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estratto da “ La crisi del capitalismo – Il crollo di Wall Street” Ed. Ist. Onorato Damen – Giugno 2009.[EN]
Sono sempre più evidenti i segnali che gli Stati Uniti abbiano ormai imboccato la strada che conduce alla recessione economica. Non sono le solite Cassandre di turno ad annunciarlo, ma lo confermano inequivocabilmente gli ultimi dati statistici resi noti dall’amministrazione Bush.
Nel primo trimestre del 2007, per la prima volta dopo tre decenni, gli Stati Uniti hanno fatto registrare un tasso di crescita del prodotto interno lordo nettamente più basso rispetto a quello dei paesi dell’area euro. Infatti, mentre nei paesi del vecchio continente la crescita economica fatta registrare in questi primi mesi è stata mediamente del 2,5%, l’economia americana è cresciuta solo di un misero 0,6%. Anche se tecnicamente non possiamo ancora definire l’attuale congiuntura statunitense come una vera e propria recessione, ossia una crescita negativa, il forte rallentamento nella crescita del Pil, per le caratteristiche peculiari della sua struttura economica basata sulla continua crescita dei consumi interni, pongono gli Stati Uniti in una situazione alquanto complicata. In altre parole l’area dell’euro sta crescendo in questi primi mesi del 2007 ad un ritmo quattro volte superiore rispetto all’arrugginita locomotiva americana. L’inversione di tendenza nel trend di crescita delle due aree è stata molto brusca, visto che soltanto lo scorso anno mentre gli Stati Uniti hanno fatto registrare nel primo trimestre un incremento del Pil del 5,6%, nei paesi dell’euro nello stesso periodo l’incremento ha raggiunto a stento quota 2%, con paesi come l’Italia dove la crescita è stata ancor più ridotta.
Non è solo la ridotta crescita del Pil a indurre al pessimismo le previsioni sul futuro dell’economia statunitense; altri indicatori puntano la loro freccia decisamente verso il basso. In particolare, il settore immobiliare è al centro di una grossa bolla speculativa che rischia di esplodere da un momento all’altro mandando in frantumi l’intera struttura bancaria e finanziaria statunitense. Infatti, la continua ascesa dei valori immobiliari ha permesso alle grandi banche e istituzioni finanziarie del paese di valorizzare il proprio patrimonio accumulando enormi profitti in questi ultimi 15 anni. Gli stessi consumatori americani si trovano nella complicata situazione di aver contratto dei mutui, per l’acquisto di una casa, il cui valore potrebbe dimezzarsi da un momento all’altro. In sostanza milioni di statunitensi si sono indebitati, per esempio, per un importo di 200 mila dollari contraendo un mutuo per l’acquisto della casa, ma ora la stessa rischia di valere soltanto la metà. La crescita del mercato immobiliare è nello stesso tempo servita ad alimentare i consumi di quegli statunitensi che oggi sono indebitati fino al collo. Sempre nel primo trimestre del 2007, per la prima volta dopo decenni, gli investimenti in abitazioni sono crollati del 17%, dimostrando in maniera netta che il valore degli immobili potrebbe iniziare a calare da un momento all’altro con tutte le conseguenze che tale crollo comporta.
Le difficoltà congiunturali vanno ad aggravare tutte quelle contraddizioni strutturali dell’economia statunitense che rischiano di far perdere o quanto meno veder ridimensionato il primato imperialistico degli Stati Uniti. Se recessione economica ci sarà questa avrà l’effetto di trascinare nel vortice della crisi l’intera economia mondiale alimentando in tal modo le spinte alla guerra che proprio dalle dinamiche del moderno imperialismo traggono la loro origine.
