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RICEVIAMO E PUBBLICHIAMO
L’omicidio di Giulia Cecchettin ha sollevato un movimento di indignazione generale, che trova la sua espressione maggiore nella critica al patriarcato e alla violenza che quest’ultimo implica nel subordinare la donna all’autorità maschile. Per poter frenare gli effetti di tale modello socio-culturale, si fa appello soprattutto alle Istituzioni e al loro intervento, affinché si possa risolvere il problema della violenza di genere con un inasprimento delle pene e con delle campagne volte a rieducare dal punto di vista sentimentale ed emotivo gli uomini, in direzione di una maggiore parità. Ma è veramente questa la strada giusta per risolvere il problema della violenza, che sia di genere o meno?
La violenza è un elemento caratterizzante delle società classiste, ivi compresa quella capitalistica, e i fatti di cronaca non smettono di confermarlo: stragi scolastiche, violenze di gruppo, violenze familiari e suicidi caratterizzano sempre di più la nostra vita quotidiana. La società attuale, in cui le contraddizioni del modo di produzione capitalistico si acuiscono drammaticamente, è dominata da un individualismo esasperato e una profonda alienazione, che trovano una manifestazione eminente nella diffusione di forme di violenza dai tratti nichilistici sempre più marcati. Un processo che non può non investire anche la sfera emotiva e sentimentale, riducendo l’altro da sé o in un concorrente, con il quale si è in continua competizione, o in uno strumento da sfruttare in vista di un profitto il più elevato possibile: le relazioni interpersonali prendono la forma di rapporti di proprietà e che, quando non soddisfano le “aspettative”, possono venir troncate brutalmente attraverso forme di violenza anche mortali.
La disumanizzazione delle relazioni affettive e la violenza imperante sono una cartina di tornasole di tutte le contraddizioni che caratterizzano l’attuale società. La violenza è un dato strutturale in una società divisa in classi, e assume forme barbariche quando la crisi avanza e morde, inasprendo lo sfruttamento, la concorrenza tra lavoratori, la brutalità degli Stati (gli strumenti con cui le classi dominanti concentrano e organizzano la violenza contro i dominati), i conflitti interimperialistici.
La violenza allora non può essere ridotta a prospettive solo parziali, di genere o altro tipo. Per essere compresa e combattuta va inquadrata più complessivamente nel contesto dei rapporti sociali di sfruttamento e di dominio che la generano, anche intrecciandosi a forme di violenza e sopraffazione con una storia che affonda le radici nei secoli, in formazioni economico-sociali precapitalistiche.
Per quanto possano essere presenti dei retaggi culturali dietro agli ultimi fenomeni di violenza nei confronti delle donne, fermarsi alla lotta di genere significherebbe non cogliere la natura sociale della violenza stessa e, di conseguenza, precludersi la possibilità di imboccare la strada per una vera critica del reale e per la sua trasformazione. La lotta contro il patriarcato non va in quanto tale alla radice della questione: per farlo, è necessario alzare lo sguardo al livello della lotta di classe e alla prospettiva di un cambiamento radicale di tutta la società, in direzione di una società comunista dove anche le relazioni affettive possano recuperare finalmente una dimensione autenticamente e pienamente umana.