monte ore totale si è ridotto e con esso anche il salario medio percepito dai lavoratori nel loro insieme.
Non desta meraviglia, pertanto, che al culmine della massima espansione dei processi di delocalizzazione, anziché l’attesa riapertura di un nuovo circolo virtuosa, si sia invece innescato quel circolo nefasto per cui ai bassi salari corrisponde una caduta della domanda, a questa quella dei prezzi e a quella dei prezzi quella degli investimenti e dell’occupazione e ancora dei salari.
Qualche giorno fa Giorgio Squinzi, presidente della Confindustria italiana, a seguito dell'ennesimo bollettino diramato dall'Istat sui dati dei prezzi al consumo, rilasciava la seguente dichiarazione: "Il fatto che l'inflazione diminuisca nonostante ci sia stato un aumento dell'Iva significa che siamo in una situazione di vera e propria deflazione, e questo è preoccupante". Nell'eurozona l'indice dei prezzi al consumo è sceso allo 0,7% su base annua rispetto all’1,10% di Settembre. A questo punto vale la pena ricordare il precedente degli Stati Uniti che, a Marzo 2009, hanno visto l'indice dei prezzi al consumo scendere sotto lo zero, come non accadeva dal 1955. Subito dopo la Federal Reserve inaugurò il primo piano di "quantitative easing", ebbene oggi nonostante i tre piani di quantitative easing e la montagna di soldi riversati sui mercati, tra alti e bassi, l'inflazione si è attestata all’1,2%. Un indice che gli attuali timonieri della politica economica americana ritengono pericolosamente basso, poiché testimonia una generale tendenza a contenere i consumi.
La guerra delle monete
Si è aperta cosi, soprattutto negli USA e in Giappone, una linea pro-inflazione che sostiene che un'inflazione che resta al di sotto della soglia del 2%, oltre ad impedire la svalutazione del debito - rendendone così più oneroso il costo del suo servizio - costituisce un freno a tutta l'attività economica. Infatti, prezzi decrescenti inducono i consumatori, contrariamente a quando l’attesa è di prezzi crescenti ( inflazione), al rinvio degli acquisti, determinano sempre una contrazione della domanda aggregata. E’ quella che molti economisti americani hanno definito come la sindrome euro-nipponica: un duraturo periodo deflazionistico e un crollo dei consumi e della domanda interna, con conseguenze inimmaginabili per un’economia come quella capitalistica moderna basata sulla produzione su larga scala.
In realtà è la presa d’atto di un fallimento a cui però non si sa opporre nient’altro che il proseguimento a tempo indeterminato della politica dell'ormai classico "quantitative easing" inaugurata da Bernanke, che consiste nello stampare e immettere sul mercato mondiale qualcosa come 85 mld di dollari al mese con lo scopo di indebolire il dollaro per incentivare le esportazioni e, per questa via, la re-industrializzazione. In altre termini, non potendo incentivare la domanda interna mediante l’incremento dei salari, si punta a compensarla incrementando le esportazioni mediante la svalutazione competitiva del dollaro. Che è poi la stessa politica che sta facendo già da qualche anno anche il Giappone con lo Yen e, seppure con modalità diverse, la Bce con l’euro.
Il fatto è che, a tutt’oggi, il mare di soldi versato per salvare il sistema bancario internazionale non ha dato, in termini di ripresa dell’economia reale e dell’occupazione, alcun risultato tangibile, e così si è scatenata fra le diverse potenze economiche mondiali una vera e propria corsa alla svalutazione della propria moneta, una guerra monetaria al fine di assicurare maggiori competitività alle proprie esportazioni.
Ma, così come nelle guerre militari ciò che fa la differenza è il numero delle divisioni, dei cannoni e dei fucili che si possono schierare sui campi di battaglia, nelle guerre monetarie quel che conta è la grandezza della massa monetaria che può essere messa in circolazione, senza che la conseguente inflazione rompa gli argini e diventi a sua volta incontrollabile. In tal caso, infatti, anziché innescarsi il circolo virtuoso: più esportazioni - più investimenti - più occupazione- più salari- più domanda interna, la spinta al rialzo dei prezzi che genera la massa monetaria prodotta in eccesso dà luogo a una forte svalutazione dei salari, di tutti i redditi fissi e alla stagnazione della domanda[2], finendo così per rafforzare proprio quel ciclo negativo che si voleva invertire.
Ora, su questo terreno gli Usa sono indubbiamente i più avvantaggiati.