In un mare di debiti
Se dovessimo dipingere un quadro con il quale descrivere simbolicamente la reale condizione degli Stati Uniti non avremmo difficoltà a riempire la tela con la figura di una distesa oceanica rappresentante il mare di debiti che sommerge l’economia americana. Com’è possibile che la più grande potenza imperialistica al mondo, l’impero, per usare un termine caro a Toni Negri ed ai suoi numerosi accoliti, stia di fatto affogando nei debiti contratti in questi ultimi tre decenni? Capire quest’apparente contraddizione, l’essere nello stesso tempo il maggior paese debitore al mondo e contestualmente la prima potenza imperialistica, significa comprendere le moderne dinamiche dell’imperialismo e i meccanismi di appropriazione parassitaria di plusvalore mediante produzione di capitale fittizio.
Negli ultimi tre anni la situazione debitoria degli Stati Uniti è fortemente peggiorata. Sia il deficit commerciale che quello in conto capitale è aumentato in termini esponenziali in questo periodo. Nel rapporto sullo stato dell’economia mondiale nel 2005 redatto dal Fondo Monetario internazionale, l’ultimo finora disponibile, si può leggere come l’economia americana sia riuscita a mantenere la propria crescita solo grazie ad… un prendere a prestito senza precedenti storici dal resto del mondo. [1]
Nel 2006 il deficit in conto corrente è stato di oltre 900 miliardi di dollari, raggiungendo per la prima volta nella storia del paese il 7% del prodotto interno lordo. Per finanziare tale deficit gli Stati Uniti devono quotidianamente importare cinque miliardi di dollari di capitali. Dal 2003 in soli due anni il rapporto tra il deficit della bilancia in conto corrente e il Pil è aumentato di ben due punti percentuali. Se andiamo a vedere i dati nel medio e lungo periodo relativi alla bilancia commerciale statunitense possiamo osservare come solo alla fine degli anni settanta gli Stati Uniti, nonostante la crisi economica in cui versavano allora, potevano ancora vantare degli attivi nei confronti del resto del mondo. E’ con l’elezione di Reagan che inizia una nuova fase nella politica economica degli Stati Uniti. La crisi economica che aveva colpito l’economia mondiale, ed in maniera particolare quella degli Stati Uniti, aveva imposto un intenso processo di ristrutturazione degli apparati industriali. Lo scopo della ristrutturazione era evidentemente quello di recuperare competitività sui mercati e nello stesso tempo alimentare l’asfittico processo d’accumulazione del capitale, reso sempre più difficoltoso a causa dell’operare della caduta del saggio medio di profitto. In questo contesto gli Stati Uniti, grazie alla funzione dominante svolta dal dollaro nell’ambito del sistema monetario internazionale, optano per una scelta diversa rispetto alla stragrande maggioranza degli altri paesi industrializzati. [2]
Interi settori produttivi, che nel passato avevano rappresentato una componente strategica all’interno dell’economia statunitense, vengono di fatto abbandonati non essendosi avviato quel processo di ristrutturazione necessario a rilanciarli nel panorama internazionale. La borghesia americana, in primo luogo, punta esclusivamente sui settori ad alto contenuto tecnologico e spesso legati al comparto militare e inoltre, per compensare saggi di profitto sempre più bassi, alimenta il processo d’accumulazione attraverso l’espansione delle attività finanziarie.
La liberalizzazione dei capitali, la creazione di nuovi strumenti finanziari altamente speculativi, la privatizzazione di interi settori dell’economia sono state funzionali alla scelta strategica di trasformare gli Stati Uniti in una potenza finanziaria senza uguali al mondo. Da paese industriale con la più elevata capacità tecnologica e produttiva, capace di invadere il mondo con le proprie merci, gli Stati Uniti si sono trasformati nel volgere di pochi decenni in un grosso buco nero dove confluiscono capitali e merci da ogni angolo del mondo. Ma se gli Stati Uniti accumulano deficit commerciali in continua crescita a causa della scarsa competitività delle imprese americane, come avviene il finanziamento di tale deficit? La domanda può sembrare banale ma ci aiuta a capire il meccanismo imperialistico messo in atto dalla borghesia statunitense. Il deficit della bilancia commerciale viene compensato attraverso l’enorme massa di capitali provenienti da ogni angolo del pianeta che vengono investiti nella borsa di New York oppure in Buoni del tesoro americano. Per spiegare in termini ancor più elementari tale processo possiamo dire che gli Stati Uniti ottengono dal resto del mondo non solo le merci, accumulando in tal modo enormi deficit commerciali, ma anche i capitali necessari per pagare le stesse merci. Per gli Stati Uniti la conseguenza inevitabile di una tale politica economica è stata che, a fianco ad un enorme deficit commerciale, si è venuto a creare, negli anni, un parallelo deficit nel bilancio federale ed un sempre più crescente debito con l’estero.
