Bordiga (parte 2)

Creato: 22 Settembre 2009 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
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Punti di dissenso dalla “piattaforma” del 1952 elaborata da Bordiga

Con le seguenti note intendiamo precisare i punti di dissenso dalla “piattaforma” di cui diamo volta a volta riferimento. Va da sé che i restanti punti della piatta­forma ci trovano di massima consenzienti. Pensiamo che così sono messi a fuoco i motivi più gravi del dissenso che ha appesantito la vita del nostro partito, e sul quale il partito stesso dovrà pronunciarsi al prossimo con­gresso.

 

I. Dottrina

 

1 — Base teorica: il materialismo storico marxista.

 

L’accettazione del materialismo storico non significa, né deve significare accettazione formale d’un corpo di dottrine sul quale è sempre aperto e vivo il problema della sua interpretazione. Sarebbe chiudere gli occhi alla realtà e riserbare sorprese maggiori al nostro movi­mento di avanguardia se non tenessimo conto del fatto che tra noi c’è chi non accetta la dialettica marxista come completa visione del mondo e della vita; chi l’ac­cetta idealisticamente; chi deterministicamente, in modo cioè “esteriore” in quanto si rifà allo scientismo mec­canicistico; chi infine la sente e la traduce storicisticamente, mettendo l’accento più nello “storico” che nel “materialismo”.

 

La nostra dottrina, diceva Engels, non è un dogma, ma una guida per l’azione. Questa classica formula sot­tolinea con forza e concisione meravigliose quell’aspetto del marxismo che ad ogni istante viene perso di vista. E perdendolo di vista, noi facciamo del marxismo una cosa unilaterale, deforme e morta, lo svuotiamo della sua essenza, scalziamo le sue basi teoriche fondamen­tali : la dialettica, la dottrina dell’evoluzione storica mul­tiforme e piena di contraddizioni; indeboliamo i suoi legami con i precisi compiti pratici dell’epoca, che possono cambiare ad ogni nuova svolta della storia.

 

Lenin

 

3 — La dittatura proletaria è esercitata dal partito.

 

Affermazione teoricamente e politicamente giusta e, ad onta della recente terribile esperienza russa, sempre valida alla condizione però che il partito e i suoi organi direttivi che di fatto esercitano la dittatura, operino come una parte della classe, all’unisono con gli interessi, le lotte e gli obiettivi storici di tutto il proletariato e fino alla scomparsa delle classi e dello Stato. Storica­mente la dittatura è del proletariato e non del partito nel senso che è il proletariato, in quanto classe al po­tere, che convoglia e accentra nel “suo” partito e vi cristallizza motivi, forze e volontà di cui la dittatura proletaria si sostanzia. Fuori di questi termini si ha lo stalinismo, cioè la dittatura dello Stato (stato partito) che ha soppiantato il proletariato e rigettato all’oppres­sione il giorno in cui è riuscito a far girare all’inverso la ruota della rivoluzione.

 

II. Compito generale del partito di classe

 

2 — Necessità dialettica di lottare per la vittoria delle rivoluzioni borghesi sul regime feudale per favorire l’av­vento della produzione capitalista.

 

Ma lotta significa partecipazione attiva del partito rivoluzionario come ideologia e apporto organizzativo e politico al moto borghese che sta operando anche oggi la sua penetrazione nelle zone ad economia arretrata, strappa cioè queste ultime zone extra-capitalistiche per inserirle nel proprio processo di produzione.

 

Non si tratta perciò di lottare perché il capitalismo accresca e dilati la sua “rapacità” e la sua naturale spinta all’espansionismo nei confronti delle zone arre­trate ; su questo indirizzo il capitalismo non fa che ob­bedire alla logica della sua struttura, alla dinamica delle sue contraddizioni interne, alla spinta dei suoi interessi, e lo dimostra chiaramente il fatto che per questa sua azione le zone extra capitalistiche sono non solo assai ridotte di numero, ma incapaci di costituire oggi una riserva sufficiente e sicura come mercati di consumo.

 

Non si tratta perciò di lottare per la vittoria delle rivoluzioni borghesi sul regime feudale, che porrebbe il partito proletario sullo stesso terreno d’azione del capitalismo ; ma una più esatta valutazione del pro­blema pone l’azione del proletariato sul piano dell’urto di classe, il solo che serva a pungolare il capitalismo a risolvere con i “suoi” mezzi i problemi della “sua conservazione.

 

Le zone extra capitalistiche sono presenti, ad esem­pio, tanto nel panorama economico italiano come in quello russo. Qui il capitalismo è dominante e storica­mente esprime la sua classe dirigente anche se con­trolla una parte e non la maggiore dell’economia.

 

Qui l’attacco frontale al capitalismo significa nel con­tempo attacco ai residui dell’antico regime entrambi solidali contro il proletariato e risolve indirettamente, sul piano dello sviluppo graduale, il problema della ri­duzione del settore extra capitalistico in favore del ca­pitalismo.

 

9 — Lotta per debellare le controrivoluzioni e spin­gere l’economia russa oltre il feudalismo e il capitalismo, condizionata alla mobilitazione della classe operaia mondiale e dei popoli coloniali contro l’imperialismo bianco e le signorie asiatiche.

 

Non è chiaro se questa lotta sia da considerare tra i compiti attuali del nostro partito. A scanso di equi­voci diciamo subito che se tale è stato e doveva essere il compito del partito di classe fino al terzo congresso dell’Internazionale, nulla da obiettare ; ma se questo fosse da ritenere valido anche oggi, ricordiamo che la Russia di Stalin è di fatto la Russia vittoriosa del se­condo conflitto mondiale, e perciò stesso schierata sul fronte dell’odierno scontro imperialista per difendere i frutti di questa vittoria e possibilmente ampliarli e consolidarli attraverso la terza guerra mondiale, oggi allo stato di avanzata gestazione.

 

Non deve esservi dubbio sulla condotta attuale del nostro partito nei confronti dello stalinismo e della guerra.

 

Il richiamo ad una maggiore precisazione di fronte a problemi così gravi e attuali è tanto più necessaria ad un documento che presume di essere di piattaforma che va accettata in pieno o in pieno respinta al fine dell’appartenenza all’organizzazione, documento che ad arte sottace il ruolo dello stato russo di fronte all’impe­rialismo e alla guerra, come sottace i compiti del partito di fronte a questi stessi problemi. Tanto più grave ap­pare questa non involontaria lacuna quando si considera che la coscienza del partito è stata profondamente turbata dalle enunciazioni della teoria del capitalismo numero uno e della definizione dello stato stalinista come stato animato da interessi e intendimenti pacifici in confronto alla bellicosa America.

 

IV. Azione del partito in Italia e in altri paesi

 

3 — Oggi siamo nel pieno della depressione e non è ammissibile una ripresa rivoluzionaria se non in un corso di molti anni. La lunghezza del periodo è in rap­porto alla gravità della ondata degenerativa, oltre che alla sempre maggiore concentrazione delle forze avverse capitalistiche.

 

Quel “non ammissibile” è in netto contrasto con la teoria di Lenin delle “svolte brusche” proprie della fase dell’imperialismo. Noi siamo con Lenin e lavoriamo perché il partito possa essere la forza direttiva d’ogni eventuale svolta. “Svolte repentine, che modificano con una rapidità sorprendente e in modo eccezionalmente brusco la situazione, la situazione sociale e politica che determina in modo diretto ed immediato le condizioni dell’azione e, per conseguenza, i compiti di quest’azione. Non parlo naturalmente dei compiti generali ed essen­ziali che non cambiano con le svolte della storia se non si modificano i rapporti fondamentali tra le classi”. (Lenin)

 

La lunghezza del periodo di depressione non è sol­tanto in rapporto alla gravità dell’ondata degenerativa,ma piuttosto alla intensità dei contrasti interni del ca­pitalismo e alla loro spinta verso la rottura che nessuna valutazione anche d’ordine scientifico può sottoporre ad analisi preventiva.

 

7 — Il partito vieta la libertà personale di elabora­zione e di elucubrazione di pretesi nuovi schemi e spie­gazioni del mondo sociale contemporaneo, vieta la li­bertà individuale di analisi di critica e di prospettiva anche per il più colto e preparato intellettualmente degli aderenti, e difende la salvezza di una teoria che non è effetto di cieca fede, ma è il contenuto della scienza di classe proletaria costruito con materiali di secoli, non dal pensiero di uomini ma dalla forza dei fatti materiali, riflessi nella coscienza storica di una classe rivoluzio­naria e cristallizzati nel suo partito.

 

Strana pretesa quella di annullare con un tratto di penna il contributo alla elaborazione del marxismo cri­tico che proviene dall’opera di studio e dalla milizia attiva di coloro che si considerano nella classe e alle sue esigenze, alle sue finalità e alla sua disciplina hanno legato la loro capacità d’intendere le leggi che presie­dono alla vita del capitalismo e traggono da esse i mo­tivi e la conferma per la continuità della teoria rivolu­zionaria. Ogni teorico del marxismo, degno di questo nome, non esprime una elaborazione a carattere perso­nale, astratta dalla realtà di classe, che in questo caso opererebbe fuori della classe e cesserebbe d’essere per ciò stesso marxista, ma opera come elemento della clas­se, o meglio ne esprime, come singolo, il senso collettivo.

 

Diversamente non si capirebbe perché e per chi ha scritto e torna a scrivere l’estensore della piattaforma e di altre non poche piattaforme passate, a meno che ognuno di noi non si ritenga deterministicamente come l’unico depositario della esatta interpretazione del mar­xismo. In tal caso anche questa dottrina diverrebbe uno dei tanti “tabù” che l’autentico marxismo ha in­segnato a disprezzare.

 

8 — Il partito benché piccolo di effettivi non cessa dal proselitismo di nuovi aderenti e dalla propaganda dei suoi principii in tutte le forme orali e scritte, an­che se le riunioni sono di pochi partecipanti e la stampa di limitata diffusione, considerando questa nella fase odierna la principale attività.

 

L’affermazione che la stampa è la principale attività. del Partito nella fase odierna, è da respingere perché porta a confondere uno degli strumenti della lotta con la lotta stessa. La politica del Partito è azione che va condotta nella classe e con la classe, che i rivoluzionari compiono nei limiti delle possibilità materiali anche “con la stampa”, ma “non soltanto” con la stampa.

 

11 — Fermo nel convincimento che la fase di ripresa non potrà che coincidere col rifiorire di un asso­ciazionismo economico sindacale delle masse, il partito, mentre riconosce che può fare oggi solo in modo spo­radico opera e lavoro sindacale, mai vi rinunzia, e dal momento che il concreto rapporto numerico tra i suoi membri, i simpatizzanti, e gli organizzati in un dato corpo sindacale risulti apprezzabile, e tale organismo sia tale da non avere esclusa l’ultima possibilità di atti­vità autonoma classista, il partito esplicherà la pene­trazione e tenterà la conquista della direzione di esso.

 

Sul problema sindacale conosciamo più versioni o tentativi di definizioni, a volte persino contraddittorie provenienti dalla stessa fonte. Noi ci limitiamo a pren­dere per buona quest’ultima e affermiamo che pure accettando di lavorare nei sindacati perché vi sono gli operai nella loro stragrande maggioranza e di occupare anche posti di responsabilità nelle Comm. Int. nei modi e con i temperamenti già resi noti, non cessiamo di con­siderare tali organismi come fortilizi caduti in mano all’avversario di classe che non possono essere ricon­quistati pacificamente e democraticamente dall’interno.

 

Gli attuali sindacati cadranno sotto i colpi dell’as­salto rivoluzionario alla stregua di tutti gli organismi operanti nel dispositivo della controrivoluzione.

 

Intanto nessuno può predire se la ripresa massiccia del moto operaio ci darà un nuovo sindacato veramente di classe, oppure altri organismi di massa già vagliati dalla passata esperienza della lotta operaia. Allo stato attuale i centri di attrazione e di raggruppamento dei simpatizzanti e senza partito, rimangono i nostri gruppi di fabbrica verso i quali dovrà andare la cura maggiore del Partito.

 

12 — Fino a nuove situazioni nelle quali sarà dato stabilire anzitutto se il tipo di Stato capitalista avrà assunto palesemente la forma di dittatura che il mar­xismo gli ha scoperto dall’inizio, e soppressi gli istituti elettivi parlamentari, e dati gli attuali rapporti di forza, il partito si disinteressa delle elezioni democratiche di ogni genere e non esplica in tale campo la sua attività.

