Lobbies, consorterie, precarietà e disperazione, così si modernizza l’Italia

Creato: 23 Settembre 2010 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 2029

-          Federalismo

-          Riforma fiscale con riduzione della pressione fiscale complessiva

-          Piano per il Sud con conseguente rilancio dei lavori pubblici (in primis il ponte sullo  Stretto)

-          Giustizia: sua riforma complessiva con molteplici subordinate a seguire

-          Sicurezza intesa come “lotta senza tregua” (!) alla criminalità organizzata ma soprattutto respingimento degli immigrati illegali e dispiegamento dei militari nelle grandi città.

Sono questi i punti sui quali dovrebbe ricompattarsi quella sorta di “Armata Brancaleone” quale è diventato l’attuale governo di centro-destra e che vengono continuamente reiterati con ritmi e cadenze da mantra ed il cui punto caldo, quello focale non può essere costituito che dalla giustizia con tutti i conseguenti lodi e scudi esclusivi che una  situazione, non ancora “normalizzata”, impone e che, di certo – ci sia consentita l’ironia – costituisce la riforma per la quale trepidano cassintegrati, precari, disoccupati, insegnanti.

Ironia a parte, nello specifico contesto ciò che colpisce maggiormente è lo stacco netto, quasi asettico tra ciò che è ritenuto prioritario dalle forze di governo ed il disagio sociale con tutto ciò che si porta dietro in termini di criticità, ansie, aspettative che attengono – queste sì – a condizioni di vita e di lavoro che riguardano strati sempre più estesi di popolazione e che vengono puntualmente, con sistematicità, inevase.

Tutto ciò è reso possibile da una occupazione capillare di tutti i gangli della macchina statale che rende fattuale una solida dedizione ad un affarismo fatto di corposi interessi che spaziano dal campo bancario a quello assicurativo, da quello dell’amministrazione della cosa pubblica a quello industriale. Affarismo che, a sua volta, trova modo di tradursi in una sorta di privatismo che rimanda a pratiche organico/degenerative che erano proprie delle satrapie e che trovano espressione in provvedimenti legislativi, amministrativi, economici, politici che si attagliano perfettamente ad esigenze peculiari di singole persone, di singole aziende o di singole attività in campi tra i più disparati.

Vanno a stagliarsi, quindi, nitidamente,  lobbies, consorterie, comitati d’affari che configurano delle vere e proprie oligarchie economico-finanziarie ai cui vertici troviamo dei “dominus”che rappresentano da sé i propri interessi, come avviene in Italia con Berlusconi, oppure incarnano quelli di lobbies petrolifere e militari – come avvenuto in America con Bush – oppure, ancora, quelli della City finanziaria londinese come nel caso di Tony Blair.

Una trasversalità che percorre ambedue gli schieramenti politici italiani dà il segno che questi ultimi, ambedue borghesi e al di là di una stantìa rissosità di facciata, orientano i loro sforzi prevalentemente nella salvaguardia di questi potentati e nella difesa ed ampliamento delle loro rendite.

Ci si imbatte quotidianamente in sigle come Finmeccanica, Protezione civile spa, Fastweb-Telecom, Sparkle, Credito cooperativo fiorentino, Mediaset, le stesse Coop. Sono note le vicende legate alle scalate bancarie come anche taluni salvataggi di assai improbabili istituti finanziari come il CreditEuronord (la banca della Lega), salvato dalla cialtroneria dei propri dirigenti da parte della Banca popolare di Lodi.

Ebbene tutte queste esemplarietà non fanno altro che fotografare compiutamente, in profondità come in ampiezza, un fenomeno che ha a che vedere con gruppi di potere le cui strategie perseguono sempre più un accentramento della ricchezza in poche mani e, nell’operare secondo tali dettami, si  avvalgono, secondo il classico schema oligarchico, di propri uomini di fiducia che, ad esempio, troviamo in cospicua presenza in Parlamento. Il Porcellum cos’altro rappresenta, infatti, se non l’esigenza di demandare a pochi (in questo caso alle segreterie dei partiti) la nomina dei parlamentari prescindendo da inutili orpelli e garanzie? Non è, tuttavia, un autoritarismo fine a se stesso, quanto uno dei  momenti della lotta di classe portata avanti dalla borghesia nella ricerca continua di profitti e del suo continuare ad esistere come classe.

Cercare di fare emergere quali siano i motivi che conducono la borghesia a fare strame delle stesse regole della democrazia borghese ci porta, inevitabilmente, alla crisi che sta attraversando l’economia capitalistica e che è ben tratteggiata dai balletti sincopati delle cifre e dalle previsioni su riprese sempre più effimere o quanto meno sempre più dilatate nel tempo.