Se si sommano i debiti contratti dallo stato, dalle imprese e dalle famiglie la cifre che salta fuori è astronomica, oltre 30 mila miliardi di dollari, ben tre volte il prodotto interno lordo degli Stati Uniti d’America.
Imperialismo e dollaro
Tutto questo è potuto accadere solo ed esclusivamente grazie al dominio imperialistico statunitense reso a tutt’oggi possibile grazie al ruolo del dollaro nell’economia mondiale ed alla forza del proprio apparato militare capace di intervenire in ogni angolo del pianeta per tutelare gli interessi americani.
Il ruolo egemone del dollaro è stato sancito nei famosi accordi di Bretton Woods nel lontano 1944. Quando le sorti della guerra sembravano volgere a favore delle potenze “democratiche”, gli Stati Uniti, l’Inghilterra e pochi altri paesi organizzarono nella piccola cittadina americana una conferenza nella quale discutere l’assetto del futuro sistema monetario internazionale che sarebbe stato utilizzato alla fine delle operazioni belliche. Nel corso della discussione è stata presa la decisione di approvare il progetto del rappresentante americano, il quale prevedeva che il sistema monetario internazionale fosse basato sul dollaro. Con quegli accordi si è stabilito che l’unica moneta convertibile in oro fosse il dollaro, secondo una parità fissa di 35 dollari per un oncia di oro; in secondo luogo, la moneta americana si rapportava con tutte le altre monete secondo un rapporto di cambio semi rigido. Giusto per fare un esempio, gli accordi di Bretton Woods stabilivano che il dollaro si potesse scambiare con la lira italiana nel rapporto di 1 a 600, e tale rapporto di cambio poteva oscillare nell’ambito di una fascia del 2%. Se il valore delle monete si discostava dalla parità fissata era compito delle banche centrali intervenire per ripristinare la situazione di equilibrio. Come si può facilmente arguire, è grazie a questo meccanismo che il dollaro ha preso ad assumere la stessa funzione che in passato svolgeva l’oro. Dal “gold standard”, sistema monetario basato sulla centralità dell’oro, si passa al cosiddetto “dollar standard”, basato sulla centralità della moneta americana. La decisione di assumere il dollaro come moneta termometro nel sistema valutario internazionale è determinata dal fatto che l’economia statunitense ha un peso predominante nel contesto dell’intera economia mondiale. Alla fine degli anni 40 il prodotto interno lordo degli Stati Uniti rappresentava quasi i due terzi dell’intera economia mondiale per cui è stato del tutto conseguenziale che la propria moneta svolgesse la funzione assegnatale. Con gli accordi di Bretton Woods il dollaro assurge al ruolo di moneta, la più importante, nelle transazioni commerciali internazionali e nella costituzione delle riserve valutarie delle banche centrali di tutti i paesi dell’area occidentale. [3]
La crisi economica dei primissimi anni settanta travolge gli accordi di Bretton Woods; il dollaro in un primo momento si svaluta nei confronti dell’oro e successivamente viene dichiarato inconvertibile dall’amministrazione Nixon. Nel 1971 finisce l’era dei cambi fissi ed inizia quella dei cambi flessibili; a tutte le monete è dato di poter vedere oscillare il proprio valore, liberamente, nei confronti delle altre monete senza che le relative banche centrali abbiano l’obbligo di intervenire. Se è vero che i cambi non sono più fissati da alcun accordo e che la Federal Reserve non ha più il dovere di convertire in oro i dollari stampati e messi in circolazione, la moneta statunitense continua a svolgere la funzione di moneta più importante nel contesto valutario e finanziario internazionale. Il dollaro, nonostante il ridimensionamento dell’economia statunitense nell’ambito di quello internazionale, ormai rappresenta solo il 20% del Pil mondiale [4], proprio in virtù del fatto di essere la moneta più utilizzata negli scambi commerciali internazionali, in primo luogo in quello delle materie prime e del petrolio in particolare nonché di rappresentare la principale divisa nelle riserve valutarie delle banche centrali, ha mantenuto quel ruolo che gli era stato assegnato dagli accordi del 1944.
