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Ma il vero problema dell’economia americana è il dollaro
Secondo i sondaggi, fra Kamala Harris e Donal Trump doveva essere un testa a testa fino all’ultimo voto; invece è finita con la vittoria netta del tycoon.
Oltre alla presidenza, ha conquistato anche la maggioranza di camera e senato potendo così concentrare nelle sue mani un enorme potere. Ha vinto basando tutta la sua campagna elettorale sulla promessa di riportare gli Usa agli antichi splendori. Make America great again (Fare l’America di nuovo grande) ha ripetuto ossessivamente per tutta la campagna elettorale. Come? Espellendo gli immigrati illegali perché “rubano” il lavoro agli americani; tagliando il budget federale di due trilioni di dollari in due anni, a cominciare da quello relativo alla spesa sociale; imponendo pesanti dazi su tutte le importazioni ivi comprese quelle dai paesi dell’Unione europea e cinesi in modo particolare. E, dulcis in fundo, riducendo ulteriormente le imposte sui profitti in coerenza con il dettato neoliberista secondo cui la maggiore ricchezza accumulata dai più ricchi sgocciola verso gli strati inferiori della società generando così benessere per tutti. Gli hanno creduto, nonostante negli ultimi decenni sia accaduto esattamente il contrario: i ricchi sono diventati sempre più ricchi e la classe lavoratrice sempre più povera.
Ha promesso anche di porre fine alla guerra fra Russia e Ucraina ritenendola per gli Usa un puro spreco di risorse in quanto ormai priva di qualsiasi interesse strategico, essendo stato già raggiunto, con il sabotaggio del Nord stream, l’obbiettivo di infliggere un duro colpo all’asse Mosca- Berlino e di costringere gli europei ad acquistare il gas americano, benché molto più costoso di quello russo. Il fatto che abbia vinto nonostante non ci fosse nella sua proposta nulla di nuovo rispetto a quanto aveva fatto nel corso della sua prima presidenza la dice lunga sul discredito accumulato dal partito democratico e della sua incapacità di cogliere quanto fosse grande il disagio in cui versa la classe lavoratrice americana e una buona parte della cosiddetta middle class. Kamala Harris, forse perché accecata dai dati macroeconomici che davano l’economia americana in crescita di ben il 12 per cento rispetto al periodo precedente la pandemia con la creazione di ben 2,6 milioni di nuovi posti di lavoro, questo disagio l’ha semplicemente ignorato benché l’inflazione, negli ultimi anni abbia letteralmente falcidiato salari, stipendi e pensioni. Trump, invece ne ha fatto il suo campo di battaglia. Ha promesso di risolvere la questione proponendo soluzioni tanto semplicistiche quanto illusorie come quella di rimandare a casa qualche milione di immigrati illegali; di impedirne l’accesso costruendo altri muri ai confini con il Messico e, soprattutto, imponendo pesanti dazi sulle importazioni, come se il doppio deficit della bilancia commerciale e del bilancio pubblico fosse la conseguenza della concorrenza sleale dei paesi esportatori e non del fatto che dai primi anni ’70 del secolo scorso, se non dalla fine della Seconda guerra mondiale:
«L’America vive su flussi di importazioni non coperti da esportazioni bensì da emissioni di dollari. In tal modo gli Stati Uniti finanziano il proprio deficit commerciale, emettendo buoni del tesoro, cosa che possono permettersi di fare solo perché il dollaro è la moneta di riserva mondiale, utilizzata per le transazioni internazionali e anche, e molto, dai più ricchi per tesaurizzare il loro denaro nei paradisi fiscali».¹
Di fatto, come già in altre occasioni abbiamo avuto modo di argomentare, la borghesia americana, godendo dello straordinario privilegio di poter pagare le proprie importazioni con cambiali senza scadenza, ha trovato più conveniente importare merci dall’estero anziché produrle in patria. Tanto più conveniente che solo nel periodo tra il 2000 e il 2022, il volume del deficit commerciale:
«In termini lordi è aumentato del 173 per cento e, se depurato dall’indice dei prezzi il suo aumento è del 60 per cento».²
Il Pil: un indice ingannevole
Il rovescio della medaglia, però, è stata una estesa desertificazione industriale con la perdita di diversi milioni di posti di lavoro e il crescente impoverimento della classe lavoratrice, ma che il Pil non rileva. Infatti, nel calcolo del Pil - l’indice che misura la crescita economica di un determinato paese - rientrano non solo la produzione manufatturiera e i servizi a essa connessi, ma anche molte attività che non generano ricchezza reale come quelle relative alla sfera finanziaria. Può, quindi, accadere che il Pil nominale, includendo il volume crescente dell’insieme di tutte queste attività, cresca anche se la produzione industriale vera e propria si contrae con il conseguente impoverimento della classe lavoratrice in essa impiegata. E questo è esattamente il caso degli Usa, dove il processo di monetazione del dollaro come moneta mondiale, ha trasformato quella che fino alla prima metà degli anni ’60 del secolo scorso, era la più grande potenza industriale del mondo, nella banca del mondo.
