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La manifestazione degli indignati italiani del 15 ottobre e il nostro vederla nel contesto dell’approfondirsi della crisi della società capitalistica.
Dopo la manifestazione del movimento degli indignati italiani del 15 ottobre scorso proviamo ad inquadrarlo all’interno della crisi, senza pontificare sui limiti o sulle potenzialità di quel movimento. Vogliamo però iniziare con decisione e fermezza col dire una parola chiara sugli atti di violenza compiuti dal cosiddetto blocco nero. Qui non stiamo parlando della lotta di classe, nemmeno dello Stato borghese quale organizzazione violenta degli interessi della classe economicamente dominante, come non della classe dei lavoratori salariati quale classe moderna di schiavi, liberi formalmente ma dipendenti economicamente e quindi non liberi, come non ci interessa l’ambigua batracomiomachia tra violenza e non violenza nella lotta anticapitalistica. Più semplicemente e chiaramente accenniamo a quello che potremmo definire il religioso istinto del cadavere. Religione che si esprime ad ogni manifestazione con un suo rituale di distruzione, di gesti liberatori che si elevano a mito, col solo risultato di essere funzionali e tutti interni alla società classista borghese. Il rito è quello della violenza per la violenza che nulla cambia e nulla vuole cambiare, qui sta il fondamento cadaverico di una religione del gesto mitico. E’ un cortometraggio che abbiamo già visto negli anni ’70 e ’80 del secolo scorso. E’ poi puerile l’accusa di violenza alle forze dell’ordine: fanno il loro lavoro; come il portare a dimostrazione la defenestrazione con la forza dalla Puerta del Sol dei pacifici indignati spagnoli, o la repressione e violenza subita dai pacifici indignati americani. Se vogliamo trovare una motivazione politica dobbiamo andare al movimento degli indignati, perché ci pare che loro e non altri abbiano indetto quella manifestazione. Questa motivazione la possiamo sintetizzare in una frase: mancanza di lavoro, di futuro, di rappresentanza politica, l’essere derubati dai crimini economici commessi dai colletti bianchi della finanza, il non voler pagare la crisi provocata dalla finanza e tantomeno il debito pubblico. Interclassismo e pacifismo quale limite del movimento abbiamo letto da un lato, movimento indignato che, con l’aiuto degli scontri inevitabili, potrebbe portare ad un mutamento di modello di sviluppo da un altro, ma la novità sta nel fatto che esponenti della finanza mostrano di comprendere questa indignazione. La gravità della crisi capitalistica fa partorire comprensione. Così il neo governatore della Bce Draghi:“Se siamo arrabbiati noi per la crisi, figuriamoci loro che sono giovani che hanno venti o trent’anni e che sono senza prospettive. Se la prendono con la finanza come capro espiatorio ….. Ma li capisco: hanno aspettato tanto. Noi, alla loro età non lo abbiamo fatto” 1. Corrado Passera, consigliere delegato di Intesa Sanpaolo: “Ci sono forti ragioni per indignarsi, nel mondo, in Europa e nel nostro paese. C’è una disoccupazione che ha una dimensione tre-quattro volte maggiore delle cifre ufficiali. Una parte importante della società nutre una fortissima preoccupazione per il suo futuro …” 2. Ma il più chiaro è l’ex presidente della Consob Guido Rossi, colui che un anno fa in una intervista rilasciata a ‘il manifesto’ così argomentò sulla crisi: “Bisogna fare la rivoluzione. La rivoluzione russa è quella che ha cambiato l’ideologia del capitalismo industriale”. Se un anno fa la rivoluzione avrebbe dovuto cambiare l’ideologia del capitalismo industriale, oggi occorre “una politica che persegua, anche nella globalizzazione, fini di giustizia e risolva a tutti i livelli le sempre più intollerabili disuguaglianze, figlie del predominio della finanza” 3. Si dice apertamente che nei paesi ricchi “i ricchi diventano sempre più ricchi, i poveri sempre più poveri e la disoccupazione aumenta, mentre le giovani generazioni si trovano senza