 

Non staremo a rilevare l’evidente tortuosità dell’ar­gomento che mostra una non chiara coscienza del pro­blema elezionistico e denota la preoccupazione, che non è la nostra preoccupazione, di evitare che comunque e in qualunque situazione il Partito partecipi alla lotta elettorale. A prendere sul serio questo strano e para­dossale modo di porre il problema dell’astensionismo o del partecipazionismo, il Partito dovrebbe disinteres­sarsi delle elezioni democratiche solo perché democratiche, ma dovrebbe riesaminare la sua… partecipazione quando lo Stato capitalistico, esercitando la sua ditta­tura al 100 %, avrà soppresso gli istituti elettivi parla­mentari. La distinzione tra dittatura e dittatura, tra Mussolini e De Gasperi è davvero un cattivo espediente polemico per l’astensionismo aprioristico, categorico e assoluto.

 

Noi riprendiamo e riaffermiamo senza attenuazione alcuna la linea tradizionale della sinistra italiana che nel convegno di Imola (1920) nel congresso di Livorno (1921), nel congresso di Roma (1922) e nelle campagne elet­torali del 1921 e 1924 ha costantemente respinto l’asten­sionismo di principio, accettato il metodo elezionista di­chiarando di valutare volta a volta la sua partecipazione alle elezioni e vi ha partecipato di fatto senza che per questo sorgesse un fatto nuovo d’ordine pratico o d’or­dine teorico da costringere il Partito a rivedere que­sto aspetto particolare e marginale del suo lavoro.

 

13 — Convinto che le generazioni rivoluzionarie si suc­cedono rapidamente e che il culto degli uomini è l’aspet­to più pericoloso dell’opportunismo, dato che il pas­saggio dei capi anziani per logorio al nemico e alle tendenze conformiste è fatto naturale confermato dalle rare eccezioni, il partito dà la massima attenzione ai giovani e fa, per reclutarne e prepararne alla attività politica di domani, aliena al massimo da arrivismi e apologismi di persone, il maggiore degli sforzi.

 

Pensiamo che la selezione come la valorizzazione del materiale umano del Partito sfuggano ad ogni valuta­zione basata… sul certificato di nascita, suscettibile di interpretazioni che l’esperienza e la storia non hanno sempre confermato. Particolarmente significativa a que­sto proposito l’esperienza fatta dalla sinistra italiana che ha visto dispersi i suoi quadri direttivi nei modi e nelle forme che ognuno di noi non può, né deve dimenticare.

 

Nella milizia rivoluzionaria i doveri non hanno età e le selezioni si verificano al fuoco della lotta politica e non nel segreto delle conventicole; l’appello ai “gio­vani”, anche quando è giusto e necessario, non deve significare per i “vecchi” che essi sono dispensati dal­l’assumere tutte le responsabilità a fianco dei militanti nello stesso partito.


Dopo il 1952 - La problematica del partito e gli epigoni



Dalla dialettica al sofisma

 

Poiché ci si costringe a precisare come in realtà sta­vano le cose nei riguardi della accettazione o meno di certe teorie, diremo che il pensiero di Alfa ha sempre interessato il C.E. come espressione di un mondo assai lontano e i suoi membri erano tutti d’accordo nell’af­fermare che Alfa era rimasto al 1921 e che ogni suo apprezzamento politico esprimeva costantemente una posizione ideologica e tattica intermedista, situantesi cioè tra il nostro partito e lo stalinismo. Che oggi tale opinione si sia improvvisamente cambiata in qualcuno cui ben si addice la nota definizione di “segretario per­manente delle opinioni trionfanti”, è cosa che non ci riguarda.

 

Ma passiamo all’essenziale, alla precisazione cioè dei reali dissensi che hanno portato alla frattura la nostra organizzazione, frattura che non si è potuta evitare per il persistente atteggiamento cocciuto, formalista e set­tario proprio di Alfa a cui conveniva rompere il partito in due tronconi ciò che l’avrebbe liberato dall’incubo di dover marciare presto o tardi al passo dei soliti scarponi.

 

Primo dissenso: il modo di concepire la dialettica e il rovesciamento della prassi.

 

Secondo dissenso: il modo di concepire la dittatura del proletariato attraverso il surrogato politico della dittatura di partito.

 

Terzo dissenso: l’atteggiamento del Partito di classe di fronte alla Russia; ma su questi dissensi, compresi quelli sulla necessità del partito e sui rapporti tra partito e massa, il secondo Congresso del Partito ha detto la sua parola definitiva.

 

E veniamo alle ultime scoperte o sistemazione scien­tifica di scoperte già in precedenza timidamente af­facciate, quella sull’indifferentismo che per potenza “ballistica” supera quella dell’energia nucleare, e l’al­tra di un Marx e di un Lenin “tifanti” nelle guerre del loro tempo per questo e quel belligerante borghese.

 

Premettiamo che ogni compagno può aver l’opinione e la simpatia che vuole, ma senza la pretesa di farne una teoria e sopratutto di imporla al Partito.

 

Quale deve essere oggi l’atteggiamento dei rivoluzio­nari e della organizzazione nella quale militano di fronte alla guerra imperialista in genere e ai suoi protagonisti in particolare?

 

Se ci si muove, come ci dobbiamo muovere, sulla linea del disfattismo rivoluzionario ai fini pratici della lotta del proletariato, non ha alcuna importanza, o ne ha una del tutto astratta e intellettualistica, buona semmai per i metafisici e non per i rivoluzionari, sapere se e quale dei protagonisti del terzo conflitto mondiale porterà nel suo seno la carica storica del “progressivo” o del “regressivo” e se ai fini del de­stino del proletariato sia augurabile la vittoria dell’uno o dell’altro dei ladroni imperialisti.

 

Che cosa poi voglia significare auspici di questo ge­nere senza un apporto diretto delle forze interessate alla realizzazione di ciò che si auspica, noi non sap­piamo. E’ comodo semmai a chi, come Alfa, riduce la dialettica ad un giuoco, non davvero fascinoso di idee astrali ed esaurisce il suo compito di capo nel ripetere per tutta la durata della seconda guerra mondiale l’au­gurio per la vittoria dei regimi nazi-fascisti, mentre noi osiamo chiedere ai compagni se per caso non avessimo fatto male a seguire il destino (quello dei fessi direbbe Alfa) di difendere in altra sede, con altri mezzi e con altre idee la tradizione rivoluzionaria della Sinistra ita­liana.

 

E torniamo a precisare queste idee.

 

Chiusa l’epoca delle guerre nazionali condotte con l’apporto delle forze rivoluzionarie, le guerre odierne avvengono tra le contrastanti forze dell’imperialismo e sono in ultima analisi dirette contro la classe operaia di tutti i paesi.

 

Oggi non si pone più il problema strategico che tanto appassionò Marx ed Engels (1848-1849) conseguente­mente all’incombente pressione dell’impero zarista e alla spinta verso le lotte per le indipendenze nazionali ; Marx ed Engels opponevano allora e giustamente i po­poli del tutto reazionari che servivano da “avamposti russi” in Europa ai “popoli rivoluzionari” tedeschi, polacchi e magiari.

 

Nelle guerre imperialiste per i rivoluzionari non esi­ste il compito di far voti per la vittoria di chi porta sulla punta della bionetta ragioni di progresso borghese, ma l’imperativo di inserire la loro lotta e gli obiettivi della rivoluzione di classe nelle vicende della stessa guerra borghese. E per dire pane al pane, la stessa guerra condotta dalla Russia sovietica, anche nell’ipotesi di una guerra difensiva, e tenendo conto del grado del suo sviluppo economico-sociale non si sottrae a questa ferrea legge che presiede a tutta l’organizzazione del mondo borghese.

 

A questo proposito ci si consenta di ricordare quanto scrivevamo fin dal luglio 1946 (Prometeo N. 1 anno I):

 

Le forze del capitalismo, entrate nel girone infernale della guerra per risolvere i problemi posti da que­sto o quell’imperialismo, non sono in nessun caso per dei marxisti suscettibili di essere suddivise in forze contrapposte in quanto progressive le une e reazionarie le altre. E come nessuna formulazione di simpatia e di auspicio si ebbe ieri da parte nostra per la vittoria delle forze dell’Asse sol perché esse, più di quelle an­glosassoni, erano considerate dalla nostra analisi critica più rispondenti nel piano della organizzazione econo­mica e politica al corso attuale del capitalismo, così nessuna formulazione di simpatia e di auspicio si avrà domani per la vittoria, ad esempio, delle forze sovie­tiche in lotta contro quelle anglosassoni solo perché il regime sovietico, il regime cioè del più avanzato e ca­ratterizzato capitalismo di stato, rappresenta storica­mente una fase più progressiva di questa economia evol­vente verso le forme più vaste e radicali della produ­zione collettiva, più vicine perciò e più pregne di so­cialismo. L’evoluzione capitalistica procede per virtù delle proprie interne contraddizioni e non per le sim­patie e i voti che gli possono venire dagli avversari di classe. Quando la guerra imperialista scuote nel pro­fondo il sistema di produzione capitalistico e le stesse leggi che lo regolano, compito essenziale e immediato del partito rivoluzionario è quello di operare conse­guentemente all’analisi marxista della natura di tutte le guerre dell’imperialismo, che trovano la loro necessaria giustificazione storica ad un dato punto dello sviluppo economico del capitalismo e degli antagonismi di classe e non in questo o in quel motivo esteriore a cui suol legarsi la fortuna degli opportunisti. Tenendo presente che il proletariato, benché appaia temporaneamente sotto il peso di peggiorati rapporti di forza, è pur sempre artefice non secondario della storia, sta al partito di illuminarlo, trarlo progressivamente dall’influenza delle ideologie della guerra, rianimarlo, ricondurlo sul piano della comprensione e della lotta di classe e convogliarne quanto è più possibile le forze per trar profitto da una eventuale situazione favorevole che gli consenta di por­re concretamente il problema della trasformazione del­la guerra imperialista in guerra sociale.

 

Questa messa a punto teorica fu allora originata proprio dai primi accenni revisionisti di Alfa sul pro­blema della natura della guerra. Mentre in noi ciò che valeva centralmente era la soluzione proletaria della crisi determinata dalla guerra, Alfa affidava alla na­zione pervenuta più di recente al capitalismo il com­pito di smantellare la cittadella della conservazione rap­presentata dalla nazione a vecchia e consolidata eco­nomia capitalistica. Come se la potenza del giovane capitalismo vittorioso così centuplicata non desse poi l’avvio ad un nuovo ciclo di sfruttamento del proleta­riato e non allontanasse ogni possibilità di ogni rivolu­zione socialista.

 

Rifacciamoci ai classici.

 

L’altra guerra (1870-71) aveva accelerato lo svi­luppo nella direzione della democrazia, del progresso borghese: caduta di Napoleone III, unificazione della Germania. Questa guerra (1914-16) non può accelerare uno sviluppo che nel senso della rivoluzione socialista.

 

Lenin, Contre le Courant

 

Nel 1793 e nel 1848 in Francia come in Germania e come in tutta Europa, la rivoluzione borghese-demo­cratica era obiettivamente all’ordine del giorno… Alle guerre feudali e dinastiche s’opponevano allora, obiet­tivamente le guerre rivoluzionarie-democratiche, le guerre nazionali-emancipatrici. Tale era il contenuto dei problemi storici dell’epoca. Al presente, per i grandi stati avanzati dell’Europa, la situazione obiettiva è un’altra. Il progresso, se si trascura certi rinculi provvisori, non è realizzabile che andando verso la società socialista, verso la rivoluzione socialista. Alla guerra imperialista borghese, non può opporsi, obiettivamente dal punto di vista del progres­so, dal punto di vista della classe avanzata che una guerra contro la borghesia, la guerra per il potere, sen­za la quale non si può avere un serio movimento in avanti.

 

Contre le Courant

 

La guerra tra l’Inghilterra e la Russia (si alludeva qui al pericolo allora incombente — 1885) a proposito dell’Afganistan può avvicinare la fine del regime bor­ghese. Ma a chi nel caso presente, augurare vittoria? A chi augurare la disfatta? All’Inghilterra o alla Russia? Guesde risponde: io auguro la disfatta a tutti e due. E Guesde conclude: quale che sia quello dei due regimi, ugualmente oppressori benché di specie diversa, che cade sotto i colpi dell’avversario… sarà la breccia at­traverso la quale passerà il nuovo regime sociale.

 

Quale che sia quello dei giganti imperialisti allo stesso modo infame che cadrà nella guerra di rapina 1914-16 una breccia sarà aperta attraverso la quale passerà la rivoluzione proletaria; ecco come deve ra­gionare un socialista del nostro tempo.

 

Nella guerra imperialista del 1914-16 (noi aggiun­giamo di tutte le guerre imperialiste presenti e future) non si può essere internazionalista conseguente senza essere “disfattista”.

