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A proposito di un anniversario — Problemi del nostro tempo
Anche la constatazione che stiamo per formulare sembra esprimere una strana contraddizione che è solo in apparenza: mentre il marxismo, come dottrina, è esigenza universalmente sentita e un inevitabile punto di approdo di tutta la cultura filosofica e politica del nostro tempo, tuttavia, mai come ora, esso è stato sottoposto, anche nella formulazione del linguaggio, alle interpretazioni più arbitrarie e accomodanti e ne è venuto fuori un marxismo di maniera buono, cioè, a tutti gli usi anche i più illeciti e aberranti.
Se da un lato tutto ciò si spiega con certe esigenze di basso mercantilismo politico, dall’altro serve come misura di un certo livello morale e della degradazione a cui è stato piegato il ruolo della cultura.
E se la constazione è ovvia se riferita alla intelligenza borghese democratica, non dovrebbe esserlo per chi, come i teorizzanti del P.C.I., affermano a destra e a manca, di attingere al marxismo rivoluzionario come a fonte ideale nella elaborazione della loro ideologia e nella definizione della propria condotta politica.
La storia, quella vera, di questi quarant’anni dell’ “Unità”, appare come un arco teso a ritroso verso ideologie che riportano al premarxismo, al superamento d’ogni tematica marxista per un sempre più vasto inserimento del proletariato nel dispositivo capitalista come ala marciante e punta avanzata della spinta progressista del composito fronte borghese. E quanto sta, infatti, accadendo, in modo più o meno palese, sotto i nostri occhi. Bisogna proprio riconoscere che anche la via percorsa dall’opportunismo ha obbedito alle esigenze tattiche del progressismo.
Ricordiamone le tappe più significative.
L’onore d’aver dato l’avvio spetta indiscutibilmente a Gramsci che già nella complessità e vastità della sua preparazione filosofica maturata nel clima suggestivo e corruttore nel neo spiritualismo francese dei Bergson e dei Sorel, portava questa predisposizione e inclinazione intellettuale ai valori della contingenza, al senso del concreto, e al gioco alterno della sperimentazione anche se non sempre aderente ai veri, reali interessi del proletariato, quello, si intende, dei grandi centri, come Torino, dove erano vive e operanti le punte avanzate del moderno industrialismo.
Chi ha avuto modo, come lo ha avuto chi scrive, di conoscere Gramsci nel vivo della sua personalità intellettuale e umana, sa quanto del suo mondo, ch’egli credeva saldamente ancorato nel cuore delle masse operaie, nella fabbrica, fosse vissuto, invece, fantasticamente, per quella sua facoltà di soggettivizzare tutto, e le sue idee e i suoi sentimenti e le stesse vicende della lotta operaia e della politica militante.
Chi non ha afferrato questo lato della personalità intellettuale e politica di Gramsci, non può aver capito l’essenza dell’ “ordinovismo” nei pochi lati positivi della sua breve esperienza, ma soprattutto nei suoi lati negativi lasciati, questi a sedimentare, purtroppo, nel folto stuolo degli epigoni.
Ed è proprio per questa tendenza che era portato a pensare e a operare sotto la spinta di una volontà realizzatrice ad ogni costo; giovanissimo, affidava un potere quasi taumaturgico e in ogni caso determinante alla teoria e alla pratica dei “consigli”; fatto più adulto e passato alla direzione del Partito Comunista, era portato a considerare la tattica dell’inserimento nella lotta politica come un tuffarsi nella realtà quotidiana per trarre, da questa, il materiale umano da convogliare nella linea politica del partito e le suggestioni che avrebbero a loro volta influenzato il dato soggettivo della stessa azione politica.
Tali premesse teoriche, a cui Gramsci faceva seguire iniziative anche sul piano organizzativo, non si allacciavano in nessun modo con una visione dialettica del conflitto delle classi, con la legge della determinazione che affida al sostrato economico una funzione preminente negli accadimenti della sovrastruttura, il ruolo della volontà umana determinato anch’esso e a sua volta determinante nel suo ritorno sulla base della stessa determinazione, in una parola l’essenziale della tematica marxista gli era allora quasi del tutto estranea se non ostile.