Ci informa ancora Emanuel Todd:
«Nel 2020 il pil includeva anche come valore aggiunto, il lavoro di 15.140 economisti americani, in gran parte sacerdoti della menzogna, il cui salario medio annuale è di 121.000 dollari. Che valore ha il Pil americano una volta svuotato da questa massa parassita che non corrisponde a una vera produzione di ricchezza reale?»³ Secondo i calcoli di Todd, una volta depurato da "questa massa parassitaria", il PIL statunitense del 2020, ufficialmente pari a 76.000 dollari pro capite, in realtà non superava i 39.520 dollari, più basso di quello della Germania (48.000 dollari) e della Francia (41.000 dollari).
Pochi miliardari e povertà da terzo mondo
In realtà, per quanto possa apparire paradossale, il problema dell’economia americana non sono né gli immigrati né la presunta concorrenza sleale dei paesi esportatori ma proprio il fattore a fondamento del primato imperialistico degli Usa: il dollaro in quanto moneta mondiale. È il fatto di poter importare dall’estero merci pagandole con cambiali senza scadenza che ha prodotto la desertificazione industriale degli Usa e l’impoverimento di tanta parte della classe lavoratrice e della cosiddetta middle class. Di contro i grandi capitalisti, gli azionisti dei fondi di investimento, gli speculatori di ogni risma, i banchieri ecc. hanno accumulato e continuano ad accumulare miliardi su miliardi come se fossero noccioline.
Non desta meraviglia, quindi, se negli Usa - che pure annoverano il maggior numero di multimiliardari al mondo - dilaghino anche forme di povertà da terzo mondo:
«Se i poveri d’America fondassero una nazione, avrebbe una popolazione più grande dell’Australia o del Venezuela. Quasi un americano su nove, incluso un bambino su otto, vive in povertà. Ci sono oltre 38 milioni di persone negli Stati Uniti che non possono soddisfare le proprie necessità di base e oltre 108 milioni che si arrangiano con un reddito annuo di 55.000 dollari o anche meno, bloccati in una via di mezzo tra povertà e sicurezza. Più di un milione dei nostri studenti delle scuole pubbliche sono senza casa, vivono in motel, automobili, rifugi e edifici abbandonati. Quando finiscono in prigione, molti detenuti americani scoprono improvvisamente che la loro salute migliora perché le condizioni che affrontavano da cittadini liberi (ma senza soldi) erano peggiori. Più di due milioni di americani non hanno l’acqua corrente o il bagno. Gli abitanti della Virginia Occidentale bevono da corsi d’acqua inquinati, mentre le famiglie della Nazione Navajo guidano per ore per riempire d’acqua i loro serbatoi. Malattie tropicali considerate da tempo debellate sono riemerse nelle comunità più povere dell’America rurale, spesso a causa di fogne malfunzionanti che espongono i bambini a liquami».⁴
E cosa pensa e promette di fare Trump per porre rimedio a tutto questo? Oltre alla guerra contri i migranti ne ha dichiarato un’altra, da condurre a colpi di ogni possibile sorta di dazi, contro i paesi esportatori "colpevoli"... di esportare negli Usa tutto quanto gli Usa, per il proprio tornaconto, non producono già da diversi decenni. I paesi del gruppo dei Brics, peraltro sempre più numerosi, perché colpevoli di avvalersi sempre meno del dollaro per regolare il loro interscambio, addirittura: « Dovranno affrontare dazi del 100 per cento e dire addio alla vendita nella meravigliosa economia americana… Possono trovarsi un altro fesso…non c’è possibilità che i Brics sostituiscano il dollaro statunitense nel commercio internazionale e qualsiasi paese che ci provi dovrebbe dire addio all’America».⁵
E qui sembra di vedere più che il prossimo presidente degli Usa, Don Chisciotte che parte, lancia in resta, contro i mulini a vento. Infatti, come aveva capito anche Toro seduto: «Quando avrete abbattuto l’ultimo albero, quando avrete pescato l’ultimo pesce, quando avrete inquinato l’ultimo fiume, allora vi accorgerete che non si può mangiare il denaro accumulato».
Esattamente quel che è accaduto in America: carta moneta al posto del pane. Si importa di tutto e di più, perfino i cappellini Maga sono Made in China.
Stando così le cose, non occorre la sfera di cristallo per prevedere che, qualora la nuova amministrazione dovesse dar corso alle minacce del suo presidente, i primi a farne le spese saranno proprio i consumatori americani su cui inevitabilmente si scaricherà l’incremento dei dazi non essendoci alcuna possibilità, almeno nel medio periodo, di sostituire le importazioni con produzioni locali inesistenti tranne quella bellica e poco altro. Almeno che i paesi esportatori non continuino ad accettare, in cambio delle loro merci, le "cambiali senza scadenza" che la Federal Reserve emette a getto continuo. La qualcosa comporta inevitabilmente l’estensione della guerra imperialista permanente per il controllo delle fonti di produzione delle materie prime strategiche di tutte le loro vie, essendo i loro prezzi espressi quasi tutti in dollari. Esattamente quello che succedeva nel passato, continua tuttora e che continuerà anche con il nuovo presidente.
[1] Emanuel Todd - La sconfitta dell’Occidente – pag. 269 – Fazi editore.
[2] Ib. pag. 270
[3] Ib. pag. 268
[4] M. Desmond – Povertà in America - La Nave di Teseo - pag. 4,5.
[5] Cit. tratta da: Massimo Basile - Trudeau a Mar-a-Lago. Il primo a trattare sui dazi di Trump - La Repubblica dell’1.12.2024.