Lo stato sociale e la circolarità di un paradosso

Creato: 19 Dicembre 2011 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 4541

Dalla  rivista  D-M-D' n °2

Dalla povertà dei secoli bui ad un’altra povertà: quella generata dal capitalismo moderno.

Indagare sullo Stato sociale può rivelarsi un’operazione meramente descrittiva se non si tiene conto che i cardini dei sistemi sociali sono stati influenzati dai differenti contesti storico-sociali e che la loro traiettoria evolutiva è coerentemente ispirata dalle ideologie politiche che hanno connotato, a loro volta, l’evoluzione dei vari Stati. Lo Stato sociale nasce come risposta ai bisogni legati alla sussistenza e come tale la sua storia va a coincidere, per un arco di tempo abbastanza consistente,con la storia della povertà, una povertà la cui comprensione è demandata al clima caratterizzante i vari periodi storici ma che mai è stata intesa e spiegata per quello che veramente era né, tantomeno, data l’impostazione surrettizia che era alla base delle varie teorie su di essa, si cercava di individuare i veri motivi che la determinavano. Tra gli studiosi che se ne interessavano, risultavano preminenti tesi basate su teorie aberranti che definivano questo triste fenomeno quasi come una tara connaturata al codice genetico dell’individuo. Illuminanti,in tal senso, possono essere le teorizzazioni del noto riformatore sociale Edwin Chadwick (1800- 1890) secondo cui un’adeguata riforma della sanità pubblica avrebbe, come d’incanto, fatto sparire “ tutte quelle malattie biologiche e sociali che provocano un degrado psicologico che può trascinare all’alcolismo o, peggio ancora, alla rivoluzione”. Né meno preso da questo sacro terrore per i rivolgimenti sociali è l’atteggiamento del sociologo Louis Renè Villermè (1782-1863), paladino irriducibile del sistema della fabbrica, non solo, ma che considerava un’offesa alla pubblica morale tutto ciò che poteva contrastarlo o metterlo in discussione. Antoine-Eugene Buret (1810-1842), economista e socialista utopista, si assume l’onere di confutare l’astrattismo che pervade la ricerca sulle cause della povertà e, conseguentemente, asserire come esista “una stretta connessione tra le condizioni di indigenza degli operai e la ricchezza, considerati entrambi come fenomeni strettamente economici e controllabili oggettivamente”. Toccherà al socialismo scientifico di Marx dare sistematizzazione adeguata al tutto col far risalire alla divisione della società in classi ed alla discriminazione che ne consegue l’origine del fenomeno che, questo sì, è connaturato ad un codice genetico ascrivibile, nella sua integralità, al capitalismo. E’ il ‘500 e, segnatamente, quello che è stato definito il “ciclo infernale del cinquecento, a darci una rappresentazione esauriente del fenomeno laddove, nell’Europa occidentale, un quinto della popolazione era costituito da poveri ed il fenomeno era in diretta correlazione con l’incremento demografico, con lo sviluppo delle manifatture, con la rivoluzione dei prezzi, tutti fattori che, andandosi ad aggiungere allo scoppio di epidemie, alle continue guerre ed alle carestie, avevano costretto immense moltitudini di disperati a cercare rifugio e soccorso nelle città. Ma la povertà ha origini assai datate nel tempo tanto da indurre più di uno studioso a sostenere che la storia della povertà coincida con quella dell’umanità, tesi che rappresenta quanto meno un azzardo in quanto la povertà è prodotto intimamente legato alla discriminazione di classe. Diventa, quindi, un po’ arduo sostenere che persone dalle condizioni disagiate ed altre in una situazione sociale più favorevole siano sempre esistite in tutte le “società organizzate”. E’ proprio vero tutto cio? Antropologi come Lewis H. Morgan, etnologi come Maxim Kovalevsky insieme ad altri studiosi quali Giraud-Teulon o Bancroft nelle loro opere mettono in discussione, quando non confutano del tutto, l’assunto che le classi debbano essere sempre esistite, che in tutte le società organizzate vigesse la separazione in classi e, come corollario di tutto ciò, dovesse esistere anche la povertà. Ma ciò viene completamente confutato da Eva Cantarella e Giulio Guidorizzi laddove, nel loro “Corso di storia antica” sostengono - come da testo - che “Già nel Paleolitico superiore esisteva una società organizzata secondo modelli relativamente poco sviluppati, ma non per questo del tutto “selvaggi”, e una religiosità che si esprimeva non solo con atti individuali ma prevedeva culti organizzati..”1 Poteva quindi darsi che, periodicamente, ci fosse la scarsità di risorse alimentari ma ciò andava a interessare tutti i membri della società e non una sola parte di essa.La povertà, storicamente intesa, ha una genesi ben identificabile ed è un prodotto dei rapporti tra gli uomini in determinate epoche storiche e, come tale, fa la sua comparsa quando appare la proprietà privata. Comincia a palesarsi con la cosiddetta “età della civilizzazione” e caratterizza