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Dalla rivista D-M-D' n °3
Per sopire le polemiche con cui si erano aperte le celebrazioni del 150° anniversario dell’unità d’Italia, il capo dello stato Giorgio Napoletano ha dovuto usare parole di ammonimento quali:”se fossimo rimasti come nel 1860, divisi in 8 Stati senza libertà e sotto il dominio straniero, saremmo stati spazzati via dalla storia". Polemiche che si sono sopite è vero, ma che non cancellano il fatto che (secondo l’azzeccata espressione dello scrittore inglese David Gilmour) l’Italia ha passato centocinquant’anni a non diventare uno stato-nazione o ancora, per parafrasare una battuta di Bossi, “ Garibaldi non ha unito l’Italia, piuttosto ha diviso l’Africa”.
Del resto non sono un mistero i propositi secessionisti della Lega nord che, in fase di costruzione della zona euro, hanno spinto il suo leader Umberto Bossi a proporre che, nel sistema monetario europeo, entrasse solo la Padania, lasciando che il resto dell’ Italia si congiungesse eventualmente con l’Africa.
La sostanziale divisione tra il Nord ed il Sud Italia, sia dal punto di vista socio-economico che da quello culturale, ha dato l’occasione alla Lega Nord di alzare, negli anni novanta, la bandiera della secessione e, passando attraverso parole d’ordine come Roma ladrona, ha guadagnano in meno di un decennio oltre la metà dell’elettorato della cosiddetta “Padania”.
Infatti, la Lega Nord, suo massimo splendore, alle elezioni del 1996, in quest’area ha raccolto il 25-30% dei voti pari a livello nazionale, al 10%, che non è proprio una bazzecola per un movimento politico che è nato su basi localistiche.
Di fatto, dalla scesa in campo della Lega, e visti i mutati equilibri internazionali, “i progetti di partizione della Repubblica Italiana appartengono al futuro pensabile” ( Limes, 02/2011).
Ma cosa spingeva 150 anni fa il popolo della penisola a trasformare questo mosaico di culture, di linguaggi, di stili di vita, in una nazione? Era soltanto sotto la spinta ideologica che si muovevano migliaia di uomini o a muoverli non erano piuttosto precisi interessi materiali?
Il ventennio che va dal 1850 al 1870 è segnato da profondi e radicali rivolgimenti che scuotono profondamente le fondamenta dell’intera società europea e non solo europea. E’ un periodo in cui si registra una forte innovazione scientifica e tecnologica, un poderoso sviluppo dell’industria e con esso ha luogo anche una grande concentrazione di capitali. Muta radicalmente la divisione internazionale del lavoro e, soprattutto per volontà della Gran Bretagna, vengono liberalizzati i mercati con un forte inasprimento della concorrenza a tutto vantaggio dei paesi capitalisticamente più sviluppati e a discapito soprattutto del proletariato e delle fasce più deboli della popolazione europea come dimostrano i tanti conflitti sociali che sconvolsero l’intero panorama sociale e politico del vecchio continente.
“Spinta dal bisogno di sempre nuovi sbocchi per le proprie merci, la borghesia corre, per invaderlo, tutto l’orbe terracqueo. Da per tutto le conviene annidarsi e stabilirsi, da per tutto le occorre di estendere le linee del commercio”, così Marx ed Engels ne Il Manifesto del partito comunista, descrivono efficacemente l’operare della borghesia europea in quel periodo compresa quella dell’Italia settentrionale.
L’Italia pre-unitaria si presenta politicamente frammentata, con una massiccia presenza straniera, in gran parte austriaca. Anche qui, in un quadro economico generalmente arretrato, accanto ad aree dove ancora era prevalente il latifondo, andava però affermandosi una moderna borghesia industriale. A questa borghesia emergente, che si era formata anche sotto la spinta innovativa della rivoluzione francese, faceva da contraltare un’accentuata arretratezza istituzionale e l’esistenza di innumerevoli barriere doganali che ne limitavano non poco le sue possibilità di sviluppo. Tutto ciò favorì la nascita di un’opposizione con la creazione di non pochi circoli intellettuali e politici e perfino di organizzazioni segrete.
Nel 1820, per iniziativa di due ufficiali aderenti alla carboneria, anche se di fatto ispirato dal movimento liberale napoletano, nel regno delle due Sicilie si registra la prima vera rivolta del secolo che avrà una così larga diffusione in tutto il regno da costringere il re Ferdinando I a concedere una costituzione sul modello di quella spagnola. Sarà il successivo intervento militare austriaco a ripristinare l’assolutismo di Ferdinando I e a decretare, così come previsto dal trattato di Vienna, la possibilità di ingerenza delle potenze straniere negli affari interni dei singoli stati.
C’è una questione meridionale?
Secondo la tesi gramsciana, la cosiddetta “questione meridionale”, cioè la notevole arretratezza del Mezzogiorno d’Italia rispetto al Settentrione, è dovuta, al momento dell’unità d’Italia, alla mancanza di uno sviluppo capitalistico nel Sud e al permanere in esso di rapporti economici di tipo feudale. Ma, seppure i dati riguardanti la distribuzione del reddito e la produzione industriale siano piuttosto frammentari, dalla ricostruzione che si può fare attraverso gli studi fatti da Rosario Romeo o dall’annuario statistico italiano, pubblicato dagli autori Correnti e Maestri nel 1864, ne esce un quadro piuttosto diverso.