La rottura dei trattati di Bretton Woods non segna quindi la fine dell’egemonia del dollaro, anzi il suo ruolo centrale è altresì esaltato dal processo di finanziarizzazione e di indebitamento dell’economia statunitense. L’espansione delle attività finanziarie, la creazione di capitale fittizio, la crescita abnorme degli indici della borsa di New York hanno rafforzato il ruolo centrale svolto dal dollaro nel panorama mondiale. Una massa enorme di capitali a scala internazionale, alla continua ricerca di remunerazioni, sono stati attratti dalla forza centripeta del dollaro ed investiti in attività finanziarie ed altamente speculative denominate nella moneta americana. Tutto questo è accaduto non per il fatto che i tassi d’interesse praticati negli Stati Uniti fossero più elevati rispetto al resto del mondo, ma per la funzione giocata dal dollaro negli scambi commerciali e nella costituzione delle riserve valutarie delle banche centrali. Un processo autoali-mentatosi grazie alla forza del dollaro che, da un lato, ha permesso agli Stati Uniti di imporre al resto del mondo un vero e proprio salasso di ricchezza e, dall’altro, a creare i presupposti affinché tale dominio imperialistico sia messo in discussione dalle nuove potenze emergenti.
Dollaro, rendita petrolifera e riserve valutarie
Uno dei motivi che ha permesso al dollaro di mantenere la propria funzione di principale moneta nel panorama internazionale anche dopo la rottura dei trattati di Bretton Woods è stato il suo utilizzo negli scambi commerciali internazionali delle materie prime, in particolar modo del petrolio. Tale ruolo non è stata una scelta delle libere forze del mercato, come è stato avanzato dai teorici del liberismo economico, ma il frutto di una scelta lungimirante e strategica per gli interessi della borghesia statunitense. Senza riprendere in questa sede gli accordi che hanno segnato la storia del mercato petrolifero dell’immediato secondo dopoguerra, basta ricordare le vicende diplomatiche del 1973. All’indomani dell’aumento vertiginoso del prezzo del petrolio, i paesi dell’Opec avevano paventato l’idea di fatturare il greggio utilizzando un paniere di monete che alla lunga avrebbe aperto la strada alla sostituzione del dollaro nelle transazioni dell’oro nero. A questa semplice ipotesi la risposta statunitense è stata di una durezza diplomatica netta: il presidente Nixon ha immediatamente inviato in Arabia Saudita il ministro del Tesoro per impedire che la soluzione prospettata potesse prender corpo. In cambio del mantenimento dell’utilizzo del dollaro i sauditi e altri paesi aderenti all’Opec ottennero dagli Stati Uniti dei vantaggi nelle condizioni di investimento dei capitali. Si avviò in tal modo il mercato dei petro-dollari, ossia capitali formatisi grazie alla vendita del petrolio e che venivano, successivamente, investiti negli Stati Uniti.