contesti storici significativi come il mondo greco, l’impero romano, il medio evo fino a pervenire all’era moderna. La pratica che più di ogni altra ha causato povertà è,di certo, l’espropriazione/appropriazione che ha caratterizzato un lungo lasso di tempo che va dalle “Colonne ipotecarie” che contrassegnavano i campi indebitati della Grecia di Solone (594 a.C.)2 fino al fenomeno delle “Enclosures” che prende avvio, in Inghilterra, già nel XII secolo ma che raggiunge il proprio apogeo alla fine del XVIII con la concentrazione della proprietà terriera nelle mani dell’aristocrazia inglese e con la comparsa di una enorme massa di lavoratori disoccupati (ex-contadini ai quali erano stati sottratti i terreni demaniali sui quali esercitavano i loro diritti collettivi) che era stata trasformata in manodopera a basso costo da impiegare nel nuovo ciclo produttivo industriale basato sulla lavorazione della lana. Nel mondo antico romano la povertà trova una più marcata accentuazione in coincidenza con la crisi dell’impero tant’ è che le classi agiate, attraverso periodiche elargizioni di beni, cercavano di prevenire sommovimenti sociali e garantirsi quindi un certo ordine sociale. Ma, evidentemente,tutto questo non poteva bastare se in conseguenza di un regime fiscale particolarmente iniquo nei confronti dei contadini costringeva quest’ultimi, da un lato, ad abbandonare le campagne e, dall’altro, di darsi al brigantaggio o dar luogo a vere e proprie rivolte. Il medioevo, a sua volta, è caratterizzato dai fenomeni citati a proposito del “ciclo infernale del Cinquecento”, con uno stato di bisogno endemico, con un disagio sociale strettamente legato alle guerre, alle epidemie, alla contrazione di debiti con gli usurai che si cerca di alleviare attraverso la pratica della carità. Non essendoci la possibilità di creare condizioni di vita eque per tutti – in base alle convinzioni della Chiesa – tutto veniva demandato all’esercizio quotidiano della misericordia talchè essendo – soprattutto nell’alto Medioevo – ricchezza e povertà pensate in senso dialettico ed essendo legata, l’idea di ricchezza, all’esercizio del potere ne derivava che la povertà non era tanto percepita come indigenza quanto come assenza di diritti e come subalternità nei confronti di chi esercitava il potere. Invero, questo stato di cose che era originato da una ingiustizia, riferibile per intero alla divisione della società in classi con conseguente ineguale ripartizione della ricchezza, non poteva trovare soluzione attraverso la benevolenza, la carità o altre pratiche compassionevoli e man mano che la piaga sociale del pauperismo assumeva sempre più consistenza assumevano, al contempo, sempre più frequenza le rivolte, sia quelle contadine sia quelle che riguardano i centri urbani. Le rivolte contadine particolarmente frequenti nel XV secolo interessano le Fiandre, la Francia con le sue “jacqueries”, l’Inghilterra coi “lollardi”, la Boemia col movimento di Jan Huss, la Germania della “riforma” luterana che – facendosi beate beffe del messaggio evangelico – non esitò ad allearsi coi principi e con l’alta feudalità per perseguitare il movimento dei contadini visto come portatore di “implicazioni spiritualistiche e comunisteggianti”. Le rivolte urbane segnano l’esperienza delle città fiamminghe (Gand,Bruges) ma anche quella del Comune di Firenze col suo “tumulto dei ciompi” e non è un puro caso che questi moti riguardino realtà abbastanza lontane tra di loro però accomunate dalla presenza, nel tessuto economico della città, di industrie tessili e quindi del rapporto conflittuale tra capitale e lavoro. Non può sfuggire come si tratti di primi moti con carattere di rivendicazione politico-sociale, destinati, però, a fallire per carenza di progetti e di organizzazione politica. L’età cosiddetta moderna ci catapulta nel processo di industrializzazione insieme a nuove tipologie di miseria e di marginalità. Volendo sintetizzare al meglio quanto detto a proposito della povertà e delle varie forme di marginalizzazione sociale possiamo dire che la storia dello Stato sociale comincia da lontano e parte dall’esigenza – per motivi vari – di dare una risposta ai bisogni legati al disagio di vivere che va interessando un numero sempre più grande di persone. Fondamentalmente la traiettoria evolutiva dello Stato sociale può essere distinta in tre fasi a partire dal 1600 fino a tutto il secondo dopoguerra, fasi che sono segnate da una percezione maggiore del problema della povertà e dall’introduzione sempre più massiva dello Stato nella gestione e nella soluzione del problema che toccherà il suo punto più alto a metà degli anni ’60 del secolo scorso, dopodichè si assisterà, a causa di problematiche tutte interne al ciclo di accumulazione del capitale, ad un progressivo incedere in senso inverso con la messa in discussione se non con la denuncia e l’azzeramento di conquiste 21 sociali che si pensava fossero oramai consolidate e quindi inattaccabili.