Per esempio, si apprende che le province dell’ex regno borbonico producevano quasi la metà di cereali e legumi dell’intera penisola, il 60% dell’olio con il 48% di oliveti, la totalità degli agrumi e del cotone. Secondo il censimento generale del 31/12/1861 redatto dal Ministero dell’Agricoltura, Industria e Commercio, i braccianti italiani erano attorno a 2,7 milioni di cui 1,5 al Sud; per contro i mezzadri erano 1,2 milioni di cui solo poche decine di migliaia al Sud. Difficile quindi parlare (come qualcuno ha voluto fare forzando la mano) di feudalesimo del denaro, visto che il rapporto bracciantile presuppone che il proprietario terriero o il fittavolo acquisti forza-lavoro ( per l’appunto il bracciante o il giornaliero) per produrre merce da immettere sul mercato nel pieno rispetto della formula di valorizzazione del capitale D-M-D’.
Analizzando i dati di cui disponiamo, è possibile farsi un’idea del grado di sviluppo anche del settore industriale non ai livelli della Gran Bretagna ma neppure così scarso come certo meridionalismo ha sempre sostenuto.
Bianchini e Liberatore condussero separatamente ed in periodi diversi due studi riguardanti la situazione economica del meridione d’Italia prima dell’unità. Rispettivamente: “Storia delle finanze del Regno delle due Sicilie”, del 1845, e “Intorno alle società anonime commerciali della provincia di Napoli”, del 1833. Il quadro che ne vien fuori è il seguente: nel 1833 nella sola provincia di Napoli figuravano 16 società per azioni con 4.378.100 ducati (corrispondenti all’incirca a 17.000.000 di lire) di capitale nominale di cui 1.094.525 interamente versato. Di contro, Genova, che già all’epoca era un grande centro industriale, aveva solo due società anonime ( come erano denominate all’epoca le società per azioni), con un capitale di due milioni di lire. Sempre secondo i dati riportati dallo stesso censimento del Ministero, al Sud era ascrivibile il 51% degli operai impiegati nell’industria italiana.
Per quanto riguarda l’industria laniera, il quadro non è molto diverso. In Lombardia si producono 16.000.000 di metri di tessuto, mentre in Campania i soli stabilimenti meccanizzati ne producono 13.000.000. Milone, l’autore che fornisce questi dati, fa notare come già nel 1848 la Egg di Piedimonte impiegava 1300 operai mentre la filatura Ponti, il più grosso opificio lombardo, ne impiegava 419.
Tutti questi dati – è di massima evidenza - non servono per alzare bandiere o arroccarsi su posizioni campaniliste, quanto piuttosto per puntualizzare il fatto che, sicuramente, al momento dell’unità d’Italia, nel Sud la grande industria era, sì, un fatto relativamente sporadico, ma esistevano anche realtà d’eccellenza come l’opificio di S. Leucio a dimostrazione che l’arretratezza del Sud non è certamente dovuta alla permanere in esso, al momento dell’unità nazionale, di forme economiche precapitalistiche quanto, piuttosto, al fatto che un Sud sottosviluppato ed arretrato era funzionale, da un lato, alla costituzione di un mercato nazionale più ampio e, dall’altro, alla costituzione di un vasto esercito industriale di riserva che favorisse lo stabilizzarsi dei salari, sia al nord sia al sud, al di sotto del loro valore a tutto vantaggio del sistema industriale del Nord e di tutta la borghesia nazionale.
Una ulteriore conferma di ciò ci viene fornita da un altro dato di una certa rilevanza: lo spostamento di capitale finanziario dal Meridione d’Italia verso le banche del Nord. Il 18 Agosto 1861 alla Banca Nazionale viene data l’autorizzazione per aprire nuove filiali nel Sud, tramite le quali essa può vendere titoli del debito pubblico; mentre la stessa cosa non viene concessa al Banco di Napoli impedendogli così fino al novembre del 1865 a Firenze, di aprire nuove filiali al Nord.
Cosi mentre la Banca Nazionale poteva drenare capitale dal mezzogiorno verso il Nord il Banco di Napoli registrava una costante riduzione delle sue riserve. Nel 1863, alla vigilia dell’introduzione del corso forzoso, la riserva aurea del Banco di Napoli era passata da 78 a 43 milioni di lire mentre la riserva aurea della Banca Nazionale era raddoppiata. Allorché il 1° Maggio 1866 venne approvata la legge sul corso forzoso, la Banca Nazionale potendo emettere carta moneta poté rastrellare dal mercato nazionale 82 milioni di lire in oro.
In tal modo, nel giro di due anni essa poté triplicare la circolazione del contante in suo possesso, raggiungendo i 485 milioni e i 157 milioni di riserve che andavano a dare ossigeno alle asfittiche industrie del Nord.
Quindi, l’arretratezza meridionale non è la conseguenza dalla presunta mancata rivoluzione borghese nel Sud d’Italia bensì della spoliazione sua e di tutto il proletariato italiano in funzione dello sviluppo capitalistico dell’intero paese.
Gaetano Fontana