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Qualunque siano gli esiti di questa particolare fase dell’Unione europea, per il proletariato non cambierà nulla. Il suo inferno non dipende dall’impiego di una moneta anziché un’altra ma è la conseguenza inevitabile delle logiche che informano il processo di accumulazione del capitale.
Sembra una di quelle favelas sudamericane che, abbarbicate sui fianchi di una collina, stanno in piedi in perenne conflitto con le leggi della statica e della gravità. In linea teorica, anche il battito d’ali di una farfalla potrebbe determinarne il crollo da un momento all’altro, nondimeno resistono. È così anche l’Europa e in particolar modo quella dell’euro. Resiste benché sia più facile trovare un ago in un pagliaio che qualcuno che non aspiri perlomeno a rivoltarla come un calzino, quando non del tutto a farle chiudere i battenti.
Prima di ogni altro gli Usa, che con il suo crollo, e la conseguente scomparsa dell’euro, rafforzerebbero di molto la loro supremazia economico-finanziaria fondata sul signoraggio del dollaro.
Il suo crollo farebbe comodo anche alla Russia e alla Cina, aspirando entrambe ad avere un maggior peso specifico sullo scacchiere politico-strategico mondiale, in cui l’Europa opera sempre in subordine al loro principale concorrente: gli Usa. Dividi et impera, dicevano i Romani.
E poi, i cosiddetti sovranisti. In verità questi ultimi, almeno finora, soprattutto a parole. Nei fatti, rappresentano l’altra faccia della stessa medaglia.
Al riguardo risulta davvero emblematica l’esperienza del governo italiano a maggioranza M5s e Lega. Promettevano di andare a Bruxelles e, in nome e per conto del popolo italiano, fare sfracelli qualora la Commissione Europea, anzi l’Europa, si fosse opposta all’innalzamento del deficit di bilancio dall’1,8 già concordato al 2,4 per cento necessario per finanziare l’attuazione delle promesse fatte in campagna elettorale.
La ritirata di Giggino ‘O Pallista e Matteo La felpa
I pentastellati volevano stanziare qualcosa come 17 miliardi di euro per il solo reddito di cittadinanza. Con esso - esultava Giggino ‘O Pallista - sconfiggeremo la povertà in Italia!
Povertà, ovviamente, addebitata alle politiche di austerità dell’Unione Europea, come se questa fosse un qualcosa calato dal cielo, e le sue politiche non rispondessero alle esigenze della conservazione capitalistica, che impongono il contenimento del salario medio in prossimità o al di sotto del cosiddetto minimo vitale.
Matteo La Felpa diceva che ne avrebbe stanziati un’altra valanga per abolire, già il primo giorno in cui si sarebbe insediato il nuovo governo, tutte le accise sui carburanti e, il giorno successivo, la famigerata legge Fornero, con l’introduzione della cosiddetta quota 100 che avrebbe permesso il collocamento in pensione di tutti coloro che avessero almeno 62 anni di età e 38 di contribuzione.
I due provvedimenti - dicevano entrambi - sarebbero stati finanziati in deficit, in barba a tutte le regole dell’UE in materia.
Con tono beffardo Matteo La Felpa proclamava: “Non arretreremo di un solo millimetro! Bruxelles se ne faccia una ragione!”
E di rimando Giggino O’ Pallista: “Questa è la manovra del popolo e non si tocca!”.
Il tutto elencando una serie di cifre che a loro dire stavano a dimostrare che dell’Europa l’Italia poteva fare tranquillamente a meno.
È bastato però che lo spread con i bund tedeschi si attestasse stabilmente oltre i trecento punti base e la Commissione europea paventasse l’apertura della procedura d’infrazione, per farsi una ragione di dover abbassare, e di parecchio, le pretese di sforamento del deficit. Perché questo è nell’interesse della gran parte della borghesia italiana, della cui conservazione sono anche essi diretta espressione.
Reddito di sudditanza e quota 100, addio|
E quindi: addio alle promesse fatte.
Il reddito che doveva essere di «cittadinanza» ha assunto via via sempre più la configurazione di un vero e proprio «reddito di sudditanza»[1].
Una sorta di serbatoio di manodopera a basso costo a totale disposizione del sistema delle imprese che possono attingervi e impiegarla a proprio piacimento e con le modalità a loro più confacenti.
La sua introduzione muove, infatti, dalla premessa che la disoccupazione sia la conseguenza se non della fannullaggine del lavoratore, del mancato incontro dell’offerta con la domanda di lavoro, e non come in è realtà di una insufficienza strutturale della prima.
Da qui la sua durata massima di 18 mesi, le diverse soglie di reddito relativamente basse per potervi accedere e tutta una serie di obblighi da osservare per conservarne il diritto.
