Abbiamo 275 visitatori e nessun utente online
Problemi del nostro tempo
Una corrente d’opinione che intenda rimanere tale, che volutamente eviti di legarsi ad una esperienza e neghi ogni partecipazione attiva e conseguente agli accadimenti di ordine economico, sociale e politico quali la storia va perennemente intessendo, potrà anche dar adito ad una problematica ingegnosa e forse interessante nel mondo della pura cultura ma è destinata a durare lo spazio d’un mattino e ad essere praticamente infeconda come sono risultate infeconde nella storia del pensiero anche le più ardite costruzioni metafisiche.
E di metafisica è lecito parlare ogni qualvolta la trama d’una costruzione teorica non si intenda far coincidere con la trama delle vicende umane, quando, cioè, si ipotizza un mondo di idee astratte geometricamente ordinate, una specie di “città del sole” con in più richiami, intelligentemente vagliati, ai classici del marxismo e una fitta, aggiornatissima scelta di dati statistici.
Vogliamo dire in sostanza che una corrente di opinione che si estranea per principio dal vivo degli accadimenti e non conferma la validità di ciò che afferma come dato teorico al fuoco delle lotte che caratterizzano il nostro tempo, si preclude ogni possibilità di trasformarsi in una minoranza operante, inserita concretamente nel solco degli avvenimenti, capace di sentirne le esigenze sul piano di classe e di tradurle in termini di lotta rivoluzionaria.
Una corrente di opinione così concepita e articolata, anche quando si richiama alla ortodossia marxista, non può essere considerata che “tendenzialmente” marxista perchè svuota questa dottrina del suo più alto contenuto, facendo della dialettica una semplice astrazione, un gioco di idee puramente formale e dimentica che nella mente degli uomini vivono riflesse tutte le contraddizioni che sono proprie della società organizzata sul modo di produzione capitalista.
La storia del movimento operaio in genere e del nostro in particolare, per la esile e tardiva costruzione dell’apparato industriale capitalista e per la formazione del tutto provinciale della nostra borghesia, è particolarmente ricca di esperienze ideologiche e politiche apparse e scomparse sullo scenario della vita italiana lasciando dietro di sè forse un’impronta di originalità, di ingegnosità ma in nessun caso il segno inconfondibile di una compiuta elaborazione, politicamente adeguata ai compiti, capace di dare una risposta agli interrogativi sorgenti dalla condizione operaia e di muoversi coerentemente sulla linea di sviluppo di interessi concreti, nella dinamica degli urti di classe.
Nei primi anni del secolo. questa tendenza si materializzò nelle forme di un empirismo operaistico “schifato” della politica quietista e parlamentare dei partiti e finì per perdersi tra gli ingranaggi d’un grigio corporativismo di categoria come avvenne per il sindacalismo barricadiero dei Corridoni e dei De Ambris condotto sul filo dell’anarchismo o per quello dei Labriola ed Enrico Leone, improntato ad un estremismo volontarista.
Più vicina a noi è significativa l’esperienza “ordinovista” dei Consigli di fabbrica, che ebbe il suo centro d’attrazione a Torino, più particolarmente nel complesso industriale Fiat, per quel tanto ch’essa elaborò in sede di dottrina e tentò sul piano organizzativo al di là e contro il Partito Socialista, che si riteneva strutturalmente vecchio e incapace di una iniziativa rivoluzionaria, nella illusione che non nei quadri di un partito e nella forma della sua organizzazione, ma sul posto di lavoro e nel cuore delle masse industriali potessero auto-formarsi la coscienza e le forze d’una eversione rivoluzionaria congeniali al proletariato moderno.
L’errore commesso dall’ “ordinivismo” consiste nell’aver voluto considerare sul piano d’una teoria generale ciò che era soltanto una esperienza di categoria e fare della fabbrica il microcosmo in cui si riflettesse tutto il complesso e contraddittorio moto della economia.
Muovendo dalla fabbrica — scriveva Gramsci — vista come unità, come atto creatore di un determinato prodotto, l’operaio assurge alla comprensione di sempre più vaste unità, fino alla nazione che è nel suo insieme un gigantesco apparato di produzione…
Ma questo concrescere della coscienza operaia negli organi dello sviluppo strumentale del capitalismo serve più a legare strettamente l’operaio al processo della produzione che a favorirne la liberazione. Gramsci infatti vedeva l’unità laddove avrebbe dovuto vedere il punto nevralgico del contrasto di classe e trovare lì le ragioni obiettive per le quali le forze del lavoro alienato poste contro quelle che impongono tale alienazione, tendono a negare e a rompere questa falsa unità.