Il semplice fatto che il petrolio sia venduto sui diversi mercati internazionali utilizzando esclusivamente dollari attribuisce agli Stati Uniti una rendita di dimensioni enormi. Infatti, la Federal Reserve può stampare una quantità di carta moneta che non circolerà sul territorio statunitense ma andrà a soddisfare la richiesta di dollari derivante dal fatto che il petrolio è venduto utilizzando il biglietto verde. Per gli Usa i vantaggi connessi a questo meccanismo sono duplici: da un lato possono stampare banconote in una quantità maggiore rispetto al fabbisogno interno senza, in tal modo, accendere spinte inflazionistiche, dall’altro possono ottenere dal resto del mondo merci e/o capitali semplicemente stampando dollari. E’ per via di tutto ciò che nelle mani degli Stati Uniti vada a configurarsi una leva di comando derivante dal fatto che la quantità di moneta che loro possono stampare, ottenendo quindi in cambio merci e/o capitali dall’estero, dipende anche dal prezzo del petrolio. Infatti, entro certi parametri, gli Stati Uniti possono determinare un apprezzamento del dollaro, non solo attraverso un aumento del tasso d’interesse, ma alterando il prezzo del petrolio sui mercati mondiali. Ed è quello che in questi ultimi trent’anni sistematicamente hanno compiuto gli Stati Uniti, attraverso le loro azioni belliche in ogni angolo del pianeta dove sgorga una sola goccia di petrolio.
Basta un semplice dato per comprendere l’entità della rendita statunitense derivante dal fatto che il petrolio sia venduto in dollari: le sole esportazioni russe di greggio attribuiscono agli stati Uniti una rendita di ben 88 miliardi di dollari all’anno: in questo consiste il potere di signoraggio del dollaro. Per rimanere al caso concreto, sopra riportato, i russi estraggono e vendono petrolio ed ottengono in cambio del denaro; altri paesi per acquistare il petrolio russo devono prima acquistare dollari dagli Stati Uniti e successivamente dare ai petrolieri russi i relativi dollari. In questo scambio, dove gli Stati Uniti non dovrebbero metterci il naso, chi ottiene i guadagni maggiori, sotto forma di rendita, sono proprio gli Usa che per il semplice fatto che il petrolio si venda in dollari, stampano carta moneta ed ottengono in cambio dal resto del mondo merci e capitali in dimensioni tali da non trovare riscontro alcuno nella storia del capitalismo. Il fatto che gli Stati Uniti debbano oggi importare petrolio per un 70% del loro fabbisogno non ha per niente mutato i loro interessi imperialistici nei confronti della determinazione del prezzo del petrolio; solo chi legge le nuove dinamiche dell’imperialismo come se fossero le vecchie ed ormai stantie politiche coloniali può pensare che gli Stati Uniti abbiano l’interesse ad avere un prezzo più basso.
Gli Usa non hanno alcun interesse ad imporre un prezzo del petrolio tanto più basso quanto maggiore è la quota di greggio che essi devono importare, in quanto per i capitalisti americani, così come per i concorrenti, il prezzo del petrolio rappresenta un costo che sarà trasferito nella merce da produrre. Ora dato che il prezzo del petrolio è uguale per tutti i capitalisti del mondo, in quanto il mercato è unificato su scala internazionale, il costo del petrolio incide in egual misura a prescindere dal suo prezzo in termini assoluti. Per essere ancor più espliciti possiamo schematicamente affermare che se da un punto di vista industriale il prezzo del petrolio non incide sulla competitività delle imprese statunitensi, dal un punto di vista della rendita petrolifera la possibilità di poter determinare un prezzo più elevato rispetto a quello che si formerebbe in base alle sole forze del mercato attribuisce al capitalismo statunitense vantaggi enormi, sia in termini di rendita petrolifera che nella capacità di attrarre capitali dall’estero.
La forza del dollaro trova nelle riserve valutarie delle banche centrali un altro puntello fondamentale del suo ruolo dominante. Per il semplice fatto di essere utilizzata come principale fonte di riserva dalle banche centrali ha accentuato quel ruolo di moneta di riferimento nel contesto valutario internazionale. Negli anni successivi alla rottura dei trattati di Bretton Woods, le più importanti banche centrali del mondo hanno continuato a rappresentare in dollari le loro riserve bancarie, contribuendo ad alimentare l’apprezzamento del biglietto verde, nonostante la sua dichiarata inconvertibilità. Il fatto che il dollaro venga utilizzato negli scambi commerciali e che costituisca la divisa in cui vengono denominate le riserve delle banche centrali non devono essere visti come fattori, tra di loro distinti, che contribuiscono a sostenere il privilegio della moneta americana, bensì vanno considerati come due fattori che, interagendo, garantiscono agli Stati Uniti un’elevata rendita finanziaria. Se il dollaro rappresenta la moneta più importante, per quel che attiene le riserve valutarie, ciò è dovuto in gran parte al ruolo che lo stesso gioca negli scambi internazionali.