L’esperienza torinese dei “Consigli di fabbrica” porta i segni evidenti di questa ideologia improntata a intuizionismo mistico, ad acceso volontarismo “creatore”, più che alle ferree leggi del materialismo dialettico del marxismo.
L’eclettismo — afferma Lenin in “Stato e rivoluzione” — è sostituito alla dialettica; nei confronti del marxismo questa è la cosa più consueta, più frequente nella letteratura socialdemocratica ufficiale dei nostri giorni. Questa sostituzione non è certo una novità; si potè osservarla persino nella storia della filosofia greca classica. Nella falsificazione opportunista del marxismo, la falsificazione eclettica della dialettica inganna con più facilità le masse, dà loro un’apparente soddisfazione, finge di tener conto di tutti gli aspetti del processo, di tutte le tendenze dello sviluppo e di tutte le influenze contradditorie ecc. ma in realtà non dà alcuna nozione completa e rivoluzionaria dello sviluppo della società.
Senza nessi ideali con la tradizione socialista delle masse prese nel loro insieme di classe, senza una saldatura con le forze del partito socialista, le sole che allora rappresentavano, anche se in modo manchevole, le aspirazioni e la forza organizzata dei lavoratori italiani, l’ “ordinovismo” doveva precludersi ogni possibilità di seria guida rivoluzionaria e concludersi come episodico tentativo ideologico-politico fecondo solo per i futuri revisionisti di destra del movimento operaio.
Con questi precedenti e data la sua notevole statura politica, Gramsci doveva apparire ai dirigenti bolscevichi del periodo post-leninista, l’uomo a cui poteva essere affidato proficuamente il compito di dirigere il partito nella fase, assai complessa e delicata, della “bolscevizzazione” che avrebbe dovuto adeguare, anche strutturalmente, il partito nato a Livorno nel solco della tradizione della sinistra italiana, alle mutate esigenze dello Stato russo, imposte dal nuovo corso della sua economia e della sua politica. Bolscevizzare il partito non voleva significare che frazionarlo, spezzare la sintesi delle sue varie componenti sociali e di categorie, spersonalizzarlo e disperderlo nelle fabbriche, sui posti di lavoro con l’inconfessato obiettivo di dominarlo dall’alto con una salda rete funzionaristica e spegnere in esso ogni capacità di visione critica, d’iniziativa e di spinta di classe.
Spettava a Togliatti, la “volpe” N. 1 della mala compagnia degli epigoni, di portare alle estreme conseguenze, deformandole il più delle volte, certe formulazioni teoriche che non era stato dato a Gramsci di vedere tradotte in prassi politica e organizzativa.
E’ del periodo di Gramsci, è forma embrionale del suo “blocco storico”, la politica del fronte-unico antifascista, ma Togliatti si servirà poi dell’apporto quantitativo dato da questa politica antifascista per farne un suo strumento di lotta incanalandolo sul piano della II guerra imperialista, della guerra di liberazione nazionale e del moto partigiano, chiamando tutto ciò guerra popolare rivoluzionaria per il compimento del secondo risorgimento italiano.
Non rientra nell’economia di questa nota… commemorativa del quarantennio dell’ “Unità” un accenno alle vicende politiche del secondo dopoguerra a cui è legato il nome di Togliatti e del suo partito, ma il modo con cui l’arco teso a ritroso sta concludendo la sua parabola discendente dimostra, più di quanto le parole non fanno, la giustezza dell’assunto che ci siamo proposti.
Ma il capolavoro tattico e strategico di Togliatti, se gli sarà dato di portarlo fino in fondo, sarà il secondo e definitivo esperimento del gramsciano “blocco storico”, quello del potere con la scalata al governo della Repubblica da parte della variopinta sinistra parlamentare.