Era implicito l’invito agli operai da parte di questa corrente di considerare la fabbrica come se fosse casa loro. Su questo errore di prospettiva sarà poi orientata la politica socialcomunista della guerra di liberazione antifascista che costringerà le masse operaie a battersi per esercitare un controllo diretto sulla produzione (comitati di gestione) e, quel che è peggio, a difendere le fabbriche, le macchine e a ricostruire quelle distrutte dalla violenza della guerra.
Che poi l’ “ordinovismo” si sia ridotto ad un semplice tentativo nel quadro di un insorgente neoidealismo allora di moda senza alcuna seria rilevanza sul piano di una nuova strategia proletaria, è materia che meriterebbe d’essere studiata al lume d’una più severa critica marxista. E’ sintomatico comunque e non farà meraviglia, che l’ “ordinovismo” debba più tardi trovarsi a suo agio al vertice del partito comunista uscito dal Congresso di Livorno per servire da veicolo cosciente a quella bolscevizzazione che doveva aprire la fossa alla Rivoluzione d’Ottobre e sbarrare la strada ad ogni seria ripresa di classe su scala internazionale.
In posizione polemica a quella torinese dell’ “ordinovismo” si situa l’esperienza realizzata attorno al “Soviet” di Napoli per la quale il toccasana infallibile risiedeva nell’astensionismo come reazione al parlamentarismo cafone corrotto e corruttore che dominava la politica italiana e particolarmente quella meridionale.
Aver creduto nell’astensionismo come ad un correttivo di classe capace di preservare masse operaie e partito socialista da ogni contaminazione parlamentaristica, quando in realtà masse operaie e partito avrebbero, nei decenni che seguiranno e ad onta del fascismo e di due guerre mondiali, continuato a credere nella validità di questo mezzo di lotta e avrebbero continuato a votare e a creare deputati e ad ingrandire fino all’assurdo gli strumenti e con essi i malanni del parlamentarismo: insomma, aver fatto dell’astensionismo il problema centrale della elaborazione teorico-politica della corrente, la sua più forte caratterizzazione, la questione su cui si sarebbe dovuto spaccare in due il Partito Socialista, era quanto di più arbitrario, astratto e malinconicamente intellettualistico poteva capitare tra i piedi del proletariato italiano.
Si è trattato ancora una volta di ridurre un modesto e contingente, pur se necessario, momento di tattica quello astensionista, a canone politico sempre vero e sempre valido, di costringerlo a camminare sulle malferme stampelle dell’idealismo, commettendo così un madornale e imperdonabile errore, quello di vedere i problemi del partito e della rivoluzione partendo dall’angusto angolo visuale dell’astensionismo e non inversamente.
Nell’ “ordinovismo” come nell’ “astensionismo”, per non riferirci che ad episodi di maggior peso, la politica di classe non è uscita dal gabinetto di analisi teorica e ognuna di queste esperienze, a modo suo, è servita in definitiva a ritardare il processo di formazione del partito che avrebbe dovuto operare in quella fase storica come l’indispensabile motore della rivoluzione socialista.
Da allora e per questi motivi, il corso del movimento operaio italiano è stato faticoso nel suo procedere, contorto e contraddittorio, fino a condurci alla presente, grave stagnazione.
Un movimento politico di classe non sorge mai come semplice corrente di opinione ed è partito di classe non tanto per quel che pensa e dice di pensare, ma per la dimostrata volontà e capacità di passare concretamente dalla teoria alla pratica riducendo l’enunciato teorico a termine d’azione di classe nei limiti obiettivi della sua realizzabilità.
Il marxismo, si sa, non è mai stato un corpo di dottrine a tipo illuministico; non ha mai preteso di impersonare l’assoluto vero e non si è mai attribuito carattere di indiscriminata universalità, ma la sua interpretazione è strettamente legata alla contingenza e alla relatività del momento capitalista che dialetticamente la esprime.
C’è qualcosa di “necessitato”, di organico e di strutturalmente inevitabile e inconfondibile nell’atto del sorgere, quale che sia il momento della storia in cui si inserisce, di un movimento dal complesso della classe e che alla classe si richiami per averne fatte proprie le esigenze, i metodi e gli obiettivi.