 

Lenin e Zinoviev, Contre le Cou­rant

 

E il disfattismo non consente in sede politica di “tifare” per nessuno, né per il nazi-fascismo ieri, né per la Russia di Stalin, oggi, neppure dietro l’espediente teorico di considerare la Russia sovietica come il paese che il proletariato internazionale dovrebbe aiutare con la sua lotta a vincere la… feudalità.

 

Marx, Engels e persino Lenin hanno “tifato” ed era giusto che lo facessero di fronte alle guerre nazionali del loro tempo, ma è per lo meno sconcio cercare di rimpicciolirli e di ridicolizzarli nel tentativo di adattarli alla propria statura nella veste di chi, alla vigilia del terzo massacro mondiale, non si pone altro compito che quello di vivisezionare il ventre dei belligeranti per sapere chi di essi nasconde la molla dell’ulteriore pro­gresso del capitalismo.

 

Finiti i dissensi? Se lo fossero nessuno e nulla avreb­be potuto impedire la loro soluzione sul piano del partito.


Crisi del bordighismo? forse, in nessun caso crisi della sinistra italiana



Per abitudine, e potremmo aggiungere per inerzia teorica, la sinistra italiana è stata confusa fin qui, so­pratutto presso i comunisti degli altri paesi, col bor­dighismo, o meglio col nome di Bordiga e con le for­mulazioni teoriche che hanno caratterizzato il suo pen­siero personale.

 

t avvenuto che il ricorrente isolamento di questo compagno, spiegabile col fatto di essere stato il più adu­lato e il più “tradito”, aggiunto al fatto che i com­pagni che gli stavano vicini erano schiacciati da quella sua eccezionale facondia e dalla elaborazione teorica assai caratteristica per la sua straripante verbosità ed estemporaneità al servizio d’una cultura tecnica, storica e filosofica più vasta che profonda, ha impedito il for­marsi di una coscienza critica tra i compagni della si­nistra, e una continuità, anche organizzativa, d’un saldo nucleo di lotta. È avvenuto che l’iniziativa per un’opera d’opposizione condotta contro la bolscevizzazione prima e contro lo stalinismo poi, ha trovato in Bordiga sol­tanto un remissivo e stanco fiancheggiatore, mai un iniziatore, per cui si può affermare che dal defenestramento della sinistra (1923) fino al suo parziale e inte­ressato risveglio avvenuto di recente sotto il martella­mento della parte più sensibile del nostro partito, Bordiga appare come il combattente che ha preferito rima­nere per quasi un trentennio sotto le immani macerie del collo della 3a internazionale, avvenuto storicamente con l’affermazione dello stalinismo in Russia e nel mondo.

 

La ridda degli “ismi” (leninismo, trotzkismo, stali­nismo, bordighismo), ha significato in ogni epoca la fase di deflusso d’ogni grande esperienza, il segno distintivo di questa o quella “chiesa” che gli epigoni della dot­trina o i virtuosi d’ogni innovazione tattica sempre pun­tualizzano, esteriorizzandolo, un processo di decadenza quando non di degenerazione.

 

La storia degli ultimi decenni dei partiti legati alla sorte della internazionale comunista conferma l’esat­tezza di questa nostra considerazione e sono pochi co­loro che si siano salvati da questa contaminazione, l’ideologia della ritirata, rimanendo saldamente ancorati alle idee “maestre” più che all’opera personale o alle pretese dei “maestri”.

 

Tra questi pochi è doveroso annoverare la sinistra italiana che esule per la maggior parte in terra di Francia o del Belgio, in parte relegata nelle galere o confinata nelle isole dal fascismo, ha tenuto a distin­guersi apertamente dall’arbitrario e polemico appella­tivo di “bordighista”.

 

L’oggetto di questo nostro studio è precisamente quello di dare finalmente a Cesare quel che è di Cesare, e lo faremo riferendoci non ad una generica obiettività, che di fatto è sempre parziale e soggettiva anche quan­do è fatta in buona fede, ma alla nota e documentata esperienza di questi anni. Se quindi il bordighismo come particolare e “originale” atteggiamento di pensiero e di tattica ha avuto il suo momento più tra i partiti dell’internazionale che da noi, questo è dovuto ad un interesse polemico e di “tendenza” degli organi direttivi del Comintern, a cui faceva comodo caratterizzare e sistematicamente confondere il movimento della sini­stra italiana con il pensiero e gli atteggiamenti perso­nali di Bordiga.

 

Va riconosciuto tuttavia che per i quattro quinti è dovuto a Bordiga il lavoro teorico di questa corrente, e sempre per i quattro quinti, almeno fino al 1923, è l’ap­porto della sua attività politica e organizzativa.

 

Ciò premesso vediamo come e quando il pensiero di Bordiga ha espresso veramente e solamente se stesso e quando invece esso è passato per intero nel patrimo­nio teorico e tattico della sinistra italiana, vediamo cioè fino a che punto si è barato dallo stalinismo nostrano e internazionale nell’identificare Bordiga con la sinistra.

 

Ma innanzitutto come deve essere considerata l’ope­ra di un militante dell’avanguardia rivoluzionaria nel suo contributo più o meno rilevante nella elaborazione dei problemi di teoria in genere, di economia e di storia, o di prassi più schiettamente politica e tattica? Deve essere considerata, crediamo, nel modo più imperso­nale, anche quando è personalissima ; nel senso cioè che il rivoluzionario, qualunque sia l’epoca del suo apporto teorico, qualunque sia il suo nome, opera con gli stru­menti che gli provengono dal cantiere del lavoro scien­tifico accumulato dalla classe; ripiglia i motivi che altri prima di lui avevano enunciato e condotto ad un certo grado di sviluppo quale era stato reso possibile da un dato processo di maturità della classe operaia ope­ratosi sotto la spinta degli stimoli e dei bisogni di quel dato momento della vita del capitalismo. Il rivoluzio­nario intellettuale deve abituarsi a spogliare la sua personalità dai manti del “culturalismo” dalla fisima di farsene piedestallo ad affermazioni personali attraverso il mal vezzo delle accademie paesane quando non addi­rittura della setta alla moda massonica.

 

In questo senso dobbiamo ancora a Marx il saggio ammonimento quello di un Marx che non si sentiva di essere marxista di fronte a certe teorizzazioni del marxismo.

 

Dobbiamo ripulire una buona volta casa nostra dal ducismo teorico e dalla mentalità della confraternita sotto il segno della infallibilità dell’uno e della supina osservanza degli altri.

 

Si vuol concludere questa premessa con l’afferma­zione, per noi d’ordine pregiudiziale, che la sinistra ita­liana ha affondato le sue radici nel terreno vivo del socialismo messo alla prova dalla dura, operante e for­mativa esperienza della prima guerra mondiale: ha im­personato l’iniziativa rivoluzionaria del primo dopo­guerra, in continuità di una matura esperienza critica, ha puntualizzato l’opposizione ora palese, ora latente contro l’indirizzo prevalentemente “russo” della terza internazionale; ha operato ed opera da polo di attra­zione delle residue scarsissime forze rimaste ancorate sul piano di classe e della lotta rivoluzionaria dopo, la dispersione tragica dell’organismo unitario dell’Interna­zionale, passato armi e bagagli sul fronte dello schiera­mento imperialista e della guerra.

 

Si tratta di una prima distinzione sul metodo di considerare la formazione della corrente di sinistra mar­xista, se legata ad una coscienza teorica e politica in connessione con lo sviluppo degli avvenimenti iniziatisi nel cuore della prima guerra mondiale, oppure all’opera ‘di interpretazione di questo o quel compagno, di questo o quel raggruppamento; la prima è una formulazione dialettica propria del marxismo, mentre la seconda ci riporta ai modo tutto idealistico e soggettivo di consi­derare la funzione degli uomini nella dinamica del con­flitto di classe.

 

L’infanzia della sinistra italiana è caratterizzata dal­l’astensionismo. Strano destino questo di certe idee madri che la realtà dovrà poi sottoporre a duro vaglio e alle più impensate metamorfosi. Questa corrente è astensionista, d’un astensionismo tra teorico e tattico, fino al Congresso di Livorno (1921); da questa data fino al 1924 è elezionista con nostalgia astensionista più o me­no accentuata.

 

stato motivo di polemica astiosa e cattiva quello degli stalinisti che attribuiscono a Bordiga l’accortezza tattica d’aver ceduto sul problema dell’astensionismo, per il piatto di lenticchie della direzione del partito., Noi diciamo piuttosto che l’astensionismo di Bordiga non è mai pervenuto, come quei frutti che rimangono sempre un po’ acerbi, ad una organica e sufficiente ela­borazione teorica. La povertà di argomentazioni del di­scorso di Bordiga al II Congresso dell’Internazionale e delle tesi relative presentate allo stesso Congresso dalla delegazione italiana, è constatazione notevole per la sua negatività, allo stesso modo e nella stessa proporzione che lo erano le argomentazioni elezioniste, di un ele­zionismo “tout court” di Lenin fatte in contradditorio, mentre in Italia urgevano problemi che richiedevano ben altro che i pannicelli caldi d’una stantia polemica e d’una prassi altrettanto stantia e unilaterale come quella dell’astensionismo, incapace di per sé a sostituire alla strada parlamentare, quella rivoluzionaria ; altrettanto stantia e unilaterale quella dell’elezionismo che, dovevafinire per confondere il parlamentarismo rivoluzionario con le esperienze del governo operaio di Turingia e di Sassonia chiamato a chiudere tragicamente la fase della rivoluzione tedesca ed europea, spianando la strada al­l’avvento di Hitler.

 

Arriviamo così a questa netta distinzione della si­nistra italiana da Bordiga e da certi bordighisti; la si­nistra non è mai stata per un astensionismo teorico o moralistico o costituzionale; non paventa l’elezionismo, e quando decide di servirsene, lo fa considerandolo sem­plice espediente tattico, particolarmente opportuno nel­la fase in cui il proletariato si lascia maggiormente “prendere” dalla illusione elettoralistica e conduce la battaglia per una vera e propria propedeutica del boi­cottaggio contro ogni aspetto del parlamentarismo. Nello stesso tempo non ha accettato né ha mai fatto suo l’altro aspetto del partecipazionismo bordighista alle elezioni basato su un calcolo puramente quantita­tivo e formale; per la sinistra la battaglia politica con­tro tutto lo schieramento dei partiti borghesi, è quello che conta e non il numero dei voti che potranno essere raggranellati da un movimento come il nostro che per sua natura non è chiamato a giocare alcun ruolo sul piano della democrazia parlamentare.

 

Su questo problema la sinistra italiana aveva defi­nitivamente precisato la sua fisionomia teorica e tattica al Convegno di Imola all’atto dello scioglimento della frazione astensionista e più decisamente con le tesi base della costituzione del partito ai Congressi di Livorno (1921) e di Roma (1922).

 

Che in questo precisarsi dei compiti del partito an­che su questo problema che tanto ha appassionato alcuni settori della internazionale comunista, Bordiga si sia accortamente barcamenato, è fatto in sé di banalissima importanza, se ciò non stesse ad esteriorizzare un mo­mento della facilità e instabilità teorica di questo com­pagno continuamente oscillante tra una valutazione de­terministica dei fatti che gli è naturale, ed una valuta­zione dialettica di comodo, presa d’accatto dal marxi­smo, per ciò sentita ed espressa deterministicamente secondo i canoni del più abusato scientismo positivista.

 

Vedremo che là ove la sinistra italiana è spinta a dissentire da Bordiga, l’origine del dissenso indicherà ogni volta che questo avviene per il diverso modo di interpretare il marxismo.

 

Dal Congresso di Livorno alla defenestrazione della sinistra avvenuta nel 1923, la politica del partito, impron­tata alla ideologia della nostra corrente per i suoi nove decimi non solo è tuttora valida, ma costituisce quanto di vivo e duraturo è sopravvissuto al disastro ideologico ed organizzativo abbattutosi sulla internazionale di Lenin.

 

Gli anni 1924 e 1925 segnano il periodo della intensa bol­scevizzazione dei partiti della internazionale; il cam­biamento della guardia ai vertici delle sezioni ritenute “appestate” di sinistrismo ne aveva drammaticamente segnato l’inizio. L’opposizione a questa politica, latente nel partito russo, non ha avuto internazionalmente sto­ria all’infuori della nostra presa di posizione attraverso la denuncia aperta fatta con la costituzione del “Comi­tato d’Intesa”. Fatto nuovo nella storia della sinistra italiana, l’iniziativa di una presa di posizione di lotta frontale parte per la prima volta dalla base, da una di­rezione collettiva e spersonalizzata della nostra corrente, con Bordiga al rimorchio. Questa situazione rimarrà immutata fino al giorno in cui non sarà posta ai compagni della sinistra la necessità di prendere l’altra ini­ziativa, quella di difendere lo stesso apporto teorico del compagno Bordiga contro il Bordiga della volontaria clausura.