Che tale piano riesca o no, non avrà in sè e per sè gran peso, ma potrà produrre un fatto positivo: la fine, cioè, del partito di Togliatti come partito “per eccellenza” della classe operaia e d’ogni richiamo propagandistico, che possa ancora avere presa, alla ideologia di classe, al marxismo rivoluzionario e alla dittatura del proletariato.
Questo futuro “partito dei federati”, sarà il partito che esprimerà più concretamente gli interessi del neocapitalismo e del capitalismo di Stato e come tale sarà al governo in rappresentanza di questo settore avanzato del capitalismo monopolistico e della sua matrice sociale che è la borghesia progressista.
Se non altro, la tendenza bloccarda di Gramsci, se trovava una sua validità storica in questo suo riallacciarsi allo spirito federativo così vivo e ricco di fermento nelle tendenze politiche risorgimentali e nello spirito regionalistico della nostra gente, non lasciava, certo, supporre la concezione del partito unico operaio come federazione dei partiti comprendente la democrazia laica e clericale.
Ricordiamo a questo proposito l’appassionata insistenza con cui Gramsci considerava il fallimento della borghesia e poneva come non dilazionabile la necessità storica che il suo ruolo di guida passasse al proletariato, ciò che è in evidente contrasto con l’imparaticcio teorico e l’estrema banalità con cui Togliatti questa stessa borghesia rivalorizza in ogni suo atto.
Un partito così variamente composito, sarà senza principi, un abborracciamento di ideologie contrastanti cucite insieme con il filo nero dell’opportunismo e del miraggio del potere. Bisogna riconoscere che il cretinismo parlamentare in un ventennio di esperienza democratica, è divenuto davvero adulto se si considera forza capace di far da trincea avanzata contro il temuto assalto del proletariato rivoluzionario sotto la guida del partito di Lenin, il solo che turba la coscienza degli opportunisti e pone nel dispregio che meritano, i valori della democrazia e delle istituzioni parlamentari che costituiscono per loro i pilastri imperituri della civiltà occidentale borghese e cristiana.
Onorato Damen
Libri e vicende — Da “Sedicesimo” Bollettino della “Nuova Italia Editrice” — Firenze
Indubbiamente Marxismo e libertà della Dunayevskaya, a differenza di altre opere del genere, affronta con conoscenza e profondo senso di responsabilità i maggiori problemi del proletariato che esamina dal punto di vista del marxismo più propriamente umanistico, il solo modo questo, per l’autrice, di risanare le perversioni ideologiche e politiche operanti in nome di Marx.
Il marxismo, afferma, è la teoria della liberazione, mentre il comunismo è la teoria e la pratica della riduzione a schiavitù. Posta la distinzione in modo così netto e polemico, si potrebbe arguire che l’autrice consideri il comunismo contrapposto al marxismo, in conflitto insanabile con la libertà, ciò che ingenererebbe stupore e meraviglia in molti lettori italiani che hanno considerato il comunismo come l’evento storico della liberazione umana conformemente alla previsione del marxismo. E’ ovvio che il comunismo a cui allude l’autrice, non è quello preconizzato da Marx ma quello, dietro la cui facciata lusingatrice si nasconde lo esercizio del più spietato dirigismo pianificatore che dalle cose sale agli uomini annullando ogni libertà che non si allinei agli interessi fondamentali del potere economico e politico incentrato nello Stato.
Marxismo e libertà tocca tutti i tasti della problematica marxista ed è stato concepito e realizzato non come esplorazione nel mondo della mera elaborazione teorica dei problemi del nostro tempo, ma come espressione e conferma della validità teorica del marxismo scaturente dal seno stesso della condizione operaia e delle sue lotte in tutti i settori dello schieramento di classe sottoposta alle ferree, inumane leggi della automazione del capitalismo occidentale e a quelle non meno ferree del capitalismo di Stato del blocco sovietico. Movente principale alla elaborazione di quest’opera è stato il coincidere negli anni tra il 1950 e il 1953 della presa di coscienza del fenomeno dell’automazione da parte dei lavoratori americani, particolarmente delle miniere e delle fabbriche automobilistiche, con le rivolte operaie contro il regime stalinista a Berlino-Est nel giugno del 1953, nella stessa Russia poche settimane dopo nei campi di Vorkuta e piùtardi, nel 1956, in Ungheria.