A questo riguardo è particolarmente notevole e significativo un esame del Partito Comunista Internazionalista, il solo che nelle tormentate e mutevoli vicende della politica italiana sia rimasto ancorato, a volte con la forza della disperazione, alle ragioni storiche del proletariato e alla ideologia rivoluzionaria del marxismo. E’ tanto più significativa questa constatazione quando si sa che tutto ciò avveniva in mezzo alla violenza fascista a cui doveva poi far seguito l’attuale imbestiamento delle masse operaie operato dalla ideologia borghese della democrazia parlamentare cui si sono piegati i partiti ad origine cosiddetta operaia, i quali vorrebbero ora dare ad intendere alle masse che questa democrazia rappresenta una fase storicamente necessaria, sulla cui base il socialismo germoglierà spontaneamente come frutto maturo della più vigorosa e feconda pianta della libertà cresciuta sul terreno del capitalismo e concimata col sudore e col sangue del proletariato.
Ricordiamo sinteticamente i momenti salienti delle vicende che hanno accompagnato la formazione e l’affermazione della corrente passata alla storia del movimento operaio internazionale come corrente della “Sinistra Italiana” da cui, nel settembre del 1943 aveva origine il Partito Comunista Internazionalista.
E’ la storia di una lunga serie di posizioni critiche, di opposizioni e di rotture di questa corrente nel senso del partito socialista contro l’opportunismo: contro il riformismo prima, nel cuore della prima guerra mondiale, e poi contro il centrismo massimalista ai congressi di Bologna (1919) e di Livorno (1921), dove la scissione dalla maggioranza centrista, rendeva possibile la nascita del Partito Comunista d’Italia alla cui formazione, l’opera teorica, politica e organizzativa della corrente di sinistra doveva giocare un ruolo determinante.
Questo primo tempo della “Sinistra Italiana” è caratterizzato dalla lotta condotta contro la guerra e in difesa dell’internazionalismo socialista in un partito che aveva fatto sua la politica opportunista del “non aderire e non sabotare”.
Per la verità l’azione della sinistra, se convogliò forze considerevoli fino a prendere consistenza in un convegno che fu chiamato della “frazione dei rigidi”, (Firenze 1917) con l’apporto quasi totale della Federazione giovanile, tuttavia la sua avversione alla guerra non uscì quasi mai dal piano politico-sentimentale per tradursi in termini di ideologia attraverso un originale e adeguato esame critico del fenomeno “imperialismo” da cui la prima guerra mondiale era scaturita.
Se questo fosse avvenuto, si sarebbe tempestivamente determinato l’accumularsi di una conoscenza teorica più approfondita del fenomeno guerra-imperialismo e del ruolo effettivo in essa giocato dalla socialdemocrazia, ciò che avrebbe potuto determinare una più adeguata convergenza di forze verso la sinistra al Congresso di Bologna per consentirgli di risolvere in questa sede (a Livorno sarà troppo tardi!) il problema della scissione dal riformismo e dal massimalismo verboso, per la formazione d’un autentico partito di classe.
Finalmente al convegno di Imola (1920) e pochi mesi dopo al congresso di Livorno, la sinistra potrà esprimere tutto il potenziale rivoluzionario che si era venuto man mano accumulando anche e soprattutto per riflesso alla spinta data agli avvenimenti dalla Rivoluzione Russa. La piattaforma ideologica e politica, elaborata nella fase preparatoria di Imola, porta già i segni di un approfondimento teorico, di una visione più concreta e responsabile delle prospettive e soprattutto di un più avvertito senso della tattica rivoluzionaria. Lo stesso problema dell’astensionismo che aveva così appesantito e reso difficile l’opera di penetrazione e di proselitismo della sinistra per l’angusta esperienza meridionale da cui si era originato e per il suo carattere di eccessiva unilateralità, era così passato dal piano teorico a quello tattico. In una parola, alla direzione del Partito Comunista d’Italia la “Sinistra Italiana” potrà finalmente dimostrare la sua maturità di corrente internazionale fortemente caratterizzata per il suo attaccamento non episodico, non formale alla ideologia e alla prassi del marxismo-leninismo.