La fase dello Stato assistenziale

Una prima forma di Stato sociale ma, sarebbe meglio, privilegiare la definizione di Stato assistenziale prende avvio in Inghilterra nel 1601 con l’introduzione delle leggi sui poveri. Prima di allora ad occuparsi dei poveri erano state le Confraternite religiose come pure sodalizi a carattere laico – corporazioni,associazioni di mestiere – che intervenivano nei momenti di difficoltà per tutelare i propri aderenti. Operavano, in tal senso, anche gli Ospedali gestiti dagli ordini religiosi ai quali si andava ad aggiungere un certo filantropismo dei ceti nobiliari i quali attraverso le opere di carità pensavano di guadagnarsi la salvezza dell’anima. Il XVI col suo “ciclo infernale del ‘500", legato,sì, alle guerre ed alle epidemie che imperversavano, ma, in particolar modo alla rivoluzione dei prezzi, diretta conseguenza dell’afflusso dei metalli preziosi provenienti dal Nuovo mondo con conseguente svalutazione della moneta e del suo potere d’acquisto vide “ondata irreparabile di miseria che si abbattè sulle classi viventi di redditi fissi e tale fenomeno ebbe particolare visibilità nella classe dei contadini.”3 Ciò ebbe a modificare, tra l’altro, anche l’atteggiamento nei confronti dei poveri: li si considerava come un elemento estraneo e capace di provocare perturbazioni all’ordine costituito nonché alla pace sociale, ragion per cui contro di essi viene attuata una politica di repressione che assume caratteristiche ancor più accentuate nelle zone luterane e calviniste d’Europa dove l’etica del lavoro imperante non poteva giustificare una povertà che veniva considerata alla stregua di una colpa morale. Questa preclusione era il frutto avvelenato rappresentato dalla nuova etica protestante ed in modo particolare dalla dottrina della “predestinazione” in virtù della quale “tutte le azioni degli uomini sono predestinate da Dio.” Ottimo grimaldello per far passare una rappresentazione dell’individuo e della realtà, con cui egli si relaziona, di cui si avvalse il capitalismo mercantile, quantomeno nelle sue prime forme, ma soprattutto per far assurgere il calvinismo a religione predominante nei paesi a forte ascesa capitalistica. Il ‘500 è anche il secolo in cui inizia la pratica delle espropriazioni dei terreni demaniali (enclosures) da parte dei grandi proprietari col conseguente formarsi di schiere di poveri, di nullatenenti - ai quali veniva sottratto l’uso civico dei terreni demaniali – e contro i quali Enrico VIII, nel 1536, vara tutta una serie di disposizioni limitative in particolar modo quelle che attenevano” la migrazione interna di masse di poveri e diseredati non soltanto per questioni di ordine pubblico ma anche per assicurare al nascente capitalismo agrario una vasta manodopera a buon mercato.”4 A questa accezione particolare del “povero” non si sottrae, ovviamente, la Chiesa cattolica per una ragione che va ricercata nel fatto che, sia in campo cattolico che in quello protestante, l’ozio assume valenza di una pericolosa minaccia alla stabilità sociale da cui discende un progressivo abbandono della pratica della carità e dell’assistenza per cui gli ospedali, stravolgendo completamente la loro funzione originaria diventano dei meri istituti di internamento coattivo in quanto le disposizioni repressive in auge si basavano sull’assunto che i poveri, in grado di svolgere una qualsiasi attività lavorativa, dovevano essere destinati al lavoro coatto. E’ nell’Inghilterra elisabettiana che il fenomeno del pauperismo viene sottoposto a regolamentazione e controllo attraverso l’istituzione di una speciale imposta sui poveri (Poor Tax) che va a gravare sui proprietari di immobili e che viene riscossa da sovrintendenti delle parrocchie. Questa legge viene poi, nel 1601, integrata da altri provvedimenti ed in conseguenza di ciò viene varata la Old Poor Tax che confermava il ruolo delle parrocchie e subordinava la concessione dei sussidi al “riconoscimento dello status di povertà”. Tale riconoscimento implicava, per il richiedente, l’accettazione al ricovero forzato presso centri di internamento (indoor relief). Tutto questo riguardava specificatamente vecchi, malati o poveri non abili a svolgere attività lavorative mentre per tutti gli altri, compresi i fanciulli, si trattava di dover lavorare all’esterno o, molto più spesso, all’interno di speciali istituti denominati “workhouses” Per gli oziosi “incurabili”,ossia per quelli che si rifiutavano di svolgere attività lavorativa, si spalancavano le porte delle cosiddette case correzionali. Fatta la tara a quel tanto di sadismo che trasuda da questo vasto assortimento di piacevolezze e che ha a che vedere non tanto con una certa pruriginosità etica quanto con i rapporti di forza ben chiari ed intellegibili che vengono esercitati dalla classe dominante. E’ una legge che prevede un apposito corpo di polizia e che tende, da un lato, a dissuadere dal ricorrere all’assistenza delle parrocchie e, dall’altro, garantire ai proprietari terrieri manodopera a buon mercato. La coercizione, l’internamento, la segregazione possono essere, a ragion veduta, considerati criteri guida che hanno caratterizzato una politica che pur prendendo avvio verso la fine del ‘500 ha modo di affermarsi soprattutto nel XVII secolo, non a caso definito “secolo della grande reclusione” in cui l’inutilità sociale del povero – sarebbe più appropriato dire: la sua non sfruttabilità – ha come conseguenza la sua emarginazione, la sua separazione, finanche fisica, dalla società dei cosiddetti “virtuosi” e non può più essergli d’aiuto la carità perché essa stessa, secondo i dettami dell’epoca e secondo le convenienze di Santa Madre Chiesa – è stata laicizzata come dovere di stato sanzionato da apposite leggi.