Tali e tanti sono i guasti provocati dalla crisi che sono veramente pochi gli economisti che continuano a credere nelle virtù taumaturgiche del “mitico” mercato per cui – per un ribaltamento di senso – sono proprio la maggior parte di costoro ad evidenziare le difficoltà sempre più crescenti dell’attuale congiuntura economica, la qualcosa ha come corollario obbligato il forsennato attacco al mondo del lavoro sia in termini di disoccupazione che di peggioramento delle condizioni di lavoro e di vita.

Il dato surreale è che tutto questo viene fatto passare per una modernità che troverebbe i suoi punti di snodo in alcune teorizzazioni che vanno ad aggiornare l’armamentario anti-storico di cui continua ad avvalersi la borghesia per giustificare il suo operare oltre a perpetuare il proprio dominio sull’intera società e che, brevemente, sono in tali termini sintetizzabili:

- la globalizzazione dell’economia impone, nei paesi occidentali, aumenti di produttività sempre  maggiori per poter reggere, in termini di competitività, il confronto con i cosiddetti paesi emergenti.

- la lotta di classe è finita in quanto non ci sono più classi;

- i lavoratori debbono accettare nuove regole sulla flessibilità degli orari, sul ricorso allo sciopero, sulla struttura del salario e dei contratti;

- la giurisdizione del lavoro dovrà, di conseguenza, essere aggiornata;

- le parti sociali debbono premere sul governo per un nuovo welfare appropriato alle nuove regole.

Tutte queste piacevolezze sono state sciorinate dal signor Marchionne al meeting ciellino di Rimini ed è tanta la protervia di cui sono intrise che lo stesso Eugenio Scalfari – che non ha di certo preso parte all’assalto al Palazzo d’Inverno – le taccia di contenuto profondamente reazionario oltre a ricordare allo stesso Marchionne che, nella sua “lectio magistralis”, non ha fatto un solo cenno alle

diseguaglianze retributive che hanno raggiunto livelli inaccettabili” (La Repubblica 29 agosto).

In altri termini, non solo si ipotizza, ma si persegue un riassetto sociale a cui può dar corso solo un governo autoritario che sappia governare i processi sociali ma che, soprattutto, sappia imporre e fare accettare discriminazioni inaccettabili sul piano dell’eguaglianza.

A ciò si aggiunga tutto un battage sapientemente orchestrato il cui scopo, abbastanza palese, è quello di agire in via preventiva per cercare di disinnescare o quanto meno limitare lo scoppio, il montare di proteste che già si preannunciano sempre più numerose e sempre più decise.

Il cliché ha diversi tratti in comune con quello adoperato quando lo strombazzare sulla “fine delle ideologie” perseguiva l’unico scopo di disarmare la classe lavoratrice azzerandone i riferimenti teorici che ancora persistevano.

La particolarità dell’oggi è data dal fatto che si entra di più nello specifico: la lotta di classe sarebbe un residuo del passato e come tale è da superare così pure la conflittualità sindacale  o la lotta tra “operai e padroni” che non ha più ragione d’esistere.

Ma è veramente così?

E se questa tanta vituperata “lotta di classe” conservasse intatto il suo fascino quando a condurla sono lorsignori borghesi…?

Usando quale altro termine si può definire lo smantellamento a favore della delocalizzazione?

O del diffondersi senza limite alcuno della precarietà? O, ancora, la insostenibilità - per le imprese, a detta di Tremonti - delle norme sulla sicurezza sul lavoro (legge 626) a fronte di oltre mille omicidi bianchi ogni anno?

Strano modo di presentare e sviluppare una problematica sociale che esiste da sempre e che sta, via via, acquisendo toni sempre più esacerbati mano a mano che si acquisisce, al contempo, consapevolezza che le soluzioni si allontanano sempre di più.

Il riferimento – non proprio causale – va al solito Marchionne, un manager che, a suo tempo, venne definito da un buontempone quale Bertinotti: capitalista buono.

Si da il caso, però - ed al netto della vicenda di Pomigliano - che Ron Gettelfinger, capo del sindacato americano UAW (United Auto Workers) abbia un convincimento un po’ difforme laddove fa riferimento ad una circostanza in cui il “nostro capitalista buono” ebbe a esprimergli la convinzione che i lavoratori devono accettare la “cultura della povertà” al posto di una “cultura dei diritti acquisiti” facendo, con ciò, addirittura strame – forse per carenza di conoscenza - di provvedimenti legislativi che, a partire dall’Inghilterra, fin dal 1572 (Poor tax) per arrivare alla New Poor Law del 1834 hanno cercato di porre rimedio ad una piaga sociale qual’era la povertà. Evidentemente per il buon Marchionne tutte le decine e decine di anni dedicati a questo delicatissimo problema avrebbero potuto essere impiegati in maniera diversa e soprattutto più proficua (sic).

Gianfranco Greco