Si va da quello di prestare non meno di 8 ore settimanali di lavoro gratuito al Comune di residenza, all’obbligo di frequentare i corsi di formazione e riqualificazione professionale organizzati dai Centri per l’impiego, nonché di accettare almeno una proposta di lavoro su tre, anche se lontano dalla propria residenza. La prima entro un raggio di 100 km, la seconda di 250 e la terza su tutto il territorio nazionale.
E giusto perché non venisse a mancare la continuità con il Jobs Act di renziana memoria, dal momento dell’eventuale assunzione e fino allo scadere dei 18 mesi, il sussidio passa per intero all’impresa che assume il disoccupato[2].
Insomma niente di diverso di quanto esiste già da tempo in molti Paesi europei, a cominciare dalla Germania con il suo famigerato Hartz IV. E pensare che doveva essere il grimaldello per scardinare l’Europa dei poteri forti!
La stessa cosa è accaduta per la famosa quota 100. Doveva essere il primo e fondamentale passo per l’abolizione della famigerata riforma Fornero e si è risolta in un provvedimento sperimentale della durata di tre anni, che ha lasciato esattamente come era l’impianto legislativo esistente.
Potranno andare in pensione soltanto i lavoratori con minimo 62 anni di età e non meno di 38 di contributi versati, ma non per esempio con 60 anni di età e 40 di contributi o con 65 di età e 37 di contributi. Per costoro la famosa quota 100 sale rispettivamente a 104 e 103 e così via.
Inoltre, l’assegno, poiché viene calcolato sempre con il sistema contributivo, sarà decurtato per la quota relativa ai contributi mancanti per il raggiungimento dei requisiti previsti dalla legge Fornero, ossia 67 anni di età e 42 di contributi.
Ma quel che più conta è che sarà finanziata in minima parte con il taglio delle cosiddette pensioni d’oro, per il resto con il blocco dell’indicizzazione al costo della vita delle pensioni da 1.550 euro lordi mensili in su, e qualche altra sforbiciata alla spesa corrente e non in deficit.
Insomma, tutto come richiesto da Bruxelles. Hanno ingoiato perfino la solita clausola di garanzia che prevede, nel caso il deficit di bilancio dovesse superare la quota concordata, l’incremento delle aliquote Iva per un totale di 22 miliardi nel 2020 e quasi 29 nel 2021.
Sovranisti giusto quel tanto che basta per raccogliere voti e occultare la causa vera della crescente miseria della gran parete della società, esattamente come - seppure con altri mezzi - tutti coloro che li hanno preceduti.
E la favela resiste
Il fatto è che l’euro è nato perché era l’unico modo per la borghesia europea per sottrarsi al signoraggio del dollaro e alla subordinazione delle politiche monetarie delle Banche centrali dei singoli Paesi dell’Unione a quella della Federal Reserve.
Fuori dall’euro non c’è una maggiore sovranità monetaria ma, dato l’attuale sistema dei pagamenti internazionali, la più completa dipendenza dalla banca centrale americana.
Con in più la sostanziale differenza che mentre nel board della Bce sono rappresentati, con uno o più membri, tutti i Paesi che fanno parte dell’eurozona, che così possono dire la loro, alla Federal Reserve non è dato neppure di girarle attorno[3].
L’euro serve soprattutto alla borghesia, nella fattispecie a quella italiana, ecco perché a dispetto delle sue criticità e dei suoi critici la favela resiste.
In ragione di ciò, non ci stupiremmo più di tanto se da qui a qualche tempo, con l’acuirsi della crisi economica mondiale e dello scontro interimperialistico, fossero propri gli odierni sovranisti i primi a schierarsi in sua difesa al motto: Prima l’Europa e gli europei!
Sempre che nel frattempo, in coerenza con la loro vera missione, dovendosi inventare un nemico al giorno quale strumento di distrazione di massa, non capiti loro come all’apprendista stregone che evoca i suoi spiriti e ne perde il controllo, di innescare processi che poi nessuno è più in grado di governare, come accaduto con la Brexit.
In ogni caso, sia che l’Ue si rafforzi sia che vada in frantumi, il destino del proletariato è comunque segnato, perché il suo inferno non dipende dall’impiego di una moneta anziché un’altra, ma è la conseguenza inevitabile delle logiche del processo di accumulazione del capitale.
Supersfruttamento ed estrema schiavitù del lavoro salariato sono ormai la conditio sine qua non affinché il modo di produzione capitalistico possa conservarsi. Ne è prova evidente il fatto che ovunque nel mondo l’inferno, seppure con diverse sfumature, è sempre lo stesso. Solo con la rivoluzione comunista la catena della schiavitù del lavoro salariato può essere spezzata.
[1] Cfr. Marco Bascetta, «No all’autoritarismo del reddito di sudditanza», il Manifesto, 13.10.2019.
[2] Cfr. G. P., «Jobs Act – lavoratori all’asta e per un salario sempre più basso».
[3] Cfr. G. P., «L’euro della discordia».
Fonte immagine: http://www.treccani.it/enciclopedia/unione-europea/#gallery-in-text