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Che la democrazia statunitense sia diversa dalle più antiche europee è nella comune concettualizzazione. Bisogna però intendersi sulla diversità, la quale non è già divergenza ma solo presenza di particolarità. La disputa tra fazioni, alle fondamenta della democrazia borghese, e la formazione di un’opinione pubblica, nonostante traspaia come un concorso delle idee di tutti ma funzioni ancora come formazione delle idee della classe dominante, in terra nordamericana assume forme diverse ma non trasforma il significato di dominio politico ed ideologico sulle classi subalterne.
I sinistri europei, e più in generale i democratici europei, lamentano di sovente la mancanza di una potente tribuna parlamentare Made in USA ma si rallegrano della più ampia libertà nelle più disparate forme artistiche; costoro vogliono bene alla democrazia e la democrazia è loro amica. Frastornati da questo sentimento, nel più genuino ed ingenuo dei casi, non ravvisano, nemmeno lontanamente, la più sofisticata forma di oppressione. Non abbiamo alcunché da contestare alla libertà artistica, viva la libertà artistica, ma non possiamo non porla sotto la lente d’ingrandimento della critica radicale.
La cinematografia statunitense è libera e potente; ha la libertà ed il potere di intervenire nel pubblico dibattito lì dove il dibattito pubblico non è affidato esclusivamente alle tribune parlamentari o ai giornali. Stabilire se Hollywood, industria cinematografica, sia un colosso in ragione della funzione ideologico/democratica o per la mera produzione della merce immateriale, il film, possiamo lasciarlo all’ormai folto gruppo di analisti; a noi deve piuttosto interessare se questo insieme, di merce ed ideologia, non sia già qualcos’altro rispetto alla sola merce e alla sola ideologia ossia un pensiero-merce, che non può essere volgarmente inteso come un pensiero prodotto in ragione del profitto ma piuttosto come veicolo di un’idea del mondo attraverso la circolazioni delle merci, materiali o immateriali che siano. Va da sé che, essendo il mondo capitalistico una immane raccolta di merci: a) la questione non è di esclusivo appannaggio statunitense b) la pervasività del pensiero-merce varia con progressione diretta rispetto alla produzione di merci c) lì dove, nella crisi strutturale del modo di produzione capitalistico, il profitto non emerge solo dalla produzione di merci (D-M-D’) ma anche nella circolazione del denaro (D-D’) attraverso appropriazione parassitaria di plusvalore, al pensiero-merce si affianca il pensiero-denaro.
“Air - La storia del grande salto”, prodotto da Amazon Studios e distribuito attraverso Amazon Prime Video è stato un successo ed anche sulla scorta di questo successo, la stessa Prime Video, ha deciso di ridistribuire “The Founder”. Sono entrambi dei film dal piacevole intrattenimento, ben diretti, luci giuste, ottima fotografia, dialoghi perfetti, attori eccellenti. Come già successo, la nostra critica strettamente cinematografica termina in poche battute; è piuttosto il connotato politico che emerge dalla trama ad essere di grande interesse per noi.
Air e The Founder sono storie in parte sovrapponibili, in parte meno; la prima vede un dirigente d’azienda impegnato nel dare una svolta alla Nike, allora non all’altezza di colossi come Converse e Adidas, con una scarpa da basket che portasse con sé la fama di un campione, il campione in questione è un giovane negro, figli di negri, la cui madre negra avrà l’astuzia di portare a casa una parte dei profitti. È una storia edificante ma non per questo falsa. Su The Founder scrive Andrea Chimento su Il Sole 24 ore[1]: «The Founder» narra l'incredibile storia vera di Ray Kroc, un rappresentante di frullatori che, negli anni Cinquanta, s'imbatte in un chiosco di hamburger in California gestito dai fratelli McDonald. Colpito dal sistema utilizzato per vendere il cibo, Kroc decide di entrare in affari con loro: sarà il primo passo nella creazione di un impero mondiale con protagonista la ristorazione “fast food”.
Sono storie americane in un modo di produzione capitalistico ancora centrato sulla manifattura anche nel cosiddetto occidente (sulle trasformazioni nei paesi emergenti ci torneremo in altra sede e ci torneranno altri compagni). Sono le storie di capitalisti coraggiosi e capitani avventurosi, con una intromissione edificante che fa intravedere la scalata sociale. Nasconde, ovviamente, tutto lo sfruttamento sulla classe lavoratrice sulla cui legittimata estorsione di plusvalore si fonda la ricchezza di ogni nazione. Nasconde l’incapacità della società di portare alla luce nuove storie di pari portata non per demerito dei protagonisti ma le profonde trasformazioni nel modo di produrre. Di questo non possiamo meravigliarci perché la democrazia borghese è la libertà di confronto tra fazioni borghesi ma oppressione del proletariato, e la stessa borghesia non può fare della critica all’economia politica un’arma di liberazione del proletariato come fece Marx, con grandissima lungimiranza per i suoi tempi.
Il cinema si inserisce in questo complesso movimento delle idee non come specchio ma come attore, talvolta il principale. Il cinema affronta serenamente i temi della finanza e del pensiero-denaro (The Wolf of Wall Street). Il cinema statunitense, con il crollo dell’imperialismo stalinista, si è più volte interrogato se ormai il nemico fosse da ricercare all’esterno del pianeta e ne è sorta tutta su saga sulle invasioni aliene. Oggi il cinema si interroga sul declino dell’impero USA e non può che farlo anche con nostalgia. Noi non staremo soltanto ad osservarlo, sul grande/piccolo schermo.
[1] https://www.ilsole24ore.com/art/un-grande-michael-keaton-mcdonald-s-AD8cFAXC