La fase della rivoluzione industriale

Il tratto distintivo di questa seconda fase è che accanto alle forme assistenziali, rivolte a categorie sociali particolarmente svantaggiate quali i poveri, gi orfani , i minori ed erogate a solo titolo individuale traggono origine “le prime forme assicurative sociali” che garantiscono i lavoratori contro gli incidenti sul lavoro, le malattie e la vecchiaia e che, dopo un primo momento, in cui erano state intese su “base volontaria” finiscono per diventare obbligatorie per tutti i lavoratori. Tuttavia, prima di arrivare a questo occorre evidenziare come” la povertà, intesa oramai come una questione essenzialmente di ordine pubblico induce lo Stato, in conseguenza delle trasformazioni sociali prodotte dallo sviluppo del capitalismo mercantile e manifatturiero, a garantire un proprio intervento più articolato. Allo Stato non si chiedeva più di approntare strumenti di natura repressiva ma anche di assicurare benessere ai cittadini”5 Le nuove idee illuministiche cominciano a diffondersi sempre più ed in Francia, ad esempio, a differenza di quanto era avvenuto in Inghilterra con le workhouses, nascono gli “Ateliers de Charitè” che promuovevano l’occupazione dei poveri “abili” al lavoro discostandosi dalle pratiche di internamento e coercizione tanto in auge in periodi precedenti. Sarà la Francia rivoluzionaria ,attraverso l’abbattimento dei vincoli corporativi, a varare la prima “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino” che, tra le altre cose, sanciva il principio dell’assistenza ai poveri attraverso il lavoro. Sarà sempre la Rivoluzione francese a segnare il punto più alto di una attiva politica di interventismo statale, cosa che ebbe a suscitare la diffidenza, la paura del contagio in altre realtà europee. In Inghilterra i timori di questo contagio insieme alle pressioni degli ambienti filantropici produssero l’attenuazione delle disposizioni contenute nell”Act of Settlement” del 1662 che stabilivano il domicilio coatto per chi si avvaleva dell’aiuto per i poveri e favorirono, di converso, la ripresa della circolazione della manodopera soprattutto verso quelle zone dove più intenso era lo sviluppo economico. In termini più prosaici, si intendeva,in tal modo, rendere possibile la creazione di un mercato nazionale del lavoro. Inoltre, con lo “Speenhamland System del 1795, oltre ad essere, di fatto, abolite le workhouses venne sancito il “diritto di vivere”, cioè la pretesa legale alla sussistenza. Ma, ben al di là delle enunciazioni di principio, ad emergere con nitidezza è il carattere strumentale del provvedimento che da un lato serviva a garantire al capitalismo inglese la pace sociale, soprattutto tenendo conto del potere di suggestione dei moti rivoluzionari francesi, dall’altro, con l’abolizione delle workhouses e delle odiose pratiche di internamento e col relativo contenimento indiretto dei salari, si garantiva lavoro a basso costo ai proprietari terrieri ed ai primi industriali. Lo Speenhamland System ebbe infine l’effetto di spezzare ulteriormente il vincolo tra i contadini e la terra accentuando ulteriormente il fenomeno dell’abbandono delle campagne ed andando incontro alle esigenze della nascente industria. Questo processo di industrializzazione iniziatosi in Inghilterra si estese, via via, nel resto dell’Europa con modalità e tempi differenti ma con una caratteristica comune: alle tradizionali forme di povertà si aggiungevano nuove tipologie di miseria e di emarginazione dovute a vari fattori: l’incremento demografico nonché gli effetti della Rivoluzione industriale e della Rivoluzione tecnologica sulla stratificazione sociale dei vari paesi. Le nuove tipologie di miseria e di marginalizzazione divennero il cuore pulsante della “questione operaia” che ebbe modo di manifestarsi, già nel ‘700, con ondate rivendicative, con rivolte ma anche con la nascita delle prime associazioni popolari su base mutualistica (friendly societies) che presero a lottare per l’estensione dei diritti politici e civili. Essenzialmente il principio mutualistico consisteva in un patto associativo, sottoscritto dai lavoratori, che prevedeva il versamento e l’accantonamento di quote che potevano servire per assicurare un vitalizio dopo un certo limite d’età, per coprire determinati rischi quali la disoccupazione,le malattie, gli infortuni o per fornire altri tipi di provvidenze. Siamo nel 1834, nell’Inghilterra di Robert Owen, e, come per ribadire il principio che la storia essenzialmente sia storia della lotta tra le classi, la nuova borghesia emergente riesce a far varare la New Poor Law del 1834 con la quale viene accantonata la Speenhamland ma, soprattutto, viene reintrodotto il lavoro coatto insieme alle famigerate workhouses. Ma nonostante questo le associazioni mutualistiche presero, nel tempo, oltre al reciproco soccorso, a perseguire altri obiettivi come “la creazione di una rete di protezione, su base volontaria, che tutelava alcuni settori avanzati dell’artigianato e della classe operaia, in modo indipendente dallo Stato e dalle organizzazioni religiose che tradizionalmente avevano gestito gli aiuti ai ceti più deboli.”6 L’innovazione, la conquista, è palese e la dice lunga sulle potenzialità e sullo spirito di iniziativa dei ceti lavorativi. Ma il dato paradossale è che questa