Da questo esame emerge una valutazione della storia che ha per radice l’uomo, la presa di coscienza della sua alienazione, il suo anelito verso la libertà come sua spontanea conquista. La nostra era è quella degli assoluti, si afferma: all’assoluto dell’autorità si lega saldamente quello della libertà; all’assoluto della controrivoluzione si lega quello della rivoluzione.
Questa è la totalità dell’attuale crisi del mondo che ci impone di tornare ad Hegel ed ai suoi assoluti.
Marx riconobbe la filosofia hegeliana come presupposto indispensabile ad una concezione proletaria della storia del mondo.
Per noi — afferma l’autrice — essa è molto di più perchè interessa tutta l’umanità.
Da notare il senso di classe della concezione proletaria della storia del mondo e il senso al di sopra della classe che dovrebbe investire tutta l’umanità che nega il classismo implicito nel pensiero di Marx.
Non discutiamo la legittimità di questa interpretazione che si rifà alla fase umanistica del giovane Marx; diciamo solo che essa viene sviluppata sulla linea di una interpretazione più libertaria che dialettica del socialismo. Questo della Dunayevskaya è contributo non certo trascurabile al dibattito sempre aperto della validità del Marx umanista sotto l’influenza della filosofia hegeliana in confronto al Marx del materialismo dialettico sotto l’influenza dei grandi conflitti di classe e di una più approfondita e avvertita conoscenza della struttura del capitalismo moderno e delle sue profonde e insanabili contraddizioni. Non è che l’autrice non consideri questo aspetto del Marx della maturità; anzi fa della sua filosofia la base della moderna concezione del mondo e della totale liberazione dell’uomo da ogni forma di alienazione. Ma come conciliare, allora, la concezione della contrapposizione di classe, proletariato contro capitalismo, che per sua natura è parziale, limitata, profondamente antagonista e nel fine quasi inumana per la necessità della violenza che l’accompagna, per l’esercizio di un potere, che per quanto proletario e progressivo possa essere nel suo contenuto, è tuttavia nelle forme e nei mezzi (e non potrebbe non esserlo) terribilmente legato al potere vessatorio d’una dittatura tanto più spietata, quanto più accanita e feroce sarà la resistenza del nemico di classe da superare, come conciliare, diciamo noi, questa inevitabilità storica del potere di classe con la teoria che si rifà agli assoluti di Hegel anche se “umanizzati” e inseriti nel vivo della storia, in quanto storia della lotta tra le classi e della rivolta operaia in quanto motrice della storia moderna? Ecco come l’autrice cerca di risolvere questa controversia teorica:
Soltanto una filosofia, cioè una visione totale, quella che Marx dapprima chiamò non già “comunismo” (definizione più congeniale al pensiero elaborato da Marx negli anni della sua maturità) ma “umanesimo”, può dare una risposta ai molteplici bisogni del proletariato. L’uomo non dovrà essere mai più alienato; deve riguadagnare la sua interezza con la riunificazione del lavoro mentale a quello manuale nel lavoratore vivente, la cui attività autonoma svilupperà soltanto allora tutte le sue potenzialità umane. […]
Il comunismo è la forma necessaria ed il principio energetico dell’immediato futuro, ma il comunismo non è, come tale, la meta dello sviluppo umano, cioè la forma della società umana.
L’ipotesi, dunque, degli assoluti e dell’umanesimo integrale verrà a situarsi al di là di quella fase transitoria che è il comunismo, quello, per intenderci, verso cui fremeva l’ansia della rivoluzione d’Ottobre così fortemente ancorata nella mente e nel cuore del suo maggior artefice. Lenin, che gli epigoni avrebbero poi tradito. Proprio per gli insegnamenti che provengono da questa rivoluzione tradita e dal timore di possibili ritorni offensivi della controrivoluzione che ogni rivoluzione cova nel suo seno, nascono le maggiori preoccupazioni politiche della Dunayevskaya per la quale ogni deviazione teorica dalla linea del marxismo trova la sua ragion d’essere nel consolidamento di interessi opposti a quelli del “marxismo” russo che esaltano solo a parole la dialettica di Marx.