futuro”, questo per una politica economica che ha fatto prevalere “quale incentivo allo sviluppo economico, il principio cardine della deregolamentazione, cioè del non - diritto”. Disuguaglianze e non – diritto che “non sono la conseguenza naturale delle forze di mercato, ma sono dovute a decisioni politiche ben precise”. Insomma le ragioni degli indignati sono spiegate e comprese dal quotidiano di Confindustria. Perché? Perché la crisi è grave, e perché il predominio della finanza affiancato dalle politiche neoliberiste oltre ad aver divorato il risparmio privato ora sta attaccando il debito degli Stati speculando sulla loro insolvenza. Il problema per il capitale è però la sua valorizzazione e non si può valorizzare sul default collettivo, anche Draghi è arrabbiato per la crisi. Occorre un mix di svalorizzazione, di aumento dello sfruttamento, dell’ampliamento dell’impiego e dell’utilizzo flessibile dell’unica fonte di plusvalore presente nella società capitalistica: il lavoratore salariato, ovviamente avendo un occhio di riguardo per i giovani, appunto quelli senza futuro. E mentre i giovani e meno giovani indignati manifestano la loro condizione di profondo disagio sociale esprimendo cosa non va ed aspettandosi delle risposte, altri giovani dicono cosa occorre fare. Ci riferiamo al Convegno dei giovani imprenditori, al loro XXVI Convegno di Capri del 21-22 ottobre 2011. Convegno avente come tema ‘Alziamo il volume. Diamo voce al futuro’, come da relazione di apertura del loro Presidente. Qui la pesante crisi italiana è stata rappresentata con tre numeri: 120-27-0. 120 è il 120% del debito pubblico in relazione al PIL; 27 il 27% del tasso di disoccupazione giovanile; 0 è la previsione di crescita del PIL per il 2012. Per cui ci stiamo progressivamente impoverendo: “Lo sottolineiamo con forza: la situazione da fronteggiare non è solo il risultato di una finanza internazionale mal regolata. La crisi italiana nasce, innanzitutto, dalla mancanza di riforme strutturali e dall’eccesso di debito pubblico, contratto per acquisire e mantenere consenso” 4. Come uscirne se non con la crescita economica, la chiave di volta di tutto, parola di governatore: “la crescita economica non può fare a meno dei giovani, né i giovani della crescita”. Crescita con i giovani e per i giovani, ma come? “Avere un sistema fiscale che incentivi ad investire in nuove imprese. […] Rimuovere i vincoli, le restrizioni e le segmentazioni del mercato del lavoro, costruire un favorevole contesto per l’attività imprenditoriale. Promuovere una maggiore formazione ed una alternanza scuola-lavoro”, e invertire tutta una serie di situazioni negative per l’impresa “Quando l’accesso al credito è limitato, quando il mercato del lavoro è bloccato, quando il costo dell’energia è più alto che negli altri paesi, quando c’è carenza di infrastrutture. Quando la pressione fiscale raggiunge livelli record per chi, onestamente, paga le tasse. Quando la cultura d’impresa non è valorizzata. Quando, in una parola, fare impresa è come nuotare contro corrente”. Ma non basta perché occorre anche la riforma del welfare al fine di ricollocare risorse economiche verso i settori produttivi. Troppo stato sociale stroppia perché “I diritti non sono tutti uguali, se quelli civili e politici sono intoccabili, quelli sociali non possono essere, invece, considerati immutabili nel tempo. Dipendono dal funzionamento dell’economia, dal gettito fiscale e dall’andamento della demografia”. E poiché si spende più in previdenza che in istruzione, cioè si spende più per i vecchi che per i giovani, più per il passato che per il futuro “Occorre, allora, innalzare l’età pensionabile a 70 anni, escludendo i lavori usuranti, abolire le pensioni di anzianità, equiparare, da subito, il sistema per uomini e donne”. Potenza del funzionamento dell’economia nel disuguagliare i diritti e nell’uguagliare i lavoratori. Dopo aver premesso quello che deve essere attuato al fine di promuovere la crescita arriva la scommessa: “Diciamo al Paese e a chi ha la responsabilità politica: in 20 anni, nel tempo di una sola generazione, possiamo raddoppiare la ricchezza, raddoppiare il prodotto interno lordo. E’ la nostra scommessa di imprenditori”, ovviamente aumentando la competitività e la produttività del lavoro per vendere all’estero. Modestamente diciamo che 60 anni fa la scommessa era il benessere per tutti, fuori dal ventennio, eccoci qua alle soglie di un altro ventennio. Inoltre ci si soffermi sull’enorme dispendio di energie umane richiesto: occorre raddoppiare il PIL per riassorbire la disoccupazione giovanile e riportare il debito pubblico entro limiti accettabili, fatto salvo il saggio di profitto. Ma, come dicono, la scommessa è subordinata al fatto che ci vogliono “le riforme strutturali che cambino il nostro Paese. Una nuova fondazione”. A sua volta per questo è necessaria una politica, una ‘classe dirigente’ e dei leader: “come imprenditori prendiamo questo impegno, con le riforme metteteci in grado di onorarlo (qui è già indicato il colpevole del mancato impegno n.d.r.). Finora si sono rimandati i problemi, fino a mettere in pericolo la nostra stessa sopravvivenza (qui è espressa la gravità della crisi e la profondità degli effetti della caduta tendenziale del saggio medio del profitto n.d.r.). Abbiamo bisogno di leader che sappiano spiegare, convincere e agire: l’unica prova concreta della leadership è la capacità di guidare”. Vogliamo solamente accennare come i giovani imprenditori si dimentichino la storia del capitalismo, assolvendosi ampiamente sebbene la loro classe sociale abbia ininterrottamente governato e stabilito dove e come fare o non fare gli investimenti, ma si sa il capitalista vede solo il presente e dalla astorica situazione presente elabora ricette e scommesse sulla base del funzionamento dell’economia, funzionamento di cui dubitiamo sappia dare delle spiegazioni. Però proporre una nuova fondazione equivale a proporre un nuovo patto sociale e per questo occorrono più leader che, per la loro parte, sappiano spiegare, convincere ed agire. Patto sociale che dovrebbe riaprire il ciclo di accumulazione senza una preventiva distruzione di uomini e cose. Ma chi oggi, in Italia, ha la forza e la capacità per realizzare il compito posto dalla classe economicamente dominante? Compito che equivale alle richieste della Ue e della Bce. Il passaggio politico è quello di spiegare e convincere i giovani e i meno giovani che l’interesse del capitale è pienamente il loro interesse, in ciò sta lo strappo generazionale, che è lo strappo sul welfare e sui contratti, che è la fine del compromesso socialdemocratico e la valorizzazione della cultura d’impresa. In ciò sta la comprensione per gli indignati. Questa è la realtà: senza una sufficiente valorizzazione del capitale c’è crisi e non lavoro, ovvero il capitale senza lavoro e con esso un adeguato pluslavoro compromette la propria esistenza, e la realtà della società capitalistica con i suoi rapporti di forza è intrinsecamente determinante, questo è il presunto interesse comune. Si vuole il lavoro eccolo, ma non si pretendano i diritti sociali: i margini di trattativa sono tutti all’interno di questa prospettiva. E’ un notevole passo per chi pretende di essere la classe sociale che ha per vocazione il superamento dei limiti naturali, a favore dello sviluppo, del benessere e della felicità dell’uomo.
Ghem
1 “Peccato, violenza inaccettabile. Comprensione di Draghi per gli indignados prima che la situazione degenerasse”, Il Sole 24 ore, 16 ottobre 2011, pag. 2.
2 “Aiutare i giovani. No agli estremisti”, Il Sole 24 ore, 16 ottobre 2011, pag. 2.
3 “Le ragioni dei veri indignati. Le disuguaglianze figlie del predominio di una finanza senza regole”, Il Sole 24 ore, 16 ottobre 2011, pag. 14, da qui le successive citazioni.
4 “Alziamo il volume. Diamo voce al futuro”, le tesi dei giovani imprenditori, relazione del Presidente Jacopo Morelli, si può leggere sul sito di Confindustria. Da qui le successive citazioni.