rete di protezione finisce per diventare una sorta di laboratorio dove sperimentare nuove forme di assicurazione e copertura dei rischi che successivamente saranno fatte proprie, con apposite leggi, ed utilizzate su scala assai più ampia dallo stesso Stato nel mentre il processo di potenziamento dell’associazionismo operaio, sempre più sostenuto, perviene ad uno dei suoi più significativi successi, in Inghilterra, il Trade Union Act” del 1871, col quale veniva concessa alle organizzazioni lavorative la possibilità di stipulare contratti collettivi. “Il termine Stato sociale dentro il quale vanno a confluire i provvedimenti sull’assistenza, sul controllo del mercato del lavoro, l’importanza e il ruolo delle organizzazioni di autotutela (p.es. le friendly societies), la funzione della legge nei rapporti individuali e nelle relazioni industriali, gli stanziamenti per i servizi sociali, il livellamento delle condizioni di vita o la redistribuzione del reddito”7 permette di approfondire l’importanza e l’incidenza che ciascuno di questi provvedimenti ha nei singoli Stati. Con la scomparsa delle forme tradizionali del solidarismo lo Stato sociale assurge al ruolo di responsabile pubblico per antonomasia nei confronti dei poveri per tutto il periodo del cosiddetto “pauperismo preindustriale” per poi andare concentrarsi sulla questione operaia rappresentando, esso stesso, una risposta ad una esigenza sempre più crescente di regolare i rapporti economici e sociali la cui crescente complessità è una diretta derivazione dell’industrializzazione, dell’urbanizzazione e dell’inasprimento dei conflitti di classe. Mirando, attraverso la sicurezza sociale, all’integrazione della popolazione nonché alla stabilizzazione dei sistemi politici, economici e sociali lo Stato sociale tende, per definizione, ad un allineamento delle condizioni di vita, all’uniformità, alla centralizzazione. E’ solo partendo da queste brevi considerazioni che si può comprendere l’introduzione di uno schema di assicurazioni obbligatorie, in caso di malattie, infortuni, invalidità, vecchiaia varate, nel 1883, dal cancelliere tedesco Bismarck e che rappresenta il primo esempio di Stato sociale moderno. E’ vero che la copertura finanziaria di tali provvedimenti era per 2/3 a carico dei lavoratori e per 1/3 a carico dei datori di lavoro ma ciò che preme far rilevare è come questa riforma sia stata resa possibile da un contesto di crescita economica alimentata, tra l’altro, dalla esportazione di capitali in eccesso e dal loro impiego sui mercati internazionali, il che consentiva ai paesi industrializzati di poter realizzare consistenti masse di extra-profitti. Gli elementi innovativi dello Stato sociale bismarckiano sono condensati nel criterio della obbligatorietà che, di fatto, portava ad istituzionalizzare le assicurazioni occupazionali, cioè contributive. Ma, oltre a questo, un altro aspetto interessante era rappresentato dal fatto che queste assicurazioni avevano come soggetti privilegiati lavoratori di sesso maschile e appartenenti al settore industriale avanzato creando, attraverso l’utilizzo di piccole parti di extra-profitti, settori di cosiddetta “aristocrazia operaia” ed infatti, partecipando questi lavoratori al finanziamento degli schemi assicurativi, da un lato vedevano riconosciute certe loro rivendicazioni, dall’altro venivano inseriti all’”interno del sistema” svuotandoli di ogni possibile velleità rivoluzionaria. Le finalità politiche di questi provvedimenti erano palesi: si trattava di corrompere parte della classe operaia all’interno di un piano strategico che si compendiava nella legislazione antisocialista degli anni 1878-90 la quale aveva come obiettivo quello di erodere la base del nascente movimento operaio tedesco irretendolo con l’adozione di riforme sociali. A livello europeo l’approccio dominante delle riforme fu quello bismarckiano tuttavia nel 1891, in Danimarca, venendo meno ai principi maggiormente in auge, venne riconosciuto il diritto alla pensione di anzianità anche agli ultrasettantenni che, pur non avendo mai versato quote di alcun genere, si trovavano in condizioni di disagio sociale. Questo precedente, fermi restando i meccanismi di contribuzione obbligatoria o volontaria, forniva un approccio diverso alle politiche previdenziali: il cosiddetto approccio universalistico. Il XX secolo si caratterizza per un maggior coinvolgimento e collaborazione dei partiti socialisti coi governi liberali il che si traduce in una nuova stagione di riforme sociali che andavano dal riconoscimento e regolamentazione delle libertà sindacali all’assicurazione di vecchiaia per tutti i salariati. Resta totalmente inteso che la copertura era in massima parte a carico dei lavoratori, in parte dei datori di lavoro ed in minima parte a carico dello Stato. Di particolare rilievo è, in Inghilterra, l’opera di revisione della legislazione sociale e la battaglia intrapresa, all’interno del movimento laburista, da parte dei “fabiani” per la cancellazione della odiosa New Poor Law. In estrema sintesi possiamo rimarcare, in tutto questo periodo, l’intervento sempre più massivo da parte dello Stato nelle politiche previdenziali, processo che avrebbe subito una ancor più notevole accentuazione con lo scoppio del primo conflitto mondiale laddove l’esigenza di organizzare