Infatti, il dollaro è ancora il mezzo di pagamento internazionale più usato al mondo; pertanto, svalutandosi, determina un incremento dei prezzi anche di tutte quelle merci (come per esempio il petrolio e la gran parte delle materie prime), le cui transazioni – benché non prodotte negli Usa – sono comunque regolate in dollari. Cosicché una quota parte dell’inflazione prodotta dalla Fed si trasferisce automaticamente anche nelle economie dei Paesi che quelle merci devono comprare a prezzi maggiorati in misura corrispondente alla svalutazione del dollaro. Certo, se questi Paesi dispongono, a loro volta, di una valuta che opera anche essa come mezzo di pagamento internazionale, una parte dell’inflazione prodotta dalla Fed viene riassorbita dalla conseguente rivalutazione di essa rispetto al dollaro. E’ il caso, per esempio dell’euro: in soli sette mesi - da Aprile ad Ottobre 2013 - il rapporto dollaro-euro è passato da 1,28 a 1,38, con una rivalutazione del primo sul secondo di ben dieci punti. Ma nondimeno essi perdono lo stesso competitività perché rivalutandosi la loro moneta anche le loro esportazioni diventano più costose rispetto a quelle statunitensi.
Ancora oggi, nonostante la Bce di Mario Draghi abbia ridotto il tasso di sconto dallo 0,50 allo 0.25%, il rapporto è di 1,365 dollari per un euro. E quel che vale per l’euro vale anche per il rapporto con lo yuan cinese e lo yen giapponese.
Lo spettro della stagnazione permanente
Sembrerebbe, dunque, una guerra dal vincitore scontato in partenza. Ma in realtà, a guardare le cose da un punto di vista di classe, l’unico vero sconfitto in partenza è solo il proletariato mondiale.
Infatti, in un contesto in cui è divenuta strutturale e mondiale la tendenza alla contrazione del valore della forza-lavoro e dell’occupazione[3], è tutt’altro che scontato che vi siano Paesi in cui vi sia una domanda interna insoddisfatta tale da dover essere compensata con l’incremento delle importazioni dall’estero e che, quindi, possa esservi una ripresa tale da favorire una crescita dell’occupazione e dei salari a seguito della crescita delle esportazioni. Tanto più che se i prezzi aumentano mentre i salari reali ristagnano, alla fine a prevalere saranno ancora quelle spinte deflattive che si vorrebbero bloccare. E poi: come è possibile un mondo in cui tutti esportano più di quanto importano?
Produrre moneta in eccesso ha senso quando esiste una domanda potenziale insoddisfatta per insufficienza dell’offerta e/o quando il costo del denaro è tale da scoraggiare gli investimenti, ma quando i tassi di interessi sono già negativi e le capacità produttive sono ampiamente sottoutilizzate, la massa monetaria in eccesso serve solo ad alimentare la speculazione finanziaria e a favorire l’ulteriore svalutazione dei salari reali. Non è un caso, infatti, che il finanziamento in deficit della spesa pubblica, come prescritto dalle teorie keynesiane, abbia funzionato soltanto dopo la fine della seconda guerra mondiale, quando cioè vi era un mondo intero da ricostruire.
In realtà, gli economisti borghesi sono come il marito che vuole la botte piena e la moglie ubriaca. Per accrescere i profitti auspicano la riduzione dei salari senza che nello stesso tempo i consumi subiscano contrazioni di sorta quando non, addirittura, che continuino a crescere.
Certo, con la fantasia si può anche volare. Tanti poeti e scrittori sono perfino andati dalla Terra alla Luna e tornati come se la forza di gravità non esistesse. Ma nessuno di loro ha mai pensato di potersi librare in volo lanciandosi dal tetto di un palazzo muovendo le braccia come se fossero ali. Sapevano bene che sarebbero morti ancor prima di poter sentire il tonfo del loro corpo. Cosa che sa bene anche quella parte della borghesia internazionale che comunque, con o senza ripresa, continua imperterrita ad accrescere i suoi profitti e, infatti, ormai anche negli ambienti economici mainstream – come ci informa P. Krugman – si parla apertamente di rassegnarsi alla convivenza con una “stagnazione secolare”[4].
Che poi è come dire che ai salariati il modo di produzione capitalistico può riservare solo un futuro di crescente miseria e rischio d'emarginazione sociale per un numero sempre maggiore di proletari.
[1] Vedi su questa questione: «La legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto», in AA.VV., La crisi del capitalismo. Il crollo di Wall Street, Edizioni Istituto Onorato Damen, Catanzaro 2009.
[2] Cosa già accaduta nella seconda metà degli anni’ 70. Dopo la denuncia da parte degli Usa degli accordi di Bretton Woods e la dichiarazione di inconvertibilità del dollaro, l’inflazione mise le ali ai piedi raggiungendo in quasi tutto il mondo valori a due e, in America latina, anche a tre cifre, dando luogo al fenomeno definito, con il neologismo ottenuto dalla contrazione dei termini stagnation e inflation, stagflation.
[3] cfr. U. Paolucci, «La disoccupazione crescente: un problema senza soluzione», DMD’ - Problemi del Socialismo nel XXI secolo, n.7, Luglio 2013
[4] Cfr. P. Krugman, «Come convivere (a lungo) con la depressione economica», La Repubblica, 2 dicembre 2013