 

L’aspra battaglia condotta dal Comitato d’Intesa fino al Congresso di Lione (1926) funzionò da vero e tem­pestivo campanello d’allarme nei riguardi della politica imposta dagli organi centrali dell’Internazionale, e at­tende di essere esaminata al lume degli avvenimenti che seguirono. E’ certo comunque che nessun dissenso storico si manifestò allora tra i compagni del Comitato d’Intesa e Bordiga all’infuori di una tendenza di questo compagno a “mollare” di fronte alla enorme pressione esercitata da Mosca che vedeva in questa specie di pro­nunciamento della sinistra italiana una lacerazione della disciplina formale realizzata in nome della vera disci­plina rivoluzionaria, esempio che avrebbe potuto “sug­gestionare” altri paesi, particolarmente la sinistra te­desca.

 

Al Convegno di Napoli, cui era demandata la deci­sione se continuare o far cessare l’opera del Comitato d’Intesa si è dovuto procedere in senso maggioritario e mettere in minoranza Bordiga per poter condurre la battaglia fino al Congresso di Lione, e non capitolare di fronte all’intimidazione di Zinoviev, l’allora segretario dell’Internazionale. Nello spazio di pochi mesi la sini­stra che al Convegno Nazionale del 1923 controllava tutt’ora la maggioranza del partito e sentiva attorno a sé la solidarietà e la simpatia dell’apparato funzionari­stico (per la verità questo termine non aveva il signifi­cato che poi ha assunto nella storia del movimento ope­raio), vide attorno a sé farsi il deserto, fenomeno questo che meriterà una pagina a parte nella storia della sinistra italiana, ma è comunque certo che nei compagni consapevoli apparve allora per la prima volta in tutta la sua importanza e gravità la constatazione che la vita e l’avvenire di questa corrente andavano sempre più sfuggendo a quella atmosfera per buona parte fittizia nella quale era andato isolandosi il pensiero di Bordiga che vi viveva dentro come il baco nel bozzolo che si era tessuto.

 

È troppo facile, sopratutto troppo comodo attribuire la dispersione della sinistra al fascismo da un lato, e alla reazione stalinista dall’altro. Sta di fatto che dal 1926 la sinistra ha praticamente cessato di vivere nella organiz­zazione della internazionale stalinista e tutte le ulteriori manifestazioni di pensiero, di stampa e di organizza­zione di questa corrente avvengono al di fuori della persona fisica di Bordiga, su direttive che per buona parte divergeranno dal suo pensiero e sopratutto dal suo “atteggiamento”, atteggiamento non casuale, ma voluto che si protrarrà fino alla caduta del fascismo.

 

Analizziamo allora alle radici le ragioni di un isola­mento, il suo legame col modo di sentire i problemi d’ordine ideologico e d’ordine politico del marxismo. Bordiga non aveva mai cessato di considerare la Russia come una realtà economica con prevalenti caratteri so­cialisti : per lui soltanto la politica di Stalin e della in­ternazionale avevano degenerato.

 

Da questo momento le posizioni divergono: mentre la sinistra continuerà a muoversi sulla linea tradizionale che si ispira ad una visione dialettica della storia in generale e della lotta del proletariato in particolare, per cui il partito e i doveri della milizia rivoluzionaria si annullano in conseguenza delle mutate condizioni obiet­tive, Bordiga si mantiene conseguente al suo modo di sentire tutto deterministico e vi si uniforma. Abbiamo’ scritto “conseguente” senza voler sofisticare se questa convenienza gli servisse per giustificare a posteriori il suo “non fare” o era logica personale applicazione’ d’una ferrea premessa deterministica di tirare i remi in barca e attendere da un rovesciamento radicale la nuova situazione per riparlare di partito e di milizia rivolu­zionaria.

 

Bordiga si atterrà scrupolosamente a questo coman­damento per cui gli sarà estraneo ciò che faranno i compagni organizzatisi in frazione all’estero, come gli sarà estranea l’opera di riallacciamento dei primi nuclei clandestini che porterà fino alla costituzione del partito. E quel che è peggio anche i colossali avvenimenti della insurrezione del proletariato spagnolo, del crollo della internazionale e della seconda guerra imperialista han­no atteso invano una sua messa a punto e di critica e di collaborazione teorica atti a dimostrare la efficacia della continuità del marxismo dottrinario, e sopratutto atti ad apprestare il materiale di idee e di esperienza indispensabili per la futura ripresa del partito di classe.

 

Questo non lo diciamo per formulare un argomento di polemica personale, ma soltanto per precisare che la strada del bordighismo divergeva da quella della si­nistra italiana, per la stessa ragione che il metodo dia­lettico diverge dal metodo deterministico là ove pre­sume che la rivoluzione possa fare a meno della vo­lontà realizzatrice degli uomini.

 

È avvenuto così che la troppo lunga assenza dalla lotta politica, l’attaccamento formale e sentimentale al­l’internazionale e all’esperienza economica della Russia sovietica portassero Bordiga ad un grave errore di pro­spettiva nel senso cioè di porre la deviazione al posto della controrivoluzione; al posto del ruolo solidale del capitalismo imperialista nella guerra, la distinzione in tanti capitalismi frazionati in una graduatoria di di­verse responsabilità (capitalismo n. 1, capitalismo n. 2 ecc.); al posto della guerra universalmente capitalista e obiettivamente controrivoluzionaria, considerare i belligeranti regressivi gli uni e progressivi gli altri.

 

Si è venuta così a determinare per noi della sinistra la situazione davvero paradossale di dover difendere il pensiero di Bordiga entrato legittimamente a far parte dei patrimonio della sinistra italiana e di respingere quel tanto che ritiene non conforme al marxismo e all’interesse della lotta rivoluzionaria; in una parola si è posto per la sinistra la necessità di dover difendere il Bordiga non deteriore contro certo bordighismo da… loggia massonica venuto a suppurazione.

 

Si è visto poi sopraffino per l’incostanza e la sor. prendente “souplesse” dimostrata quanto di tutto ciò si dovesse attribuire a particolare vizio mentale e a vero e proprio convincimento, quanto invece a vezzo cerebrale e a “sfizio” intellettualistico di chi riempiva il tempo della milizia di classe interrotta con la facile tecnica del paradosso e dello storicismo del tutto sco­lastico che si pone alla ricerca dilettantistica delle forze borghesi che portano nel loro seno la carica del “pro­gressivo”.

 

Sta di fatto comunque che dalla costituzione del partito ad oggi la distinzione che è oggetto di questa nostra trattazione si è fatta più precisa e determinante.

 

I problemi sui quali tale distinzione si è maggiormente verificata fino al punto di provocare riflessi d’ordine pratico ed organizzativo, sono ben chiari nella coscienza dei militanti del partito, ma non è male riproporli al nostro esame per misurarne la distanza e dare materia di studio per una critica obiettiva e consape­vole d’una sinistra italiana troppo spesso confusa con Bordiga e quel che è peggio col bordighismo.

 

Ecco in sintesi quanto precisa in modo inconfutabile il volto ideologico e politico della sinistra italiana:

  1. La interpretazione dialettica della vita e del mon­do quale è data dal marxismo dottrinale e quale la vi­cissitudine delle lotte proletarie ha confermato come valido e insostituibile strumento di teoria e di prassi rivoluzionaria. La necessità permanente e concreta di legami indissolubili tra partito e classe, per la consi­derazione ormai ovvia che il partito rivoluzionario sa­rebbe svuotato d’ogni contenuto storico se staccato dal­la classe, come la classe smarrirebbe se stessa, incapace quindi di pervenire ai suoi compiti storici fidando sulle sole sue forze, se le venisse meno la guida del partito.
    La rivoluzione, l’esercizio della dittatura, come la costruzione della società socialista sono la risultante’ della felice combinazione di queste due forze sogget­tive fondamentali e tra loro interdipendenti; nulla in­fatti avverrebbe nella storia senza l’intervento della vo­lontà umana, come la volontà opererebbe a vuoto se cessasse di essere l’elemento realizzatore delle forze obiettive da cui si origina ed è determinata.
    Tra le forze soggettive del moto rivoluzionario non vi è determinazione che non sia a sua volta determinata.
    La sinistra ha inteso tradurre questa impostazione teorica del marxismo nel senso che permanenti debbono essere i legami del partito con le masse proletarie, con le loro lotte e con i loro interessi; per la sinistra non esistono condizioni obiettive del proletariato, anche nei periodi più bui e reazionari, nei quali bisogna rompere questi legami con le masse perché piegate a su­bire la pressione nemica, e finite perciò come unità storica di classe, e come passate armi e bagagli al ca­pitalismo.
  2. La sinistra italiana ha ripudiato tanto in epoca di semi bonaccia come sotto la tormenta reazionaria la teoria del congedo provvisorio in attesa che il mondo del capitalismo operi per conto suo, per un processo interno del suo meccanismo sotto i segni d’una inevi­tabile fatalità storica quel capovolgimento della situa­zione obiettiva da consentire anche ai rivoluzionari in congedo di riprendere il loro posto nella milizia rivo­luzionaria, risorta anch’essa a vita nuova nello spazio d’un mattino quasi per virtù taumaturgica…
    Questo spurio e falso determinismo antidialettico che non considera le alterne vicende della lotta, gli alti e bassi del moto proletario, che non sa decifrare nelle situazioni difficili il da farsi tra il non da farsi, ma teorizza la diserzione preventiva, non è mai entrato nel patrimonio dei realizzatori del marxismo come Lenin. La rivoluzione d’ottobre è stata possibile non per l’im­provvisa apparizione del partito bolscevico, ma dal fatto che questo partito rappresentava di fronte alle masse in moto verso l’insurrezione la somma dei decenni di lotte di faticosa formazione teorica, di contrasti e di scissioni in mezzo alle quali mai era venuta meno la fiducia nelle masse lavoratrici anche quando sembra­vano assenti e corrotte e dominate dalle forze della con­trorivoluzione e del tradimento.
  3. La sinistra italiana considera la Russia come espe­rienza che sta tutta nel capitalismo, con questo di par­ticolare che la pianificazione dell’economia nell’ambito dello stato, inizialmente orientata verso la costruzione della società socialista, ha servito come base alla prima grande esperienza di capitalismo di stato, episodio organico di economia e di politica che bene caratterizza la fase terminale dello sviluppo monopolistico del capitalismo.
  4. La sinistra italiana considera economicamente, socialmente e politicamente solidale, a struttura obiettivamente monolitica lo schieramento del capitalismo nel mondo, anche in quei paesi ove appare meno pro­gredito e più evidenti sono i segni esteriori del suo sviluppo ineguale. Per questa considerazione, che sca­turisce dal più elementare marxismo e che per questa stessa elementarità può non soddisfare gli spaccatori in quattro del capello teorico, l’economia americana va­le in tutto quella sovietica sotto il profilo della prassi capitalistica, allo stesso modo che la politica americana vale in tutto quella sovietica sotto il profilo della cri­minalità d’una classe che vive sulla guerra e sullo sfrut­tamento delle masse lavoratrici di tutto il mondo.

Zone di irrazionalità nel mondo della sovrastruttura



In che misura una improprietà di linguaggio può pervenire a deformare il pensiero che si ritiene impron­tato alle idee e alla metodologia marxista? E’ il caso della interpretazione della irrazionalità nella storia al­lorché viene formulato il quesito su quanto di razionale è nel pensare e nell’operare degli uomini e quanto di irrazionale, invece, è presente e a volte vi domina sotto la parvenza e la falsa apparenza di razionalità.

 

Si affaccia così un problema che chiameremmo di psicologia sociale e politica che non ha avuto fin qui, che si sappia, il posto che merita nella pur vasta pro­blematica marxista.

 

Ci ha condotto ad affrontarlo non tanto la presun­zione di trattarlo a fondo, quanto di porlo sul tavolo dell’osservazione critica e vederne l’importanza non so­lo e non unicamente in sede di elaborazione teorica, ma soprattutto sotto il profilo della sua importanza di azione politica.

 

L’occasione è data da una notazione critica, anche se timidamente formulata, di Giorgio Galli nella sua at­tenta e intelligente recensione al mio libro dedicata alla complessa personalità di Bordiga e pubblicata in “Cri­tica Sociale” del 5 febbraio 1972, n. 3, dal titolo: “P.C.I. Alternative storiografiche”.