per il meglio il fronte interno, di compattarlo, indusse sia gli Stati uniti che i paesi europei ad una dilatazione dell’intervento pubblico che, a sua volta, avrebbe, nell’immediato dopoguerra, costituito il substrato su cui innestare altre riforme. Quindi il periodo tra le due guerre segna un’incidenza sempre maggiore dei sistemi di sicurezza sociale sul PIL interno in quanto le politiche statali d’intervento fanno un salto di qualità passando dal mero aiuto ai bisognosi all’assistenza ed alla tutela del benessere che cominciano a tratteggiare quello che negli anni ’40 sarà chiamato “Welfare State”. A tutto ciò aveva dato il suo fattivo contributo una consistente pressione dal basso da parte della classe operaia organizzata, soprattutto se si tiene conto di ciò che la Rivoluzione russa aveva rappresentato in termini di conquiste di diritti fondamentali da parte dei lavoratori e di ciò che avrebbe potuto rappresentare come esempio a cui riferirsi per la classe internazionale dei lavoratori , anche se, considerato l’isolamento a cui era costretta la Russia sovietica ed il fallimento dei tentativi di sovvertire l’ordine sociale in senso socialista, come avvenuto in Germania, in Italia e in Ungheria, tale pressione era stata intelligentemente sviata dagli obiettivi di eguaglianza sociale per essere surrogata da sistemi di sicurezza che vedevano sempre più l’assicurazione dei lavoratori trasformarsi in assicurazione popolare dando origine all’affermazione della società di massa. Un ruolo fattivo in tale contesto era stato svolto dalle organizzazioni partitiche e sindacali le quali accantonando le analisi fatte dal socialismo rivoluzionario tendevano ad operare all’interno delle istituzioni per mitigare le laceranti contraddizioni del capitalismo attraverso tutta una serie graduale di riforme. Ma la crisi devastante del ’29 sembra farsi beffa di questa sorta di Union Sacrèe e le politiche d’intervento intraprese dal presidente americano Roosevelt, prendendo le distanze dall’originaria impostazione, minimalista e tutta americana, circa il ruolo dello Stato nella’adozione di politiche sociali, vara il New Deal da intendersi “non solo come efficace risorsa di promozione sociale e cittadinanza, ma anche come strumento anticiclico e di sviluppo, capace di integrarsi in un nuovo quadro di politiche economiche.”8 In termini operativi tali dichiarazioni d’intenti ebbero modo di trovare esplicita espressione, nel 1935, nel varo del”Social Security Act”, legge mediante la quale veniva creta una copertura assicurativa obbligatoria per l’invalidità, la vecchiaia nonché una indennità di disoccupazione e la cui copertura finanziaria era garantita dall’accantonamento dei contributi versati. Ma il tratto più originale, quello più innovativo, della legislazione sociale americana è l’introduzione di un criterio di finanziamento “a ripartizione” che, a differenza di quanto avveniva col sistema “ a contribuzione”, ossia con l’accantonamento delle quote in un fondo, utilizzava i contributi versati dai lavoratori per assicurare le prestazioni previdenziali a quelli che ne usufruivano. Il vantaggio di questo sistema consisteva nel poter disporre di una notevole quota di capitali da potere utilizzare prontamente mediante erogazione. La crisi del ’29 col mettere in evidenza i limiti dei vari sistemi di copertura segna soprattutto l’inizio di un dibattito sul ruolo dello Stato a fronte di fenomeni come la disoccupazione di massa , la stagnazione, l’estrema vulnerabilità del sistema di fronte ad una crisi di tali dimensioni. E’ un dibattito che riguarda lo Stato sociale totalitario quale quello fascista o nazista come anche lo Stato sociale socialdemocratico, idealizzato come “terza via” equidistante sia dagli eccessi del liberalismo economico che dall’anonimo appiattimento collettivistico e che si nutre anche di aspetti farseschi come l’ipotetico “neosocialismo francese” di Déat e della sua ossessiva ricerca di un socialismo antimarxista. Ciò che in questo periodo rappresenta una trasformazione di portata storica che interessa soprattutto il mondo scandinavo ed in particolar modo la Svezia è il varo di una serie di misure che preludono all’ ammiccante “Politica del focolare” (Folkhempolitik). Tale politica si basava su un compromesso con l’economia di mercato sancita da un accordo tra i sindacati dei lavoratoti e dei datori di lavoro e andava a costituire il nuovo cardine di quella politica sociale svedese incentrata sull’assunto che la protezione sociale non dovesse riguardare più i soli lavoratori bensì tutti i cittadini. Venne quindi varata la “Folkpension” (pensione popolare) la cui copertura finanziaria era assicurata dal prelievo fiscale e che poteva, a giusta ragione, essere considerata tra gli elementi precursori del Welfare State il cui impianto di base poggiava su una concezione universalistica dei sistemi sociali unita ad una maggiore accentuazione del ruolo dello Stato, il tutto inserito in un ottica di “sicurezza sociale” che era stato il caposaldo principale della politica anticrisi posta in essere da Roosevelt. In tal modo l’esperienza statunitense e quella svedese finiscono per diventare elementi fondanti di un processo di ridefinizione ideologica e programmatica con cui cercar di dare fattive risposte alla “Grande Depressione” del ’29.