Con la crescita del debito estero è aumentata anche la massa di dollari accumulati nelle riserve valutarie delle più importanti banche centrali del mondo. In maniera particolare Giappone e Cina hanno nelle rispettive banche centrali una massa di dollari tale da costituire un potenziale pericolo per la stabilità della moneta americana e per la sua attuale funzione imperialistica. Infatti se da un lato i due paesi possiedono nelle proprie casse una quantità di dollari che li obbliga di fatto a non cederli per evitare un apprezzamento delle loro monete e quindi mettere in crisi le proprie esportazioni verso gli Stati Uniti, dall’altro è evidente che le leve del comando nella gestione della massa monetaria denominata in dollari non è più nelle mani degli Stati Uniti ma in parte si è trasferita a Tokio e Pechino. Cosa potrebbero fare gli Stati Uniti per opporsi ad una diversa composizione delle riserve valutarie di Cina e Giappone ed evitare in tal modo una svalutazione del dollaro sui mercati valutari? E nello stesso tempo quali pericoli corrono gli Stati Uniti rispetto al tentativo di alcuni paesi produttori di petrolio di vendere il greggio in valute diverse rispetto al dollaro? E soprattutto quali potrebbero essere le reazioni dell’imperia-lismo statunitense?
Le radici economiche della guerra permanente
Dietro la montagna di debiti che sommerge gli Stati Uniti si affacciano quindi all’orizzonte anche altri fattori che accelerano le contraddizioni e i problemi dell’economia americana. Stiamo vivendo una fase storica particolarmente complessa che richiede un attento utilizzo della critica dell’economia politica e del materialismo storico per capire come le contraddizioni della più importante economia al mondo stiano per determinare una crisi di dimensioni planetarie che rischia di far scivolare l’intera umanità verso un mondo in cui la miseria e la guerra siano sempre di più una costante del moderno capitalismo.
Per il marxismo rivoluzionario la guerra è sempre il prodotto delle contraddizioni e della crisi economica del capitale. Da quando il capitalismo rappresenta la forma economica e sociale dominante sul scala internazionale, le guerre sono combattute in nome e per conto degli interessi del capitale. La guerra è sempre guerra del capitale combattuta contro gli interessi del proletariato. Queste dichiarazioni di principio, ovviamente sempre valide per tutto l’arco della parabola storica del capitalismo, non ci devono autorizzare a riproporre scolasticamente le elaborazioni teoriche messe a punto dal movimento rivoluzionario nel corso della propria centenaria storia. Giusto per fare un esempio, che ovviamente vuol rappresentare solo un primo abbozzo di riflessione sull’argomento, è utilizzabile oggi lo schema teorico di Lenin elaborato nei primi anni del ventesimo secolo per spiegare le radici economiche della guerra? Per il rivoluzionario russo la guerra è imperialista in quanto le grandi potenze, con l’aggravarsi della crisi economica, sono costrette a ricorrere alla guerra per conquistare gli spazi necessari dove esportare i capitali che non trovano in patria un’adeguata remunerazione.
Giustamente faceva notare Lenin l’imperialismo non è una politica della borghesia ma è il prodotto del processo d’accumulazione che impone al capitale di allargare incessantemente la propria base riproduttiva.