Spetta alla “Sinistra Italiana” il merito d’avere per prima lanciato, con la costituzione del Comitato d’Intesa (1925-1926). il grido d’allarme contro la bolscevizzazione dei partiti comunisti imposta dall’alto che mirava a preparare il terreno al trionfo dello stalinismo che avrebbe portato con sè l’abbandono dell’internazionalismo proletario, il “socialismo in un solo paese”, la costruzione, senza riserve e restrizioni, del capitalismo di stato che avrebbe sommerso in breve le residue zone ad economia potenzialmente socialista e provocato l’inserimento della Russia nel gioco delle competizioni imperialiste e della guerra.
Poi le posizioni di critica, di opposizione e di rottura si sposteranno sul più vasto piano internazionale e saranno i previsti sbandamenti nella economia e nella politica dello stato Russo a dare validità e consistenza alla “Sinistra Italiana” come interprete di una sempre latente sinistra internazionale messa in allarme dal nuovo corso mirante a fare dell’internazionale lo strumento dello Stato Russo in evidente contrasto con le necessità rivoluzionarie che imponeva di considerare tutta l’esperienza del primo stato proletario in funzione della rivoluzione socialista internazionale.
Defenestrata d’autorità dalla direzione del Partito Comunista d’Italia, la sinistra riprende il suo ruolo di frazione con compiti di critica e di orientamento e rimane con i suoi uomini e con i suoi quadri, pur senza una vera e propria funzionalità di frazione organizzata, nei ranghi del partito anche dopo il congresso di Lione (1926). Con l’avvento delle leggi eccezionali e con la scomparsa del Partito Comunista come partito legalmente riconosciuto, la corrente di sinistra è evidentemente spez zata: una parte continuerà la propria attività all’estero nell’emigrazione politica e l’altra sposterà nelle isole, dove vengono ammassati i condannati al confino di polizia, nelle carceri, nei reclusori e più tardi nei campi di concentramento, la difesa e l’affermazione della ideologia di sinistra di fronte alla montante reazione stalinista. E’ in questa situazione che i compagni della sinistra affronteranno da soli, nel susseguirsi degli avvenimenti determinati dall’intervento russo nella seconda guerra mondiale, la difesa dell’internazionalismo e della ideologia rivoluzionaria contro le forze della guerra imperialista.
L’azione della “Sinistra Italiana” organizzata come frazione nell’emigrazione francese e belga, si protrarrà dal 1927 fino alla fine della seconda guerra mondiale per fondersi con quella del Centro, interno che aveva esplicato una forte attività di riorganizzazione fino allo scoppio della guerra (1940) e nel corso stesso della guerra distinguendosi nettamente da tutti i movimenti ad origine operaia sostenitori della guerra di liberazione e dalla stessa resistenza partigiana per la sua caratterizzazione di resistenza antifascista inserita comunque nella guerra come necessaria pedina alla strategia della guerra imperialista.
La costituzione del Partito Comunista Internazionalista avviene nel solco della tradizione di Livorno e mira a colmare il vuoto lasciato sul fronte della lotta rivoluzionaria del proletariato dal tradimento di quello che era stato il Partito Comunista d’Italia, asservito alla politica di potenza dello stato russo.
Va infine considerato come fatto di assestamento interno il frazionamento in due tronconi della originaria organizzazione del partito il quale è stato costretto a garantire la continuità della propria organizzazione in quanto partito e di alcune posizioni chiave di dottrina e di tattica rivoluzionaria nei confronti del bordighismo divenuto deteriore in confronto a quel corpo di elaborazione teorica dovuta all’opera personale di Bordiga entrata a far parte del patrimonio della “Sinistra Italiana”.
Nella tradizione di questa corrente il ruolo della personalità non mai consistito nella esaltazione dei meriti e nel culto della infallibilità di questo e quel compagno ma nel loro contributo, idealmente e politicamente disinteressato anche se a volte grandissimo e determinante, portato all’affermazione della corrente di sinistra.
Il Partito Comunista Internazionalista è sorto dal seno della vasta esperienza teorica e politica della “Sinistra Italiana” e non ha sopportato e non poteva sopportare una qualificazione diversa e per di più personale. quando in realtà il filo conduttore di questa corrente marxista è soprattutto rappresentato dalla tenace difesa di alcune posizioni teoriche fondamentali operata da pochi gruppi di combattenti rivoluzionari che hanno costituito l’ossatura della frazione all’estero e poi del partito, costantemente preoccupati di evitare che esso venga comunque staccato dal corso degli avvenimenti e dai fondamentali interessi di classe e ridotto ad un cenacolo di intellettuali immalinconiti che non credono più al proletariato e alla sua capacità di forza rivoluzionaria.
Onorato Damen