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Con il
Dicono che si tratta di sacrifici necessari per salvare l’euro, ormai sull’orlo dell’abisso, perché la sua fine sarebbe l’apocalisse per tutti, ricchi e poveri; quindi via libera ai tagli incuranti perfino del rischio che l’inevitabile ulteriore contrazione della domanda, potendo determinare una riduzione, nella crescita del Pil, superiore alla crescita dei saggi di interessi, possa seriamente innescare un processo di crescita automatica proprio di quel debito che si dice di voler ridurre a tutti i costi. All’unanimità gli economisti di qualsiasi scuola e pensiero economico, seppure con diverse sfumature, concordano sulla necessità di questa stretta ritenuta necessaria per rompere l’accerchiamento in cui la speculazione finanziaria ha costretto la moneta unica appesantita dal cosiddetto debito sovrano degli stati della comunità. Una lettura più attenta di alcuni dati ci dice che le questioni sul tappeto sono più complesse. Intanto, non si capisce perché l’euro corra tutti questi rischi oggi che la sua quotazione contro dollaro oscilla fra 1,20 e 1,25 mentre nessuno se ne lamentava quando, subito dopo la sua nascita, scese da
La fine del keynesismo
Si ricorderà che all’erompere della crisi la quasi totalità degli economisti e del mondo politico internazionale ne individuò la causa nell’eccessiva crescita della sfera finanziaria e della speculazione operata dal sistema bancario sui famigerati subprime. Nonostante ciò fu deciso di salvare le banche per evitare che il loro fallimento compromettesse il finanziamento del sistema delle imprese con il rischio che l’intero sistema economico affondasse nel baratro di una crisi di dimensioni epocali. Insomma, lo Stato, salvando le banche, avrebbe rilanciato anche la cosiddetta economia reale. Sarebbe stata poi la conseguente crescita del Pil a consentire il riassorbimento del surplus di debito emesso per finanziare l’intera manovra.
Si è supposto cioè che il meccanismo keynesiano del moltiplicatore[1] potesse operare efficacemente anche se lo Stato anziché investire direttamente in opere pubbliche avesse finanziato il sistema bancario. Quindi, data l’enorme massa di liquidità immessa nel sistema, ci si attendeva una consistente ripresa già per l’ultimo trimestre del 2009 e i primi mesi del 2010. Così non è stato e non certo per colpa della Grecia. Le banche anziché riversare i capitali ottenuti dallo stato nel finanziamento del sistema delle imprese, soprattutto delle medie e piccole, dato il permanere in questo settore di saggi di profitto molto bassi, hanno investito il denaro ricevuto per acquistare i titoli del debito pubblico emessi per finanziare il loro salvataggio, lucrando sulla differenza fra i tassi prossimi allo zero dei finanziamenti ricevuti e quelli molto più alti pagati dallo stato sulle nuove obbligazioni da esso emesse. La manovra di salvataggio anziché favorire la ripresa economica, si è risolta quindi in una gigantesca partita di giro grazie alla quale il debito privato delle banche è stato trasferito allo Stato e, in ultima istanza, alla collettività e in particolar modo al mondo del lavoro.
Né poteva essere diversamente. Le politiche anticicliche di ispirazione keynesiana funzionano – se e quando funzionano- solo se esiste nel mondo della produzione delle merci una reale possibilità di ricostituzione di saggi di profitto sufficientemente remunerativi. Nell’attuale fase del capitalismo questa condizione non esiste. Infatti, la crisi, ancor prima che finanziaria, è strutturale, nel senso che a determinarla è il permanere da lungo tempo, nel settore della produzione delle merci, di saggi medi del profitto molto bassi, per cui i capitali tendono a fuggire l’investimento più propriamente produttivo e/o a integrarlo con quello di natura speculativa. [2] Da qui trae origine la crescente divaricazione fra la produzione reale di beni e servizi e quella di capitale finanziario nella forma di capitale fittizio. “A fine 2007 – scrive Luciano Gallino su La repubblica del 25/052010 - il Pil del mondo era stimato in 54 trilioni di dollari; per contro gli attivi finanziari globali ammontavano a più di 240 trilioni, cioè più di quattro volte tanto. Ciò significa che il mondo arriva a produrre, in media, appena 150 miliardi di dollari al giorno, mentre il sistema finanziario può mobilitare ogni giorno parecchi trilioni di dollari per influire sui beni e i servizi che esso produce, sul modo in cui sono distribuiti, sul loro prezzo.” In un contesto così profondamente contraddittorio, per salvare le banche, rilanciare la crescita del Pil e riassorbire il surplus del debito pubblico, più che il moltiplicatore di Keynes ci sarebbe voluta la moltiplicazione dei pani e dei pesci e la compiacenza del buon Gesù.