 

L’osservazione del Galli è così formulata:

 

Certamente, come rileva Damen, l’impostazione di Bordiga presenta alcuni aspetti non dialettici, una so­pravalutazione del dato razionale che tuttavia è larga­mente implicita in quella concezione che lo stesso Marx definiva “socialismo scientifico”, nel quadro del “mate­rialismo storico”. Ma una dialettica che prenda in con­siderazione la dinamica di un mondo che, come afferma lo stesso Damen, “obbedisce in buona parte a spinte di irrazionalità”, è una dialettica che probabilmente an­drebbe al di là di quello che è stato, sinora, il recepi­mento del marxismo nelle sue varie interpretazioni, comprese le più rivoluzionarie.

 

I termini della mia analisi presi in considerazione dal Galli sono esattamente questi:

 

È mancata a Bordiga una giusta valutazione della dialettica per quel fondo della sua educazione basata prevalentemente sul lato scientifico che lo portava a vedere il mondo e la vita su di un piano di sviluppo razionale, quando la realtà della vita sociale e della lotta rivoluzionaria lo ha messo spesso davanti ad un mondo che obbedisce in buona parte a spinte di irra­zionalità. La metodologia basata sul dato matematico proprio della scienza non sempre combacia con la me­todologia basata sulla dialettica che è movimento e con­traddizione e questo, nell’esame della politica rivoluzio­naria e delle sue prospettive, non è di poco conto.

 

È evidente nella osservazione del Galli una sottintesa ipotesi materialistica e crede di intravedere nella mia formulazione una ipotesi che potrebbe andare oltre i termini della dialettica formale, non coglie cioè il nesso che deve costantemente intercorrere tra il mondo della determinazione e quello della sovrastruttura.

 

Innanzitutto va detto che è proprio del materialismo infantile il modo di concepire il rapporto dialettico tra causa ed effetto di un qualsiasi fenomeno politico-so­ciale con carattere di immediatezza; data cioè la causa a questa deve corrispondere inevitabilmente e subito l’effetto; in altre parole data, ad es., una situazione og­gettiva di crisi profonda del sistema (è il caso attuale di tutto il complesso del regime capitalista) a questa deve necessariamente corrispondere, come un addentel­lato strumentale, automatico con la sovrastruttura, una soluzione rivoluzionaria e su questo presupposto pre­disporre una tattica ed una strategia dell’atto rivoluzio­nario, facendo leva sulla spontaneità delle masse. È questa la tipica “forma mentis” d’ogni tipo di popu­lismo politico che pervade le cosiddette “sinistre” da quelle extra-parlamentari, troppo numerose in questa policromia di gruppi per essere esaminate ad una ad una e troppo inconsistenti per attribuire loro un ruolo ca­ratterizzante nella crisi del sistema, a quella dell’anar­chismo libertario e comunisteggiante e del maoismo be­cero e pasticcione tutti, indistintamente, e non a caso, germinati nel clima del dominio imperialista come mo­mento estremo e parossistico del suo disfacimento.

 

Questo modo di concepire meccanicisticamente il muoversi delle vicende umane è sempre servito a tutti i regimi in crisi come espediente per consentir loro di riprender fiato e di guadagnare tempo nella speranza di risalire la china e ritessere la tela del proprio privilegio di classe e ciò contro le stesse leggi che regolano, in senso contrario, il divenire della storia. Anche il capi­talismo non agisce oggi contro la linea dinamica del suo opposto illudendosi così di violentare la storia?

 

L’argomento così sinteticamente abbozzato merita, pensiamo, un esame più approfondito.

 

Il nostro tempo dà giustamente l’impressione d’aver raggiunto il più alto grado delle certezze obiettive; nel campo delle scienze naturali, nelle ricerche come nelle scoperte la scienza ha realizzato conquiste al di sopra di ogni previsione umana: la rivoluzione tecnologica ha investito di sé ogni attività dell’uomo spazzando via residui del passato, inserendosi come elemento propul­sore e di profondo svecchiamento nella stessa tradizione artigianale che aveva accumulato nei secoli un incom­parabile potenziale di bellezza e di ricchezza. Lo stesso processo produttivo è dilatato ormai sul terreno della più assoluta razionalizzazione. Ma sono forse queste in­discutibili e universali certezze obiettive offerte agli uomini e di cui gli uomini stessi non sempre hanno la dovuta consapevolezza.

 

Tra queste abbiamo posto il processo produttivo che del complesso dell’economia è, a giusta ragione, la ma­nifestazione più razionale: non è concepibile, infatti, la vita dei grandi complessi dell’industria monopolizzata che non sia basata su criteri di rigida programmazione tanto nella sua strutturazione di macchine, di materie prime e di mano d’opera, il tutto contabilizzato fino al minuto temporale e al centesimo monetario, che nelle sue prospettive di sviluppo e di realizzazione del pro­fitto a lungo termine.

 

Eppure se scaviamo nella complessità di questo pro­cesso non è difficile individuare la matrice di vaste e profonde contraddizioni quale, ad es., la tendenza al­l’inarrestabile aumento della tecnica in confronto ai li­miti di assorbimento del mercato e la conseguente ri­duzione progressiva dell’utilizzo della mano d’opera; più in particolare la contraddizione fondamentale tra il crescere, sotto il pungolo della concorrenza, del capitale fisso (macchine) e la tendenza alla diminuizione “globale” del profitto che mette in crisi la scientificità del sistema e manda in bestia i possessori dei mezzi di produzione. Non a caso il marxismo ritiene anarchico questo sistema di produzione, anarchico perché irreale e contraddittorio e quindi irrazionale.

 

Ma l’argomento si allarga a dismisura se spostato sul piano dei fenomeni socio-politici della sovrastruttura, là dove gli uomini pensano e operano.

 

Ci riportiamo così al rapporto dialettico tra i fattori della determinazione e quelli sovrastrutturali che espri­miamo in termini di classe, più precisamente delle due classi storiche che in questa fase vivono, l’una nell’altra, in contrapposizione dialettica, il lungo momento della crisi di trapasso dal capitalismo al socialismo, da una società condizionata, basata sullo sfruttamento dell’uo­mo sull’uomo ad un’altra basata sulla libertà.

 

Nessuno più dubita che il capitalismo è pervenuto alla fase conclusiva del suo ciclo storico, ma non tutti hanno coscienza della gravità della crisi che ha investito quel perfetto ma complicato e delicatissimo strumento produttivo che la scienza, applicata alla tecnica, ha messo nelle mani dei detentori del potere economico e soprattutto dei possessori del capitale finanziario dive­nuto il dominatore dispotico della politica imperialista. Ma la scienza applicata alla tecnica, se ha consentito di dilatare senza limiti la capacità produttiva del capi­talismo, ora è chiamata a consulto al letto di questo grande ammalato per guarire i mali che affliggono il sistema capitalista di produzione dei beni e della loro distribuzione; ebbene questa scienza non ha trovato al­tro rimedio che quello di una tecnologia ancora più avanzata per una ristrutturazione aziendale destinata, sì, a ridare l’illusione di una rinascita ma anche e so­prattutto a riprodurre, e in modo più allargato, i mali che era chiamata a guarire. E tra questi mali, il male maggiore, per il capitalismo, della diminuita capacità del sistema ad assicurare il normale profitto. Da qui l’accresciuto ritmo al processo di accentramento dei grandi complessi industriali nelle varie branche dell’at­tività produttiva: i pesci grandi si mangiano i pesci pic­coli nella speranza di sopravvivere; la polarizzazione ulteriore del capitale finanziario nelle mani di pochi che ricorrono a tutte le forme della speculazione e il crollo verticale delle piccole e medie industrie dato che tanto lo Stato che i privati non vogliono correre rischi con investimenti di capitali in imprese di non sicuro av­venire.

 

Questo complesso economico così profondamente, e inguaribilmente in dissesto e dalle manifestazioni a volte ridicole e a volte tragiche e proprie del capitalismo morente, continua a vivere la sua agonia nella misura che le debolezze e gli errori della classe opposta, stori­camente chiamata al suo superamento, rendono ciò pos­sibile; la verità è che il capitalismo non sta vivendo una crisi di crescenza in quanto strutturalmente capace di aprire davanti a sé un nuovo ciclo di sviluppo, ma è l’antagonista di classe, il proletariato, che non ha an­cora raggiunto quel grado di consapevolezza del proprio fine e di violenza rivoluzionaria per osare di affossarlo.

 

Il capitalismo non muore per esaurimento o perché ha portato a compimento il suo compito storico di classe; può continuare a vivere, come infatti vive, an­che se non ha più nulla da dire sotto il profilo economico e di sviluppo sociale e culturale. Ed è questa specie di interregno tra un capitalismo che non c’è più se non nelle forme antistoriche del parassitismo e della violenza, e un proletariato tuttora incapace di imporre la I sua egemonia di classe che si riproduce nella sovrastruttura con lo sconvolgimento di tutti i valori acquisiti e con la tendenza a regredire verso epoche che ci illudevamo fossero del tutto scomparse.

 

Data la situazione di crisi esistente che sta toccando il fondo nella sua azione di disintegrazione del tessuto economico, del settore cioè che più di ogni altro mo­strava i segni della certezza obiettiva per l’azione coor­dinatrice della scienza e della razionalizzazione, si sa­rebbero dovuti determinare sul piano sovrastrutturale altrettanti sommovimenti nelle strutture socio-politiche con l’acutizzarsi del conflitto di classe e con Io sve­gliarsi di una coscienza rivoluzionaria delle masse. Se ciò è avvenuto, lo è stato solo in parte e in modo limi­tato, quando non del tutto distorto, ciò che dimostra la estrema inadeguatezza e inattualità della tesi, cui accen­navamo più sopra, che vuole che ogni fenomeno del rostrato economico si riproduca per automatismo in superficie, nella mente degli uomini, nei loro rapporti e nelle loro cose quando, in realtà, i fenomeni della strut­tura economica si proiettano sul piano dei rapporti so­ciali e politici in uno svolgimento di ampiezza spaziale e temporale difficilmente delimitabile sia per il diverso grado di sviluppo tra le singole esperienze capitalistiche sia per la lenta e disuguale sensibilizzazione della co­scienza e della volontà umana che attendono un’azione unificatrice, condizione prima e indispensabile perché possa operarsi quel moto di ritorno sulla base della de­terminazione da cui dipende il realizzarsi, in concreto, dell’evento storico.

 

Non è difficile ragguagliare la validità di questi fenomeni con i dati reali dello sviluppo economico, sociale e politico.

 

In altre parole a crolli, anche verticali, in economia non seguono sempre e inevitabilmente soluzioni rivoluzionarie se non esistono condizioni subiettive favorevoli che esaminiamo relativamente alla classe cui storica­mente spetta di compiere l’atto dell’eversione rivolu­zionaria. Sul piano ove operano le forze sociali e poli­tiche della contraddizione dialettica, il problema di una amalgama della coscienza collettiva protesa verso un obiettivo comune mostra maggiori difficoltà di organiz­zazione, di sviluppo e di soluzione in confronto di quelle che abbiamo visto determinarsi nelle strutture di fondo dell’economia.

 

La classe proletaria è nel suo insieme tuttora legata da una unità fittizia più d’ordine sociologico che sal­data ad una base economico-politica; è solcata da sud­divisioni per categorie e in esse da situazioni contraddittorie che investono l’ambiente di lavoro, il grado di sfruttamento fisico e psichico e il sistema di retribu­zione salariale.

 

Una classe che pensa ed opera per categorie non è ancora classe vera e propria perché priva di una co­scienza del suo essere unitario e del fine al quale è chiamata e quando si muove obbedisce a spinte di in­teressi parziali e contingenti e di apparati sindacali e politici che si servono del movimento delle masse per ingabbiarle in una strategia parlamentare per fini utili tanto ai partiti democratici d’opposizione come a quelli che sono al governo. In questo fondo di irrazionalità che pervade ancora buona parte delle masse lavoratrici, il fatto più irrazionale e perverso è che queste si sentono costrette a lottare con scioperi sempre più svirilizzati e con manifestazioni di banale coreografia per falsi scopi e, quel che è peggio, contro gli stessi interessi della classe.

 

Travagliata maturazione di una coscienza di classe

 

In questa immensa e vasta gamma di componenti della classe che va dai singoli ai gruppi, alle categorie e che a volte sembrano assumere i caratteri di veri com­partimenti stagni, le azioni e reazioni e le prese di co­scienza che si determinano per effetto della crisi econo­mica incombente su tutto il sistema, assumono aspetti tra loro difformi e contradditori non facilmente recepi­bili sul piano d’una valutazione unitaria non diciamo economica e politica, ma anche e soprattutto di sem­plice psicologia sociale.