Dopo una larga visione di sintesi dei tre volumi del Capitale e dei tratti salienti della storia del movimento operaio sviluppatosi attorno alla prima e alla seconda Internazionale, lo studio critico dedicato alle varie fasi della esperienza russa dopo la rivoluzione d’ottobre, è quanto di più criticamente sofferto sia stato scritto su questo argomento, come il capitolo dedicato alla personalità di Lenin è quanto di più appassionante. Definisce Lenin uno spirito in azione, il rivoluzionario che ha saputo, in quanto marxista, realizzare l’unità di teoria e di pratica, colui che ha individuato nel crollo della Seconda Internazionale il punto di rottura con tutto quello che si era pensato precedentemente e col metodo di pensiero che si chiamava esso stesso marxista anche se legato al materialismo volgare. Si deve, sostiene l’autrice, all’influenza della filosofia hegeliana se in Lenin i problemi della volontà entrano in un rapporto di interdipendenza con quelli della determinazione; se nel materialismo dialettico egli era portato a porre l’accento più su “dialettico” che su “materialismo” e se…
l’idealismo intelligente è più vicino al materialismo intelligente di quanto non lo sia il materialismo sciocco.
Ma la parte di Marxismo e libertà che più interesserà il lettore europeo è quella dedicata alla organizzazione operaia in generale e a quella del partito d’avanguardia in particolare così come è stata concepita e realizzata nei paesi europei dove il ruolo dei partiti moderni operanti ha avuto una funzione vasta e a volte determinante soprattutto sul piano parlamentare. Ma il discorso va limitato al partito operaio che si richiama al marxismo ed opera conseguentemente a questa dottrina. Pur trascurando il fatto che è proprio della mentalità anglo-sassone sottovalutare il ruolo del partito d’avanguardia per la ragione che in questi paesi il modo di svolgimento della lotta di classe non poteva offrire un terreno favorevole alla sua affermazione, è facile constatare come l’autrice, così attenta nel seguire le vicende del partito di Lenin e la genesi della sua varia strutturazione nella clandestinità e alla vigilia dell’Ottobre, sotto il pungolo delle “Tesi di Aprile” e infine di fronte ai compiti della costruzione del primo Stato socialista, finisca per cadere nel generico. Il problema è di sapere se l’esperienza del partito di Lenin è stata positiva o no. Se positiva, quali le indicazioni pratiche perchè essa serva oggi come centro catalizzatore dei gruppi di minoranza rivoluzionaria così divisi e inoperanti; se negativa, perchè non ha saputo evitare l’assalto dell’opportunismo al vertice dell’organizzazione, bisogna dimostrare come l’affidarsi alla sola spontaneità delle masse e alla loro autonomia sia stato sufficiente per impadronirsi del potere, e le condizioni particolarmente favorevoli non sono mancate, là dove era inesistente il partito d’avanguardia, anzi proprio in virtù della sua inesistenza. Se poi questa proclamata necessità di un nuovo tipo di organizzazione operaia è comprensibile reazione al fatto del danno incalcolabile, inflitto alla causa dei lavoratori e del socialismo dai partiti che oggi esercitano il potere più dispotico nei regimi del capitalismo di Stato, questo può rientrare nell’ambito del sentimento e non dei dati obiettivi di una interpretazione dialettica della storia che abbiamo vissuto e viviamo come uomini di parte.
L’incrociarsi di questi problemi che caratterizzano il nostro tempo, fa di Marxismo e libertà un’opera teoricamente informativa e formativa insieme, utile e, vorremmo dire, indispensabile agli studiosi e a tutti coloro cui sta a cuore la condizione operaia nell’attualità economica e politica del proprio paese nel quadro della situazione internazionale.
Onorato Damen