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Il recente consiglio direttivo della Bce, sebbene abbia in gran parte deluso le aspettative dei paesi il cui debito sovrano è nel mirino della speculazione e di coloro che aspettavano il via libera alla Bce affinché potesse, seppure tramite il fondo salva-stati (Efes - Ems) comprare i titoli del debito dei paesi membri, è comunque destinato a segnare un punto di svolta nella recente storia europea.
Infatti, i suoi componenti, tranne la Bundesbank, hanno preso atto che l’euro, senza profonde modifiche al trattato di Maastricht, non potrà avere vita lunga e da strumento per una maggiore integrazione economica e politica- come era nelle intenzioni dei suoi artefici- rischia di trasformarsi in un vero e proprio pomo della discordia.
Un esempio. La Bce ha fissato per tutta l’eurozona il tasso di sconto allo 0,75 per cento; ma mentre Germania, Olanda, Austria e perfino il Belgio - che ha un debito pubblico di poco inferiore a quello italiano- emettono i titoli del loro debito pubblico a tassi negativi[1], Italia e Spagna -per non dire Grecia, Portogallo e Irlanda - sui loro titoli pagano tassi tra il 6 e l’8%. Secondo uno studio della Bremer Landesbank, negli ultimi trenta mesi, grazie a questa distorsione, la Germania avrebbe risparmiato qualcosa come 60 miliardi di euro per minori oneri sul servizio del suo debito.
Inoltre, poiché lo spread fra i tassi sui diversi titoli del debito pubblico si riverbera inevitabilmente su tutto il mercato del credito, anche le imprese dei paesi più indebitati, per finanziarsi, pagano tassi di interesse quattro, cinque volte maggiori delle loro concorrenti dei paesi meno indebitati subendo così un gap competitivo incolmabile.
Comunque, nonostante i vantaggi che ne derivano per la Germania, non sfugge neppure a Shaeuble che qualcosa non va nell’attuale stato delle cose: “Se – ha dichiarato in una recente intervista- la Germania alle aste dei bund riceve denaro praticamente gratis - è segno di una profonda insicurezza.”[2]
Alla lunga, quindi, la moneta unica, risultando sempre più vantaggiosa per alcuni e una vera e propria dannazione per altri, rischia di trasformarsi in una polveriera pronta ad esplodere al primo stormir di fronde.
Il direttivo della Bce ne ha preso ufficialmente atto mettendo i governi dei paesi dell’eurozona spalle al muro: o si cambia l’assetto istituzionale dell’eurozona e si danno alla Bce gli stessi poteri che hanno tutte le banche centrali oppure il banco salta con conseguenze incalcolabili per tutti.
Questa presa di posizione ha provocato la dura reazione del cosiddetto fronte dei falchi con in testa la Banca centrale tedesca. Per costoro, un’eventuale modifica del suo attuale assetto istituzionale, spalancando le porte alla messa in comune del debito, comprometterebbe la stabilità economico-finanziaria anche dei paesi con i conti in ordine.
Falchi e false colombe
Questa contrapposizione ha suggerito ai media la metafora secondo cui ci sarebbe un fronte dei falchi del rigore contrapposto al fronte delle colombe. Ma si tratta di una rappresentazione fuorviante perché in realtà, da un punto di vista squisitamente di classe, la distanza fra le due fazioni è più piccola di quanto la rappresentazione mediatica lasci supporre.
Per averne conferma basta spulciare fra le carte della Bce che, secondo la metafora di cui sopra, sarebbe la capofila del fronte delle colombe.
Nel suo bollettino mensile, reso pubblico il 12 luglio scorso, ecco cosa, fra l’altro, essa consiglia ai governi dell’eurozona: “ Incoraggiare la flessibilità dei mercati del lavoro e la moderazione salariale, in modo da agevolare la riallocazione settoriale dei lavoratori in esubero, favorire la creazione di posti di lavoro e ridurre così la disoccupazione.” In altre parole, si dice ai governi che la disoccupazione nell’eurozona è dovuta al fatto che i salari sono ancora troppo alti e che se la si vuole contenere bisogna smantellare quel che resta della contrattazione collettiva a favore di quella individuale. E infatti, affinché non resti ombra di dubbio, nello stesso bollettino si precisa: ” In vari paesi la correzione al ribasso dei salari è stata modesta, e ciò malgrado l’aumento della disoccupazione, a indicazione della necessità di ulteriori riforme che favoriscano la flessibilità dei salari”[3].