 

Il fatto che vivete, che avete una attività economica, che procreate, che fabbricate prodotti, che li scambiate, determina una concatenazione oggettiva necessaria d’av­venimenti, di sviluppi, concatenazione indipendente dal­la vostra coscienza sociale, che non può mai abbrac­ciarla nella sua totalità. Il fine più nobile dell’umanità è quello di abbracciare questa logica oggettiva dell’evolu­zione economica (dell’evoluzione dell’esistenza sociale) nei suoi tratti generali e principali, onde adattarvi iI più chiaramente e il più nettamente possibile, col più grande spirito critico, la sua coscienza sociale e la co­scienza delle classi avanzate di tutti i paesi capitalisti.

 

Lenin

 

Tutto ciò non va inteso come linearità dello sviluppo che condurrebbe ad una interpretazione ora idealistica, ora mistica ma come un “tutto fatto di contrari” che ci dà il senso vero e rivoluzionario insieme del proce­dere dialettico d’ogni processo di sviluppo.

 

Solo questa concezione ci spiega l’ “auto-dinamica” di tutto ciò che è; ci dà la chiave dei “movimenti bru­schi” delle “soluzioni di continuità”, delle “conversioni di direzione”; solo essa ci fa comprendere la distruzione delle vecchie cose e la nascita delle nuove.

 

Lenin

 

Il proletariato, è questo il solo riferimento valido nel dissolvimento dei valori tradizionali della cultura in questa fase della crisi borghese; è il portatore storico della dialettica concreta; allo stesso modo Engels aveva considerato il movimento operaio tedesco come l’erede della filosofia classica tedesca; in una parola il moderno proletariato si erge come il solo protagonista della sto­ria, dalla rivoluzione industriale inglese all’attuale fase decadente e parassitaria di tutta l’economia capitalista.

 

Questo spiega il perché in questo scorcio di storia, pur così pieno di attriti sociali e di aspre lotte politiche, il massimo della tensione ha dato un diffuso senso di agitazione e di rivolta e di uso indiscriminato della vio­lenza, ma in nessun caso queste agitazioni e rivolte sono riuscite a radicarsi nel profondo della classe ed espri­mere le esigenze fondamentali del conflitto insanabile tra classe e classe.

 

La strada di questa travagliata maturazione d’una coscienza unitaria di classe è per se stessa lunga e dif­ficile e non ha superato lo stadio del rivendicazionismo riformista e corporativo nel quale il proletariato è tut­tora invischiato. Manca la soluzione di queste premesse perché gli operai sentano la suggestione delle lotte di classe e dell’azione rivoluzionaria.

 

Le masse operaie vi perverranno da sole? Vi per­verrà in funzione del complesso della classe la punta avanzata del proletariato industriale nella misura che avrà contribuito a creare le condizioni per la formazione d’una coscienza unificatrice e critica di tutta la storia del movimento operaio; d’un tessuto di elaborazione teorica della rivoluzione di classe; di un corpo di dot­trine maturato nel solco fecondo del marxismo; condi­zioni queste che presuppongono la esistenza e il tra­vaglio formativo del partito rivoluzionario sorto tempestivamente dal seno stesso della classe.

 

All’opera di questo partito e di nessun altro, è de­mandato il compito di ridurre, quanto più possibile, lo spazio tra razionale e irrazionale che separa le masse operaie dalla coscienza del loro essere di classe.

 

Tuttavia non basta che il partito rivoluzionario di­sponga di quadri validi, di dottrina e di una solida base programmatica se non ha presente che queste zone obiettivamente preclassiste, che abbiamo visto essere così vaste e varie nell’ambito stesso della classe, per­mangono ai margini della sua organizzazione e atten­dono di essere ridotte ad un momento attivo della pra­tica rivoluzionaria.

 

Se “la vita sociale è essenzialmente pratica e tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo tro­vano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella condizione di questa attività pratica” (Marx, dalle “Tesi su Feuerbach”) è evidente l’impor­tanza e l’urgenza del problema che sta davanti alle forze responsabili dell’azione rivoluzionaria di precisare e ap­profondire la conoscenza della reale natura di queste zone d’ombra che appesantiscono la lotta di classe e la loro eventuale utilizzazione di forze “sussidiarie” sul piano della strategia rivoluzionaria.


Punti fermi di teoria e di prassi rivoluzionaria



La natura e il compito del partito rivoluzionario è problema che riempie di sé uno spazio ampio e tor­mentato, lo stesso nel quale ha avuto inizio e sviluppo la lotta del proletariato come classe antagonista al ca­pitalismo.

 

Non sempre però tale problema ha coinciso con gli interessi fondamentali del proletariato e non sempre ha portato un contributo positivo nella elaborazione della teoria rivoluzionaria.

 

Quello che ci proponiamo con questo nostro esame è di riunire in una panoramica obiettiva, anche se limi­tata, alcune posizioni teoriche che riteniamo più forte­mente caratterizzanti nello schieramento di sinistra ora turbato dalla pletora di sedicenti “sinistri” incompren­sibili per certa estemporaneità e superficialità, che a volte rasenta l’improntitudine, attingendo alle fonti ori­ginarie e servendoci, per obiettività, degli scritti più qua­lificati e responsabili.

 

Non è facile compito quello di mettere ordine nella congerie di posizioni diverse e a volte contraddittorie sulla funzione del partito e sul rapporto tra partito e classe data la disfunzione teorica che ha colpito la maggior parte dei raggruppamenti che si richiamano genericamente alla sinistra rivoluzionaria non escluso quello della “sinistra italiana”, considerato nel suo complesso, forse entrato in crisi l’assunto ideologo e politico, a cui abbiamo creduto e per il quale abbiamo lottato, del ruolo storico del partito rivoluzionario come è stato concepito e realizzato dal partito bolscevico nella sta­gione rivoluzionaria di Lenin e di Trotzky?

 

Certamente no, ma una considerazione va fatta ed è che nella coscienza di molti si è venuto determinando un senso di vaga insoddisfazione e una conseguente im­pressione di scadimento del ruolo del partito come or­ganismo permanente della classe operaia e come coeffi­ciente indispensabile e determinante dell’atto rivoluzio­nario. E questo per due ordini di ragioni, la prima per la chiusura della fase rivoluzionaria e il passaggio della Russia dei Soviet sul fronte della controrivoluzione rea­lizzato senza un evidente e violento scontro di classe, ma per un occulto processo interno di osmosi econo­mico-sociale non facile a capirsi; la seconda, per la banale identificazione dello stalinismo con il leninismo in quanto continuazione storica, in una fase diversa, del partito bolscevico.

 

Va alla “sinistra italiana” il riconoscimento di aver affrontato per prima e criticamente i problemi inerenti al partito e alle sue implicazioni, ne mettiamo in evi­denza il fulcro centrale sempre valido e le devastazioni che ne sono derivate in parte motivate da imprecise enunciazioni e in parte al prevalere, a volte, di quel sottile veleno della polemica che inclina, per il gusto di distinzione intellettualistica, al paradosso.

 

Ne diamo alcuni precisi riferimenti, a mo’ di dimo­strazione, risalendo a ritroso i cinquanta e più anni di questa particolare storia del partito rivoluzionario nella quale la “sinistra italiana” ha proceduto quasi sempre come corrente di opposizione superando le enormi dif­ficoltà che sempre accompagnano il cammino di una mi­noranza rivoluzionaria.

 

Il rapporto, inteso come nesso dialettico tra il partito e la classe, è espresso con semplice linearità senza cioè porre un accento particolare sul partito nei confronti della classe e neppure sulla classe in confronto al par­tito; il partito è visto come una parte del tutto (classe), certo la parte ideologicamente e politicamente più sen­sibile, più preparata, più pronta, in una parola la parte più avanzata della classe cui compete il compito di guida, di sprone della classe stessa. Parlando delle varie fasi che si situano nel processo storico, Bordiga (Lenin nel cammino della rivoluzione, 1924) si chiede: “Che cosa le separa? Tra lo Stato della borghesia e quello del proletariato non può che collocare il culminare di una lotta rivoluzionaria alla quale la classe operaia è guidata dal partito politico comunista, che vince nel ro­vesciare colla forza armata il potere borghese, col co­stituire il nuovo potere rivoluzionario”.

 

Sempre su questo argomento e nello stesso anno in “Il comunismo e la questione nazionale” scrive:

 

Que­sto interesse generale è, in una parola, l’interesse della rivoluzione proletaria, ossia l’interesse del proletariato considerato come classe mondiale, dotata di una unità di compito storico e tendente ad un obiettivo rivoluzio­nario, al rovesciamento dell’ordine borghese…
La maniera di coordinare le soluzioni “singole” a questa finalità generale si concreta in postulati acquisiti al partito e che si presentano come i cardini del suo programma e dei suoi metodi tattici. Questi postulati non sono dogmi immutabili e rilevati, ma sono a loro volta la conclusione di un esame generale e sistematico della situazione di tutta la società del presente periodo storico nel quale sia tenuto esatto conto di tutti i dati di fatto che cadono sotto la nostra esperienza. Ma non neghiamo che questo esame sia in continuo sviluppo e che le conclusioni si elaborino sempre meglio, ma è certo che noi non potremo esistere come partito mondiale se la esperienza storica che già il proletariato possiede non permettesse alla nostra critica di costruire un program­ma di regole e di condotta politica. Non esisteremmo, senza di questa, né noi come partito, né il proletariato come classe storica in possesso di una coscienza dottri­nale e di una organizzazione di lotta.

 

In questi termini senza ombra di cerebralismi, anche se l’ipotesi è inve­rificabile, la “sinistra” resa più matura e avvertita at­traverso il duro travaglio della costruzione del partito Comunista d’Italia e della sua direzione, esprimeva con Bordiga il rapporto, non formale, che deve intercorrere tra il partito di classe e la classe stessa.

 

A questo proposito riuniamo le varie elaborazioni mi­ranti a definire la natura del partito e i suoi compiti di fronte alla classe che si sono susseguite dal “Manifesto dei Comunisti” (1848) al 1925 le quali, pur esprimendo situazioni storicamente diverse del conflitto di classe, tuttavia la loro formazione rimane fondamentalmente la stessa.

 

Dal “Manifesto dei comunisti”

 

Gli operai cominciano a coalizzarsi contro i bor­ghesi, si uniscono per tutelare le loro mercedi, fondano associazioni stabili per procurarsi da vivere durante i conflitti… Gli operai vincono di quando in quando, ma sono vittorie effimere. Il vero risultato della loro lotta non è l’immediato successo, bensì l’organizzazione sem­pre più estesa dei lavoratori… Operai delle diverse loca­lità si alleano e basta la sola unione perché le molte lotte locali, avendo quasi dappertutto lo stesso carattere, si accentrino in una lotta nazionale (intendi una lotta estesa su tutto il territorio dello Stato, da cui si passa poi al campo internazionale), in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica… e i proletari… effettuano in pochi anni la loro organizzazione. Questa organizza­zione dei proletari in classe e quindi in partito politico, viene ad ogni istante incagliata dalla concorrenza che si fanno i lavoratori stessi, ma rinasce sempre più forte, più salda e potente… Vedemmo come intere parti della classe dominante sono respinte nel proletariato, o per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza… e forniscono molti elementi di educazione al proleta­riato. Finalmente, in tempi in cui la lotta di classe si avvicina a soluzione, il disgregamento prende, nella clas­se dominante, nella vecchia società, carattere così crudo e violento, che una piccola parte dei dominatori diserta e si unisce ai rivoluzionari di quella classe che ha con sé l’avvenire.

 

Dalle “Tesi del Secondo Congresso”

 

Dalle tesi del Secondo Congresso dell’Internazionale comunista sui compiti del partito comunista nella rivo­luzione proletaria:

 

Il Partito Comunista si distingue da tutta quanta la classe operaia in quanto che, abbracciando con lo sguar­do tutto il cammino storico della classe operaia nella sua totalità, mira a difendere, a tutte le svolte di questo cammino, non soltanto gli interessi di singoli gruppi o di singoli mestieri, ma gli interessi della classe operaia nella sua totalità.

 

Dallo Statuto del Partito Comunista d’Italia

 

Votato ad unanimità nel Congresso costitutivo di Livorno

 

L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe. Il Partito Co­munista, riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse la­voratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi dei grup­pi e per i risultati contingenti alla lotta per la emanci­pazione rivoluzionaria del proletariato.

 

Dai “Punti di sinistra” del “Comitato d’Intesa” (1925)

 

Nulla di diverso da questi testi ben conosciuti e fon­damentali dicono i “Punti di Sinistra”, pur nella pri­ma loro redazione schematica, colle parole:

 

Il Partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppi provocato dalla lotta di classe. In quanto tale, il tipo di organizzazione di partito deve essere ca­pace di porsi al disopra delle particolari categorie e perciò raccoglie in sintesi gli elementi che provengono dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori della classe borghese, ecc.