La svolta, ovvero
In estrema sintesi, la crisi del debito sovrano (il debito degli Stati) era inevitabile e sarebbe esplosa anche senza gli imbrogli del governo greco. A tale proposito, è utile ricordare che Papandreu, subito dopo la sua elezione, informò Bruxelles del reale stato dei conti pubblici del suo paese, ma allora, a cominciare dalla massaia di Berlino, ben consapevole che a fare affari d’oro su quel debito erano innanzitutto le banche tedesche seguite a ruote da quelle francesi e italiane, tutti avevano interesse a buttare acqua su quello che il Manifesto ha brillantemente definito il fuoco greco.
Solo quando si è capito che la ripresa non ci sarebbe stata, ci si è ricordati degli imbrogli della Grecia e il paese ellenico è diventato il capro espiatorio [3] su cui scaricare tutte le responsabilità di questa nuova ondata della crisi mondiale. Lo si è lasciato in balia della speculazione internazionale per cogliere i classici due piccioni con una fava: favorire la svalutazione dell’euro per svalutare il debito e recuperare competitività sui mercati internazionali. Infatti, per un area economica che ha come centro di riferimento un paese,
Dunque, alla svalutazione dell’euro doveva necessariamente accompagnarsi anche un’altrettanto significativa riduzione della domanda interna; da qui i tagli indiscriminati alla spesa pubblica e in particolare ai salari e agli stipendi dei dipendenti pubblici essendo quelli dei lavoratori del settore privato già scarsi e falcidiati dalla disoccupazione. E non è per nulla un caso che già lo scorso 23 gennaio, cioè ancor prima che la crisi greca erompesse in tutta la sua drammaticità, su The Economist si leggeva: “Nel mondo delle imprese ridurre gli effettivi del 10% è moneta corrente. Non vi sono ragioni perché i governi non possano fare lo stesso (…) I salari del settore pubblico possono essere abbassati, tenuto conto della sicurezza dell’impiego (…) Le pensioni del settore pubblico sono decisamente troppo generose …”.[5] E puntualmente tutti i paesi della Ue si sono adeguati.
Avanza il modello cinese
Il presupposto perché questa nuova politica economica abbia successo è che la domanda internazionale riprenda a crescere. Ma se è vero che negli ultimi mesi i paesi cosiddetti emergenti hanno fatto registrare incrementi anche nell’ordine delle due cifre del loro Pil, è anche vero che si tratta di paesi con economie a loro volta strutturate su un consistente surplus della bilancia commerciale. Finora questo surplus, grazie al basso costo del lavoro, è stato ottenuto mediante l’esportazione di merci a scarso contenuto tecnologico e ad alto contenuto di manodopera; infatti,
Quindi, perché la penetrazione in questi mercati, ma anche in quello statunitense, possa avere successo è necessario livellare il costo del lavoro nell’Ue con quello di questi suoi concorrenti. Pertanto i tagli già operati sulla spesa pubblica, stipendi e pensioni sono solo l’inizio di un ben più radicale processo di totale liberalizzazione del mercato del lavoro e di smantellamento di ciò che resta del cosiddetto Stato Sociale nonostante il rischio di una contrazione generalizzata della domanda aggregata e l’attivarsi di forti spinte depressive su scala mondiale con conseguenze ora non del tutto prevedibili. E’ certo, però, che la crisi non è finita e che intanto, sotto i suoi colpi, il cosiddetto modello sociale renano, vanto dell’Europa è miseramente andato in frantumi per essere sostituito da quello cinese. La qualcosa dice tutto sul futuro che il capitalismo sta preparando.
Giorgio Paolucci
Note
[1] Il moltiplicatore è il rapporto tra una variazione, nel sistema economico, della spesa e la variazione che ne consegue sul Pil e sul Reddito Nazionale. La nozione, formulata dall’economista R.F. Kahn nel 1931, fu successivamente sviluppata da J.M. Keynes che, in contrasto con il punto di vista liberista allora dominante, sostenne la necessità, soprattutto nei periodi di recessione, che fosse lo Stato a determinare una variazione nella spesa effettuando investimenti in opere pubbliche finanziate in deficit. Infatti, secondo la teoria del moltiplicatore, l’investimento pubblico, determinando nell’intero sistema economico un aumento dell’occupazione e del reddito di un certo multiplo dell’occupazione e del reddito generati dall’investimento pubblico stesso, avrebbe consentito il superamento della fase recessiva e il riassorbimento del surplus di debito creato per attivare il moltiplicatore. Vale la pena ricordare che nonostante il massiccio intervento dello Stato, la crisi del 1929 fu superata solo grazie alla seconda guerra mondiale.
[2] A tale proposito vedi il capitolo La legge della caduta tendenziale del saggio medio del profitto nel libro La crisi del capitalismo – il crollo di Wall Street - AA.VV. – Ed. Istituto O. Damen - giugno 2009.
[3] Vedi su questo stesso sito l’articolo di L. Procopio Grecia docet.
[4] Dati tratti da: Il grande attacco all’euro di M. Maggi – L’Espresso n. 44 del 13/05/2010.
[5] Citazione tratta dall’articolo di F. Lordon Assoluta urgenza di un contro-shock - Le Monde diplomatique - marzo 2010.