Se queste sono colombe deve esservi stata una qualche mutazione genetica che, pur conservandone l’aspetto, le ha, di fatto, mutate in vere e proprie sanguisughe.
E allora qual è la vera posta in gioco?
Quando si dice Bundesbank non ci si può riferire alla Germania come se fosse un blocco di interessi omogeneo, in realtà la linea che separa i falchi dalle colombe taglia trasversalmente tutti i paesi dell’eurozona e più di ogni altro la stessa Germania.
L’euro sin dalla sua nascita, in quanto moneta unica di paesi diversi e con interessi non sempre coincidenti, ha sempre, nel contempo, unito e diviso. All’inizio a unire è stato il prevalente interesse a limitare lo strapotere del dollaro.[4] Non fu per caso, checché ne dicano i rigoristi di oggi, che a volerlo fu soprattutto la Germania dell’allora cancelliere Kohl che vi intravide, insieme ai non pochi vantaggi economici, la via maestra per restituire alla Germania unificata un peso politico almeno pari a quello economico e poter così sedere, nel consesso internazionale, alla pari con le maggiori potenze imperialistiche.
La posta in gioco
Per effetto della crisi, il mercato europeo, in particolar modo per alcuni grandi conglomerati tedeschi, è divenuto troppo piccolo. Infatti, a seguito dei processi di mondializzazione economico-finanziaria la competizione si svolge, ormai, su scala globale e per vincere bisogna mettere in campo, insieme a un costo del lavoro molto basso, anche la capacità di realizzare cospicui extraprofitti nonché altrettanto cospicue rendite finanziarie.
Per questi conglomerati, quindi, una politica monetaria che favorisca il processo di riduzione dei salari fino alla completa eliminazione di quello indiretto ( pensioni, assistenza sanitaria, sussidi alla disoccupazione ecc.) e i processi di concentrazione e centralizzazione dei capitali su scala la più ampia possibile ha grande valenza strategica.
L’attuale politica della Bce, nella misura in cui costringe gli stati a contrarre la spesa pubblica e a tagliare stipendi, pensioni e salari e, innalzando il costo del loro finanziamento, soffoca le imprese meno competitive - peraltro localizzate soprattutto nei paesi più indebitati- è sicuramente la più confacente ai loro interessi. Comprendendo al loro interno anche grandi colossi bancari che realizzano enormi profitti speculando sui differenziali dei tassi di interesse sui titoli del debito pubblico denominati in euro, un intervento della Bce, mirato a contenere gli spread fra i diversi titoli costituirebbe, di fatto, un attacco diretto ai loro attivi di bilancio.
Nella loro visione, la Ue si configura come per gli Usa l’America Latina: il loro orticello di casa.
Nondimeno la Germania da sola non è l’equivalente degli Usa e tuttora la gran parte dei surplus della sua bilancia commerciale provengono dalle esportazioni verso gli altri paesi della Ue.
Se anche Italia e Spagna dovessero essere sottoposte alle stesse condizioni imposte dalla Troika alla Grecia, il mercato interno della zona Ue sarebbe ineluttabilmente destinato a una contrazione così rapida e violenta che non potrebbe non ripercuotersi anche sull’export e sull’intero sistema economico-finanziario tedesco.
Ne derivano, quindi, spinte di segno opposte che passano trasversalmente non solo i diversi paesi dell’Eurozona e in particolare la Germania, ma anche i diversi centri di potere e le stesse forze politiche sia al governo che all’opposizione.