 

Dalle Tesi di Roma (1922)

  1. “Il Partito Comunista, partito politico della classe operaia, si presenta nella sua azione come una collettività operante con indirizzo unitario. I moventi iniziali pei quali gli elementi e i gruppi di questa collet­tività sono condotti ad inquadrarsi in un organismo ad azione unitaria sono gli interessi immediati di gruppi della classe lavoratrice suscitati dalle loro condizioni economiche. Carattere essenziale della funzione del Par­tito Comunista è l’impiego delle energie così inquadrate per il conseguimento degli obbiettivi che, per essere comuni a tutta la classe lavoratrice e situati al termine di tutta la serie delle sue lotte, superano, attraverso la integrazione di essi, gli interessi dei singoli gruppi e i postulati immediati e contingenti che la classe lavora­trice si può porre”.
  2. “La integrazione di tutte le spinte elementari in una azione unitaria si manifesta attraverso due princi­pali fattori; uno di coscienza critica, dal quale il Partito trae il suo programma, l’altro di volontà che esprime nello strumento con cui il Partito agisce, la sua disci­plinata e centralizzata organizzazione. Questi due fat­tori di coscienza e di volontà sarebbe erroneo conside­rarli come facoltà che si possono ottenere o si debbono pretendere dai singoli poiché si realizzano solo per la integrazione delle attività di molti individui in un orga­nismo collettivo unitario”.

In questo profilo storico la definizione del partito rivoluzionario ed il rapporto partito-classe è univoca anche se diversamente espressa nel breve scorcio di tempo degli anni ‘20, cioè da Livorno alla promulga­zione delle “leggi eccezionali” che gettava il partito nella clandestinità. Sono i termini di una piattaforma che è stata alla base unitaria della “sinistra italiana” e nella quale noi della “sinistra” ci siamo sempre rico­nosciuti. Ed è su questa linea maestra teorico-politica che il nostro partito consolida i pilastri di dottrina e di coerenza politica della sinistra rivoluzionaria.

 

Se tale è la costante teorica che ha caratterizzato le tumultuose vicende di questa nostra corrente, bisogna rifarci ad un articolo, particolarmente significativo di Bordiga che se non veniva ad incrinare sostanzialmente tale costante teorica, tuttavia il modo della sua formu­lazione, preso in assoluto, poteva dare adito, come del resto l’ha dato, a delle interpretazioni devianti e per questo arbitrarie ed anguste. Ci riferiamo all’articolo “Partito e azione di classe” in cui è soltanto intravista quella tematica paradossale che ha accompagnato la personalità di Bordiga ed ha offerto una larga messe all’opera dei soliti epigoni con i quali lo stesso B. non è mai stato fortunato. Vi si afferma che:

 

non possa parlarsi di una classe dotata di movimento storico, ove non esista il partito che di quel movimento si ponga al­l’avanguardia nell’azione…
Il partito è l’organo indi­spensabile di tutta l’azione della classe; ed anzi logi­camente non si può parlare di vera azione di classe (che cioè sorpassi i limiti degli interessi di categoria o dei problemucci contingenti) ove non si sia in presenza di una azione di partito.

 

È proprio questo modo di espri­mersi alquanto impreciso e volutamente ermetico che lascia adito a più interpretazioni; si traccia in tal modo l’inizio di una strada che altri possono percorrere ad arbitrio nell’illusione di concludere il discorso non im­porta se tale conclusione è in contrasto con la stessa premessa come è avvenuto con la “dittatura del prole­tariato”, sbocco storico inevitabile, divenuto, con un frego di penna, “dittatura del partito”.

 

La cautela espressiva è comprensibile quando si pensa che si era negli anni subito dopo Livorno e il partito era diretto e amministrato dalla “sinistra” e Bordiga ne esprimeva al massimo il grado di influenza e di responsabilità.

 

Bisognerà attendere la redazione del corpo di tesi del ‘51, con un Bordiga slegato da ogni disciplina che la milizia rivoluzionaria impone, per vedere più accen­tuata la tendenza ad attenuare il nesso tra il partito e la classe, ponendo l’accento più sul ruolo del partito e meno su quello della classe.

 

Il partito — vi si afferma — come avrà diretto da solo ed in modo autonomo la lotta della classe sfruttata per abbattere lo Stato capitalistico, così da solo ed in modo autonomo dirige lo Stato del proletariato rivoluzionario.

 

Che cos’è questa se non chiara indicazione a negare validità alla dittatura del proletariato, in quanto ditta­tura di classe, che il partito esercita e a dare il via li­bera alla teorizzazione della “dittatura del partito”, che non può sostituire la classe nel suo compito di antago­nista storico del capitalismo?

 

La classe è storicamente intesa non solo se ha chiara coscienza del fine rivoluzionario a cui è chiamata, ma lo è anche in tutta la fase precedente in cui, proprio in virtù dell’opera di critica e di convincimento del suo partito, acquista con lenta e faticosa gradualità tale co­scienza che da corporativa e di semplice rivendicazio­nismo diviene unitaria e matura alla comprensione ideo­logica, politica e organizzativa del suo ruolo di classe rivoluzionaria.

 

Bisogna risalire al timido accenno fatto con una di­sputa sul centralismo organico come formulazione che Bordiga riteneva più consona alla interpretazione del centralismo democratico di Lenin e dei partiti della Terza Internazionale, per capire questo tendere a rap­porti di autorità e al limite di gerarchie che finirebbero per riproporre il peggiore stalinismo.

 

Nella concezione leninista la dittatura del proletariato significava presenza e continuità di un contenuto di classe basato sui rapporti di democrazia nel quadro del­la più rigida centralizzazione propria della dittatura, da qui il rapporto dialettico tra democrazia e dittatura. Il deperimento dello Stato e della dittatura di classe aprirà la fase dell’esercizio della più larga e più com­pleta democrazia proletaria in cui concretamente si esprime e si esalta una società socialista.

 

Tale tendenza alla totale socialità della classe che si articola nella fase transitoria nel grembo stesso della dittatura è quanto di avvenire, di vivo e di operante si genera dal processo di deperimento di ogni struttura di autorità, di coazione e di esercizio della forza e non trova posto in una dittatura di partito nella quale si spezza di fatto il rapporto dialettico nella misura in cui ogni decisione viene unilateralmente e unicamente dal­l’alto e la disciplina rivoluzionaria viene amministrata anche nella fase pre-rivoluzionaria, ad esempio, da Com­missari Unici solo per viscerale amore dell’antidemo­crazia. Esempio tipico il modo angusto e casermesco di considerare con criterio di ambizione il contributo di elaborazione teorica che mira ad approfondire la cono­scenza critica di particolari fenomeni che si originano dalla esperienza del dominio imperialista come espres­sione del capitalismo in fase di avanzata putrefazione, che si avvalga degli strumenti di indagine propri del marxismo. Rileggiamo il paragrafo 7, Parte IV, dei “Punti Base” (1951) dovuti alla penna di Bordiga:

 

Nessun movimento può trionfare nella storia senza la continuità teorica, che è l’esperienza delle lotte pas­sate. Ne consegue che il partito vieta la libertà perso­nale di elaborazione e di elucubrazione di nuovi schemi e spiegazioni del mondo sociale contemporaneo: vieta la libertà individuale di analisi, di critica e di prospet­tiva anche per il più preparato intellettuale degli ade­renti e difende la saldezza di una teoria che non è ef­fetto di cieca fede, ma è il contenuto della scienza di classe proletaria, costruito con materiale di secoli, non dal pensiero di uomini, ma dalla forza di fatti materiali, riflessi nella coscienza storica di una classe rivoluzio­naria e cristallizzati nel partito.

 

È evidente la discriminazione tra i pochi toccati dal­la provvidenziale luce divina cui è dato di poter elabo­rare in sede teorica e i molti non favoriti dalla stessa provvidenza cui è negata la libertà di ripercorrere cri­ticamente il corso degli avvenimenti guidati dalla bus­sola della metodologia marxista.

 

Bisognerà vedere da vicino gli effetti prodotti da una simile “forma mentis” che di marxismo ha solo la vernice esteriore ma sotto cui ristagna una incapacità a seguire nella sua dinamica complessità di flusso delle alterne e a volte contraddittorie vicende della classe ope­raia nella lenta formazione d’una coscienza di sé che spezzi i lacci che la lega agli interessi più immediati e contingenti della vita d’ogni giorno.


Gli “assoluti” del neo-idealismo



L’analisi critica a cui abbiamo sottoposto l’invarianza bordighiana (Prometeo n. 21-22) in relazione a certe formulazioni sulla natura, funzione e struttura del par­tito rivoluzionario non è stata originata da una punti­gliosa ragione polemica, ma dalla preoccupazione di portare chiarezza su di un problema, come quello del partito, che è tuttora aperto al dibattito e all’approfon­dimento teorico specie per l’intervento in tale dibattito di troppe scuole e scuolette che si sono rifatte al note­vole, anche se a volte contradditorio, contributo por­tato da Bordiga su questo argomento; tuttavia la vivi­sezione che se ne è fatta ha finito per contorcere e sfigurare quanto in Bordiga era soltanto semplice in­tuizione o gusto del paradossale. A questo proposito va ricordato che Bordiga soleva dire, rispondendo ad una nostra osservazione critica su tale modo di porre i pro­blemi, che finiva per snaturare il metodo della interpre­tazione marxista, che anche il paradosso può contenere in sé un elemento, anche se piccolo, anche se velato, di verità. E non aveva torto ma tale “sfizio” intellettua­listico poteva offrire il pretesto, come l’ha offerto, o, meglio, la copertura ad elucubratori di teorie e a cer­catori di uncini a cui appendere le proprie insoddisfa­zioni e, a volte, il proprio opportunismo.

 

La domanda che ci poniamo è questa: può addebi­tarsi e fino a che punto a Bordiga la responsabilità di aver offerto ai compagni di partito e ad avversari, co­scientemente o non, con atteggiamenti personali, di cui Bordiga amava dire d’infischiarsi allegramente e con scanzonate e sconcertanti prese di posizione, che sapeva esprimere con drastica brutalità da rendere superflua ogni spiegazione, abbondanti e forse troppi motivi di critica che il più delle volte andavano oltre la per­sona di Bordiga e miravano a colpire soprattutto la “sinistra italiana” che nel movimento comunista inter­nazionale aveva una collocazione di sinistra assai pre­cisa, ricca di fermenti e di avvenire?

 

Non è la prima volta che ci capita di denunciare uno dei metodi più abbietti usati dalla burocrazia dell’Inter­nazionale comunista, a cui si sono subito adeguati gli organi centrali bolscevizzati dei singoli partiti contro l’opposizione di sinistra, che consisteva nel combattere la corrente attaccando sul piano personale questo o quell’esponente, come è avvenuto nei riguardi di Bor­diga e contro cui ci siamo battuti come corrente già nel “Comitato d’Intesa” (1925).

 

Questo tipo di lotta portato alla persona e non al complesso delle forze che si battono sul terreno di classe, del tutto antimarxista, se agli inizi ha dato mo­tivo e consistenza alla nostra ribellione, oggi è ancora più riprovevole e va respinta con disprezzo.

 

A Bordiga, come del resto ad ognuno di noi, possono certo imputarsi errori, indecisioni e rigidismi del tutto personali che possono averlo messo al di fuori e contro la stessa corrente che a Bordiga deve il maggior apporto di dottrina e di sviluppo su scala internazionale, ma è affare della corrente della sinistra comunista giudicare fmo a che punto Bordiga è da ritenersi responsabile di ciò che era connaturale al suo temperamento; quanto della sua problematica è entrato a far parte del patri­monio della sinistra comunista e quanto invece non per quel sicuro e inevitabile processo di selezione che scaturisce dal conflitto di classe.

 

Quel che vogliamo riconoscere è che, anche nell’er­rore, Bordiga ha costantemente inteso muoversi sul piano della classe, avendo come prospettiva la fine ca­tastrofica del sistema attraverso la rivoluzione prole­taria.

 

Non riconosciamo altrettanto a coloro che, pure in nome dell’“invarianza” bordighiana e militando persi­no al suo fianco, hanno preteso completare la sua opera servendosi di certe inevitabili incompiutezze teo­riche per arrivare fino all’antimarxismo.