La terza fase: dal rapporto Beveridge fino alla crisi degli anni settanta

Il Welfare State, a forte connotazione universalistica, nasce in Inghilterra ed è costituito da tutta una serie di provvedimenti sociali varati durante il secondo conflitto mondiale. E’ la sintesi di un progetto di riforma portato avanti, dal 1942 al 1945, dall’economista William Beveridge che facendo espresso riferimento alla legislazione americana dei secondi anni ’30, teorizza un preciso intervento dello Stato a favore del cittadino attraverso un sistema di protezione sociale che lo copra “dalla culla alla bara” (from the cradle to the grave) in termini di lavoro, abitazione, alimentazione, istruzione, pensione e cure mediche. Con un mondo, a guerra conclusa, a dimensione bipolare l’impostazione di Beveridge riceve un notevole impulso nella sfera d’influenza occidentale laddove si cercava di affermare un nuovo modello di Stato mettendo insieme l’impostazione keynesiana basata sulle politiche d’intervento statali in campo economico e quella beveridgiana basata sulle politiche sociali sintetizzate dal Welfare. C’è da dire che contribuirono all’affermazione del Welfare diversi fattori quali lo sviluppo della società di massa, la diffusione del sistema “fordista” nonché una maggiore razionalizzazione dei processi produttivi, attraverso la taylorizzazione del lavoro, che comportarono considerevoli incrementi di produttività. Non meno importanti furono la concertazione nelle relazioni industriali né la valenza assunta da accordi internazionali come il Piano Marshall o gli accordi di Bretton Woods. Si venne pertanto a delineare, ad inizio anni ’50, quello che venne definito “periodo d’oro” (golden age) dell’economia, dove una sostenutissima fase di crescita, intimamente legata alla ricostruzione postbellica, consentì una progressiva espansione dello Stato sociale con un conseguente maggior impegno finanziario da parte di parecchi Stati che arrivarono ad investire per le politiche sociali più del 10% del proprio PIL. Allorchè l’interventismo statale va ad accompagnarsi alle politiche delle nazionalizzazioni, della piena occupazione e delle relazioni industriali diventa assai più corposa la suggestione che una terza via,che non fosse né capitalismo né comunismo, abbia potuto suscitare una certa attrazione presso parecchi governi. Il “periodo d’oro” dura oltre un ventennio ma già a metà anni ’60 cominciano a sentirsi i primi scricchiolii di un andamento economico altalenante che non poteva non avere ripercussioni sulle riforme sociali in termini, da parte dei vari governi, di contenimento della spesa e/o di inasprimento del prelievo fiscale. Alla “golden age” seguiva una fase che si caratterizzava per la prevalenza del settore dei servizi e delle nuove forme di produzione legate alle tecnologie avanzate. La crisi dei profitti industriali mordeva alle caviglie e la denuncia degli accordi di Bretton Woods (agosto ’71) da parte dell’ammini-strazione Nixon, allo scopo di evitare di dichiarare bancarotta, ed a seguire altri rilevanti avvenimenti come la guerra del Kippur del 1973 produssero effetti devastanti che si espressero attraverso un’impennata dei costi dei carburanti con annessa crescita esponenziale dell’inflazione. L’andamento del dollaro aveva ripercussioni letali per tutte le altre monete in termini di perdita di potere d’acquisto dal che ebbe a derivarne una grave crisi finanziaria con crollo della produzione e aumento della disoccupazione alla quale si cercò, quanto meno nei paesi europei, di dare risposta attraverso gli “ammortizzatori sociali” o politiche attive di reinserimento e di riqualificazione professionale. Ma il dato che compendia al meglio il mutato spirito dei tempi è il nuovo atteggiamento nei confronti del Welfare verso il quale montò una marea di critiche provenienti non solo dai settori tradizionali della borghesia, che non erano mai stati particolarmente teneri verso lo Stato sociale quando non lo avevano, del tutto, considerato una jattura, ma anche dai partiti di ispirazione socialdemocratica che, fatte proprie fin dagli ultimi decenni del XIX secolo le compatibilità borghesi, non potevano non accodarsi alle riserve sulla prodigalità(!) delle scelte precedenti per cui la stessa locuzione di “Stato sociale” non esprimeva più – dal loro punto di vista – la nuova realtà per cui l’accezione negativa di “Stato assistenziale” poteva attagliarsi meglio.