Così se il vicecancelliere liberale Roesenberg dichiara pubblicamente che è favorevole alla fuoriuscita della Grecia dall’euro, facendo salire alle stelle lo spread fra i titoli pubblici spagnoli e italiani e quelli tedeschi, ecco Wolfang Kubicki, esponente di rilievo del suo stesso partito ma espressione delle grandi imprese industriali del nord, lanciare l’appello a: ”Dotarsi subito del bazooka, cioè una licenza bancaria al futuro meccanismo salvastati europeo” e il ministro delle Finanze, Shaeuble, ricordargli che: “ nessun altro paese dell’eurozona trae tanti vantaggi dall’euro come la Germania”[5]. E Karl Lamers - esponente di spicco della Cdu, il partito di maggioranza, e a suo tempo, insieme a Kohl e a Shaeuble, fra i più convinti sostenitori dell’euro- accusare la Bundesbank di operare contro gli interessi della stessa Germania: “Il dogmatismo della Bundesbank è pericoloso per la Germania e per l’Europa… La Bundesbank a volte mi dà l’impressione di non aver ancora digerito appieno la sua riduzione di ruolo con la nascita della Bce.”[6] E non deve aver torto visto che il suo presidente, Weidmann, reclama per la sua banca il diritto di veto sull’operato della Bce.
Due fronti se non del tutto contrapposti, espressione, però, di istanze alquanto divergenti. Da un lato, la consapevolezza che l’attuale assetto economico-finanziario, politico e istituzionale dell’eurozona non può reggere a lungo l’urto di una crisi che si aggrava ogni giorno di più, spinge a una maggiore integrazione; dall’altro, una maggiore integrazione, implicando anche la ridefinizione di nuove gerarchie e di nuove catene di comando, accentua enormemente lo scontro tutto interborghese per occupare le posizioni più vantaggiose. L’esito è tutt’altro che scontato e non è affatto esclusa la possibilità che l’intera costruzione europea vada in frantumi. In tal caso anche il ruolo della Germania si ridimensionerebbe come avverte l’ex ministro degli esteri tedesco Joschka Fischer che ha recentemente dichiarato: “ Possiamo (gli europei - n.d.r) giocare un ruolo nella politica mondiale solo agendo insieme. Chi pensa che la Germania possa vivere come una grande Svizzera sembra un bue che aspetta sognando di essere portato dal macellaio”[7].
In passato, è prevalso l’interesse comune a contenere lo strapotere del dollaro; prevarrà ancora o prevarranno le spinte centrifughe? Nulla, allo stato delle cose, può essere escluso. Forse capiremo qualcosa di più già il 12 settembre prossimo, quando la Corte di Karlsruhe si riunirà per giudicare la compatibilità del nuovo fondo salva-stati con la costituzione tedesca.
Intanto, al macello c’è già finito il proletariato europeo come peraltro quello di tutto il mondo.
Giorgio Paolucci
[1] Il 6 agosto u.s. il tesoro olandese ha collocato titoli a tre e sette mesi per 2,5 miliardi di euro al tasso negativo dello 0,05 per cento inflazione esclusa. In altre parole, chi ha sotto scritto queste obbligazioni lo ha fatto in perdita mentre il tesoro olandese ha realizzato profitti di circa un milione di euro.
[2] Madrid non ha bisogna d’aiuti – Intervista rilasciata al settimanale tedesco Welt Am Sonntag e pubblicata in Italia da La Repubblica del 29/7/ 2012. A nostro avviso, però, il fenomeno si giustifica solo in parte con l’insicurezza che regna sui mercati finanziari europei. Se così fosse, non essendoci ormai più limiti alla circolazione dei capitali su scala mondiale, non si spiega perché questi capitali non vengano investiti, per esempio, nei titoli azionari delle imprese industriali dei paesi emergenti. In realtà gli agenti capitalisti optano per mantenere liquidi i loro capitali perché non intravedono, per una parte crescente di essi, alcun possibilità di investirli con profitto. E’ la conferma, come da tempo sosteniamo, che la crisi è mondiale e affonda le sue radici nelle contraddizione strutturali del modo di produzione capitalistico.
[3] Cit. tratta da: F. Piccioni - E ora “meno salario per tutti” – Il Manifesto del n13/07/2012.
[4] Al riguardo vedi su questo stesso sito: L’euro della discordia.
[5] Intervista cit.- .
[6] Intervista rilasciata a La repubblica del 28/7/2012.
[7]Intervista rilasciata a La Repubblica del 19.08.2012.