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Certamente non sorprende, ai nostri occhi, la rappresentazione offertaci dai partiti politici in merito al referendum abrogativo dell’8 e 9 giugno. Mentre l’area del progressismo borghese, intenta a coltivare il proprio orticello “frontista” in nome della salvaguardia della salute della democrazia, chiama al voto i lavoratori e i “cittadini” italiani, le destre sono impegnate a cavillare sul dettato costituzionale, allo scopo di giustificare la promozione dell’astensione.
Dicono che il referendum sia divisivo. Ci viene presentato come la rappresentazione plastica di due modelli alternativi di democrazia: uno che porrebbe al centro la dignità della persona e il diritto a un lavoro stabile e decente; l’altro, invece, che vorrebbe mantenere lo status quo, spiccatamente liberista e favorevole alle aziende, ai padroni. Questa è, in sintesi, la vulgata sottoscritta anche dai sindacati confederali che hanno appoggiato l’attività referendaria.
Andiamo a esaminare più da vicino i quesiti referendari. Il primo riguarda la possibilità di dimezzare il numero di anni necessari per ottenere la cittadinanza italiana. Attualmente, la legge prevede un periodo di 10 anni, durante il quale il richiedente non deve aver commesso illeciti e deve dimostrare di aver avuto, sin dall’inizio, un lavoro stabile e continuativo. Ci si permetta una nota di ironia: se queste condizioni fossero estese anche agli “italiani” di nascita, il suolo italico sarebbe calpestato da milioni di apolidi.
I quesiti successivi riguardano la contrattualistica lavorativa in Italia. Il secondo propone di abrogare le norme sui licenziamenti previste dall’attuale contratto a tutele crescenti, introdotto dalla riforma del governo Renzi, reintroducendo de facto l’articolo 18. Tuttavia, se abbandoniamo i cieli limpidi dell’ideologia riformista e passatista e guardiamo “alla cosa stessa”, si tratterebbe di un’abrogazione che, nei fatti, rappresenterebbe per i lavoratori italiani una vittoria di Pirro. Che impatto concreto potrebbe mai avere l’abrogazione del licenziamento senza giusta causa, di fronte alla miriade di forme contrattuali che consentono alla borghesia di acquistare forza-lavoro senza preoccuparsi più di tanto di garantire il fantomatico e sempre più chimerico “posto fisso”?
Segue poi il quesito sull’estensione dell’indennità per i licenziamenti nelle piccole imprese. Un quesito che riteniamo sintomatico, spia di una certa preoccupazione per lo stato attuale del rapporto tra capitale e lavoro in Italia: a fronte della crescente svalutazione del valore della forza-lavoro, questo quesito sembra iscriversi nel solco di quelle politiche di assistenza al reddito promosse da una certa area della borghesia, nel tentativo, dal sapore donchisciottesco, di garantire un minimo di sussistenza allo sventurato disoccupato, salvaguardando al contempo le compatibilità capitalistiche del Paese.
È la stessa logica da amministratori di condominio che ritroviamo nel punto successivo: l’obbligo, per legge, di indicare la causale da parte del “datore” (leggasi: prenditore) di lavoro nell’utilizzo dei contratti a breve termine.
Nell’ultimo quesito trova spazio anche il giustizialismo, con la sua caccia all’imprenditore (leggasi: sempre e solo prenditore) incurante delle leggi e della sicurezza sul lavoro, meritevole delle patrie galere. Come se lo sfruttamento e l’impoverimento della classe lavoratrice fossero la conseguenza del mancato rispetto della giustizia borghese e borghese e non la condizione esistenziale del capitalismo..
Tirando le somme, questo referendum, anche se dovesse raggiungere il quorum, non intaccherebbe minimamente l’attuale “mercato del lavoro”: si limiterebbe a scalfire la superficie del problema. Ci sembra piuttosto che esso risponda all’esigenza di comprendere quali siano, oggi, i rapporti di forza tra i vari settori della borghesia e le aree in cui il dominio classista si articola: dalla politica di palazzo alla dimensione sindacale.
Noi non contrapponiamo alla possibilità del voto un astensionismo astratto, passivo. Ma invitiamo, con l’aiuto della critica marxiana al modo di produzione capitalistico, a porci su un terreno di contrapposizione attiva e frontale al capitale, denunciando con forza le mille e più declinazioni dell’opportunismo borghese nel XXI secolo e lottando per il superamento rivoluzionario dell’attuale modo di produzione per la definitiva abolizione della schiavitù del lavoro salariato, ossia per il comunismo.