Conclusioni

La teorizzazione circa la necessità di recuperare le virtù salvifiche e regolatrici del mercato per mezzo di un drastico ridimensionamento del ruolo dello Stato diventano il leit-motiv ben interpretato da due “campioni” del calibro di Ronald Reagan e della Tatcher le cui politiche esprimevano al meglio questa fase fatta di tagli alla spesa pubblica nonché di una radicale revisione del sistema di protezione sociale. Tuttavia, per avere un’idea del tutto e comprendere meglio ciò che si nasconde dietro le giaculatorie borghesi (componente riformista inclusa), sarebbe opportuno tratteggiare meglio il Welfare State inserendolo, coerentemente, in quella che Marx definisce “storia di lotta tra le classi sociali” e smontare, conseguentemente, quella specie di assunto secondo cui lo Stato sociale rientrerebbe tra le provvidenze, le concessioni che la borghesia ha dispensato a favore del proletariato. Niente di più falso! E’ stata la combattività della classe operaia ad obbligare il capitalismo alle concessioni. E’ stato il sacro terrore di rivolgimenti sociali che ha indotto il capitalismo nei paesi avanzati, a cavallo tra il XIX ed il XX secolo, per garantirsi una certa coesione sociale, ad approntare misure, in termini non solo salariali, a favore di fasce sempre più estese di proletariato e non solo della suddetta aristocrazia operaia. V’è inoltre da rimarcare come lo Stato sociale benché sia stato rappresentato come una conquista del proletariato, in termini pratici, sia stato pagato dallo stesso proletariato attraverso la contribuzione diretta e attraverso la fiscalità generale. Ma, come dicevamo, essendo momento rappresentativo della lotta di classe tra borghesia e proletariato, del contrasto irriducibile tra capitale e lavoro, non poteva, nel corso del tempo, non essere condizionato dalle congiunture economiche per cui nelle fasi ascendenti del processo di accumulazione i capitalisti possono anche tollerare lo Stato sociale. Ad esempio, dopo la seconda guerra mondiale, sempre i capitalisti “avevano poca scelta dato che la svalutazione del capitale e la penuria di forza–lavoro prodotta dal conflitto da poco concluso li obbligavano ad accettare il ruolo dello Stato nella redistribuzione del plus-valore per mantenere la pace sociale tra le classi.”9 Esauritesi le fasi ascendenti e con il progressivo incedere delle crisi economiche alla borghesia non resta che attaccare le condizioni di lavoro e di vita del proletariato e “sotto l’impatto della crisi ciò che il capitalismo aveva concesso quando era attaccato dal proletariato insorgente e quando gli abbondanti extra-profitto lo avevano consentito può essere ora ripreso smantellando lo Stato sociale”.10 Tutto ciò risponde all’esigenza primaria del capitalismo, ossia di utilizzare tutte le risorse disponibili per garantire il processo di accumulazione con tagli inevitabili a pensioni, sanità, scuola, trasporti pubblici cioè tutto ciò che è configurabile come Stato sociale sebbene quest’ultimo non è, in nessun modo, una generosa elargizione della borghesia, bensì una quota di salario, quella indiretta e differita, a cui i lavoratori devono rinunciare per vedersi garantiti servizi e previdenze. Laddove questi vengano ripetutamente taglieggiati o, del tutto, non più forniti allora possiamo sostenere che viene perpetrato da questi ceti ormai anti-storici un ignobile saccheggio del proletariato che si cerca di motivare dando la colpa al deficit dei bilanci pubblici unitamente ai costi sempre crescenti dello Stato sociale. Tuttavia “una analisi in qualche misura approfondita scopre che la radice è sempre l’impianto capitalistico”.11 Scaturiscono da tutto ciò – per contrasto – reazioni che sono, a loro volta, espressione di un disagio sociale sempre più esteso insieme a tensioni che vanno prendendo sempre più forma e consistenza. Ci si comincia a mobilitare un po’ dappertutto e trova modo di manifestarsi una conflittualità sociale che soltanto gli esegeti del capitalismo più conseguente si autocostringono a non vedere. Tutto questo però è molto frammentato ed episodico mancando fondamentalmente – si tratti di manifestazioni per il diritto allo studio, o contro la cancellazione del contratto collettivo di lavoro come anche contro la privatizzazione dell’acqua o contro la vergogna della raccolta dei rifiuti – un momento di sintesi che sempre verrà a mancare se non si costruisce il solo organismo capace di enuclearla: il partito rivoluzionario.

Gianfranco Greco

Note

1 Eva Cantarella, Giulio Guidorizzi: Corso di storia antica. Vol. I. Ed. Einaudi

2 F. Engels: L’origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato. Ed. Savelli

3 A. Saitta: Produzione e traffici nella storia della civiltà. Vol. I. Ed. Sansoni

4 F. Conti, G. Silei: Breve storia dello Stato sociale. Ed. Carocci

5 Fulvio Conti, Gianni Silei. Op. cit.

6 Idem

7 G. Ritter: Storia dello Stato sociale. Ed. Laterza

8 F. Girotti: Welfare State. Ed. Carocci

9 Prometeo: Puntualizzazione sul concetto di decadenza. Dicembre 2005

10 Idem

11 C. Ravaioli: Intervista con Lunghini. Il Manifesto 28.10.10