La guerra imperialistica s’inserisce drammaticamente nel ciclo del capitale: espansione, crisi e guerra sono i tre diversi momenti di ogni ciclo d’accumulazione che ha caratterizzato la vita del capitalismo nella in questa fase imperialistica. Essa, inoltre, concretizzandosi, in ultima istanza, nella distruzione dei capitali in eccesso consente il ripristino delle condizioni economiche e politiche più favorevoli per avviare su scala sempre più allargata un nuovo ciclo d’accumulazione. Questa è la ragione per cui si è riproposta su scala mondiale in coincidenza con le crisi del primo ciclo e secondo ciclo di accumulazione; si è cioè riproposta a sua volta con andamento ciclico.
Nell’era del dominio del capitale fittizio la guerra è diventata un fattore permanente in quanto permanenti sono i motivi che spingono le potenze imperialistiche a scatenare conflitti per difendere i propri interessi di classe.
Come abbiamo cercato di spiegare in tutta la prima parte di questo nostro breve lavoro, la borghesia statunitense s’accaparra un’elevatissima quota di rendita su scala internazionale grazie al ruolo svolto dal dollaro nell’ambito dell’economia mondiale.
Questa spostamento di plusvalore verso gli Stati Uniti è il tributo che gli altri paesi devono pagare all’imperialismo statunitense ed è un prezzo che diventa sempre più alto col contemporaneo aggravarsi della crisi economica. In un contesto in cui a dominare sono le forme dell’appropria-zione parassitaria mediante la produzione di capitale fittizio e in cui anche altre potenze imperialistiche, vedi l’Europa dell’euro, cercano di porsi sullo stesso terreno degli Stati Uniti, la guerra è diventata una costante del modo di essere del capitale.
Solo con la guerra l’imperialismo statunitense può pensare di ostacolare l’ascesa delle potenze rivali e continuare ad estorcere plusvalore da ogni angolo del pianeta. Le spinte alla guerra sono alimentate da un lato dall’imperialismo statunitense per continuare a vivere di rendita, ma anche dagli altri predoni imperialisti (leggi Europa, Russia, Cina e Giappone) che vorrebbero partecipare al banchetto della spartizione con una quota sempre più grande.
La guerra non è più combattuta per conquistare aree dove esportare capitale finanziario in eccesso, così come è avvenuto per tutta la fase imperialistica precedente, ma trova nella capacità di mantenere il controllo della produzione di capitale fittizio il principale motore.
Gli Stati Uniti sono la prima potenza imperialistica e nello stesso tempo importano capitali. Se dovessimo utilizzare i vecchi schemi di Lenin, secondo i quali il peso imperialistico si misura in relazione alla capacità di esportare capitale finanziario, gli Stati Uniti risulterebbero dominati anziché dominanti.
La guerra non rappresenta più solo un momento nel ciclo economico, così come avveniva quando a dominare erano le forme imperialistiche basate esclusivamente sull’esportazione di capitale finanziario, ma è diventata una costante del modo di manifestarsi del capitalismo nell’attuale fase dell’imperialismo in quanto il mantenimento del controllo della produzione di capitale fittizio richiede costantemente l’utilizzo della forza.
In un contesto in cui il dominio del dollaro è seriamente minacciato dall’affermarsi dell’euro come nuova moneta di riferimento negli scambi commerciali internazionali e nelle riserve valutarie, e nuove potenze si affacciano nell’agone imperialistico, la guerra permanente non può che trovare nuova linfa ed allargare i propri fronti anche in aree che finora sono state risparmiate.
Lorenzo Procopio
Note
[1] Riportato da Gian Paolo Caselli nell’articolo pubblicato su Limes 1/2007 “E’ l’economia, stupido! Perché l’America non può farsi Impero”.
[2] E’ l’Inghilterra della lady di ferro M. Thatcher che inaugura quella nuova fase che prenderà il nome di neoliberalismo. Sull’argomento vedi l’interessante volume di D. Harvey: Breve storia del neoliberalismo — Ed. Il Saggiatore 2007.
[3] Una simile funzione è stata svolta dal rublo nei paese del patto di Varsavia.
[4] Dato riportato da Gian Paolo Caselli nell’articolo pubblicato su Limes 1/2007 “E’ l’economia, stupido! Perché l’America non può farsi Impero”.