 

Ciò non è nuovo nella lunga storia del movimento operaio. Ma l’episodio, per essere del nostro tempo, an­che se del tutto marginale, deve essere esaminato. Si tratta della corrente che per vezzo intellettualistico si è etichettata per “invariance” finita, di fatto, nel suo opposto. Non ci interessa come e quando tale corrente cresciuta e curata amorevolmente nel seno di “Pro­gramma” e uscitane poi per prese di posizione più bordighiste di Bordiga incomincia a precisare la sua posizione partendo dal presupposto che l’opera di Bordiga “è disseminata di punti di partenza di nuove ri­cerche che non trovano sviluppo”. È soltanto da chiedersi, meravigliati, come mai sia stato possibile, ad una organizzazione che pure si richiama alla sinistra italiana e che negli anni 1960 poteva farsi forte della presenza di Bordiga, far crescere nelle proprie file elementi e grup­pi che in nome di una mal digerita umanistica di Marx al posto della dialettica materialistica e della rivoluzione di classe, ponevano una “rivoluzione comunista che tenderà ad affermare l’Essere umano che è la vera Ge­meinivesen dell’uomo”.

 

La Gemeinwesen (comunità) è motivo conduttore nell’opera giovanile di Marx perché essa rappresentava il punto d’approdo della vicenda dell’essere umano col superamento della sua individualità. Precisiamolo ulte­riormente con le stesse parole di Marx:

 

Lo scambio dell’attività umana nella produzione come quello dei prodotti umani tra loro è = all’attività e al godimento sociali. L’essere umano essendo la vera Gemeinwesen degli uomini, questi creano, producono con la loro attività il loro Essere, la Gemeinwesen uma­na, l’essere sociale che non è una potenza astrattamente generale di fronte all’individuo particolare, ma l’essere di ogni individuo, la sua propria attività, la sua propria vita, il suo godimento proprio e la sua propria ric­chezza. Essa appare per mezzo del bisogno degli indi­vidui, cioè essa è direttamente prodotta dall’attività della loro esistenza. Non dipende dall’uomo che questa Gemeinwesen esista o non, ma per tutto il tempo in cui l’uomo non si riconosce come uomo e dunque non avrà organizzato il mondo umanamente, questa Gemein­wesen apparirà sotto la forma dell’estraneizzazione. (Entfremdung).

 

Dalle note di Marx all’opera di J. Mill

 

Ugualmente nei manoscritti del 1844:

 

Bisogna soprattutto evitare di fissare nuovamente la “società” come un’astrazione di fronte all’individuo. L’individuo è l’essere sociale. La sua manifestazione di vita — anche se non appare sotto la forma immediata di una manifestazione comunitaria della vita, compiuta con altri e contemporaneamente con altri — è quindi una manifestazione e un’affermazione della vita sociale. La vita individuale e la vita di specie dell’uomo non sono distinte, per quanto — e questo necessariamente — il modo di esistenza della vita individuale sia un modo più particolare o più generale della vita della specie, o che la vita della specie sia una vita individuale più particolare più generale.

 

Si tratta di un condensato (sono, infatti, note di Marx in cui è evidente un concatenarsi di argomenta­zioni tendenti alla generalizzazione, in una forma espo­sitiva che ricordano il metodo hegeliano dal quale Marx non si era ancora del tutto liberato. Tutto ciò è noto. Ma rifarsi oggi al marxismo dei manoscritti (1844) fin­gendo di ignorare il marxismo scientifico del “Capitale” e del “Materialismo storico” significa avvalersi degli scritti della fase ancora formativa del giovane Marx co­me copertura al t’aro del proprio idealismo.

 

La visione di un generico e metafisicizzato ritorno dell’individuale all’universale, cioè alla sua originaria e indifferenziata “comunità”, la ripristinata Gemeinwe­sen è più conforme alla dialettica idealistica dello sche­ma hegeliano che alla dialettica materialistica di Marx.

 

Ne abbiamo una chiara manifestazione esaminando come è stato elaborato il problema del partito rivolu­zionario e quale ne è stata la traduzione in termini pratici ciò che del resto è al centro della nostra trat­tazione.

 

Ecco una delle ultime definizioni del partito scritta da Bordiga e che ha trovato largo riecheggiamento nelle pubblicazioni di questa corrente; questi i termini:

 

Se la persona è in pericolo, in effetti essa non è che un vaneggiare millenario degli uomini nelle ombre che li dividono dalla loro storia di specie, la via che lo combatte sta solo nella unitarietà qualitativa universale del partito, in cui si attua la concentrazione rivoluzio­naria, oltre i limiti della località, della nazionalità, della categoria di lavoro, della azienda-ergastolo di salariati; in cui vive anticipata la società futura senza classi e senza scambio.
Il partito che noi siamo sicuri di veder risorgere in un luminoso avvenire sarà costituito da una vigo­rosa minoranza di proletari e di rivoluzionari anonimi, che potranno avere differenti funzioni come gli organi di uno stesso essere vivente, ma tutti saranno legati, al centro o alla base, alla norma a tutti sovrastante ed in­flessibile di rispetto alla teoria; di continuità e rigore nella organizzazione; di un metodo preciso di azione strategica la cui rosa di eventualità ammesse va, nei suoi veti da tutti inviolabili, tratta dalla terribile lezione storica delle devastazioni dell’opportunismo.
In un simile partito finalmente impersonale nes­suno potrà abusare del potere, proprio per la sua ca­ratteristica non imitabile, che lo distingue nel filo inin­terrotto che ha l’origine nel 1848.
Tale caratteristica è quella della nessuna esitazione del partito e dei suoi aderenti nella affermazione che è sua funzione esclusiva la conquista del potere poli­tico e il suo maneggio centrale, senza mai nascondere in nessun momento questo scopo, e fino a quando tutti i partiti del Capitale, e del suo servidorame piccolo borghese, non saranno stati sterminati.

 

Da “Il programma comunista” n. 22 — 1958

 

Non crediamo che ci sia bisogno di notare il carat­tere universalistico e misticizzante, il cosiddetto partito storico che non è mai esistito se non nei sogni dei poeti e nelle aspirazioni utopiche del socialismo umanitario del premarxismo e che non esisterà mai nei termini almeno che Bordiga ha soltanto auspicato, lui che come noi e a volte più di noi, ha sentito accanto all’ansia inappagata della conquista la fatica del creare giorno dopo giorno, mattone su mattone, le prime strutture del partito che il giorno appresso la reazione avrebbe dissolto e di dover quindi, ricominciare con altri mezzi ed altri apporti umani non sempre conformi alle neces­sità, non sempre pieghevoli alla dura disciplina che l’atto della creazione del partito imponeva. Quanta fa­tica e quante disillusioni sofferte non escluso il morso avvelenato del compagno che era tale solo di nome, pronto alla resa e non di rado al tradimento. Questo è il partito che abbiamo conosciuto noi, il partito reale da Livorno alle leggi eccezionali fatto sì da eroi ma anche da opportunisti, intriso di sacrifici, di galera, di sangue ma anche di corruttela. Non c’era tempo e modo allora di favoleggiare intorno al partito storico perfetto che i rivoluzionari hanno sempre preferito lasciare agli inetti per costituzione e ai filosofi acchiappanuvole.

 

L’idea del partito universale, perfetto in ogni parte delle sue strutture e funzionalità era stata adombrata da Bordiga come una esigenza del suo spirito geome­trico e per placare forse con una astrazione di perfe­zione ideale l’ansia inappagata d’una tormentata vita di rivoluzionario. In pratica questa idea del partito ideale doveva indicare un modello a cui tendere e a cui ispi­rare la lenta e faticosa costruzione d’un organismo, il partito rivoluzionario, fatto di uomini con le moltepli­cità delle istanze, e con le tare e i limiti che gli sono propri.

 

Ma ce n’era abbastanza in questo tendere all’astrat­to per offrire addentellati ai cercatori di squisitezze teoriche tipo “invariance”.

 

E questa tendenza, nata e cresciuta nel grembo del bordighismo ultima maniera, parte in quarta verso le ignorate mete del partito, modello ideale, prefigurazione della società futura; scrive: “Il partito rappresenta dunque la società futura. Non lo si può definire con regole burocratiche ma col suo essere; e il suo essere è il suo programma: prefigurazione della società co­munista della specie umana liberata e cosciente.

 

Corollario: la rivoluzione non è un problema di for­me di organizzazione. Essa dipende dal programma. Senonchè è stato provato che la forma partito è la più atta a rappresentare il programma, a difenderlo. E qui le regole di organizzazione non sono prese a prestito dalla società borghese, ma derivano dalla visione della società futura”.

 

Ne deriva una caratteristica importante del partito. Essendo la prefigurazione dell’Uomo e della società co­munista, esso è la base mediatrice di ogni conoscenza per il proletariato, cioè per l’uomo che rifiuta la Ge­meinwesen borghese e accetta quella del proletariato, lotta per imporla e, quindi, per imporre l’essere umano. La conoscenza del partito integra quella di tutti i secoli passati (religione, arte, filosofia).

 

E per chiusa a questa fase trionfalistica ed esaltante del partito che, si afferma, non scompare mai, ripor­tiamo, sempre da “invariance” la parte conclusiva di una lettera di Marx a Freiligrath: “Ho cercato di eli­minare il malinteso che mi farebbe intendere per “par­tito” una lega morta da anni o una redazione di gior­nale sciolta da dodici anni. Io intendo il termine “Par­tito” nella sua larga accezione storica”… cioè (spiega di seguito “invariance” con quella acutezza e conse­guenzialità che a Marx erano mancate) come prefigura­zione della società futura, dell’Uomo futuro, dell’Essere. umano che è la vera Gemeinwesen dell’uomo.

 

In questa noiosa e petulante ripetizione d’una frase è incentrata tutta la filosofia con la quale “invariance” vorrebbe esaltare la funzione storica del partito. E come conclusione afferma: “Ciò che si manifesta, nei periodi di rivoluzione come di rinculo, è la continuità del no­stro Essere, l’affermazione del nostro Programma: il Partito “nella sua larga accezione storica”.

 

Povera “accezione storica” marxista finita nella tra­ma d’una filosofia vecchia quanto l’opportunismo e il cui pregio maggiore sta tutto nell’uso, meglio nell’abuso delle lettere maiuscole.

 

Siamo giunti così alla seconda ed ultima fase che porta la corrente in esame su posizioni del tutto op­poste alle precedenti, presa da una specie di frenesia della propria dissoluzione.

 

Caso di patologia politica o incapacità di dare senso di concretezza ad una arruffata problematica di idee madri come classe, partito, rapporto dialettico con la classe antagonista, ecc., tesa paradossalmente fino al li­mite di rottura oppure residui di frustrazioni ideologico-politiche che hanno colpito particolarmente le giovani generazioni di intellettuali di sinistra tendenzialmente marxiste uscite dagli avvenimenti parigini del mag­gio 1968?

 

Forse un po’ di tutto insieme, e constatarlo lascia un senso di amarezza e di rincrescimento perché lace­razioni del genere lasciano traumi profondi ed anche perché, in definitiva, il disperdersi di giovani forze in­tellettuali e umane indebolisce in ogni caso il fronte del­la rivoluzione.

 

Portata dunque a termine l’esperienza filo bordi­ghista, diciamo pure assai malamente, la corrente non sa trarre le dovute conseguenze ed è sommersa da accadimenti assai più grandi della sua serietà e robustezza teorica e della sua insignificanza politica.

 

La metamorfosi non ha avuto che lo spazio tempo­rale di neppure un decennio; già alla rivolta contesta­trice del maggio ‘68, “invariance” vi partecipa relegato ai margini e in ordine sparso, per trarre da questi av­venimenti i motivi più che di un suo rafforzamento, quello della sua autoliquidazione in quanto raggruppa­mento dello schieramento rivoluzionario richiamantesi al marxismo.


Non si costruisce il partito giocando al paradosso



Due parole di chiarimento sulla piattaforma teorico-politica redatta da alcuni compagni francesi che si sono raccolti attorno alla iniziativa di “Parti De Classe” [1].

 

Sulla linea della continuità storica della “sinistra italiana”, la costituzione in Italia del Partito Comunista Internazionalista, rappresentava la conclusione logica e conseguente della frazione che nella fase terminale del­la II guerra mondiale non poteva ricostruirsi come tale per i compiti nuovi e più complessi ch’essa era chiamata a risolvere.

 

Il diagramma della continuità esprime la frazione come il momento di passaggio dalla esperienza partitica della “sinistra italiana”: il partito di Imola e di Li­vorno con il suo ultimo atto di riconferma storica che passa attraverso il “Comitato d’Intesa” e la sua rico­struzione (1943) come Partito Comunista Internaziona­lista che costituisce tuttora la sola premessa teorico-organizzativa per ogni possibilità obiettiva di ricostru­zione del partito rivoluzionario del proletariato inter­nazionale.

 

La costruzione del partito nei suoi quadri tradizio­nali è stata possibile nella fase storica del crollo del fascismo avvenuto nel quadro di un più vasto crollo, quello di un settore economico-politico e militare della II Guerra Mondiale nel quale l’Italia fascista era inse­rita come uno dei pilastri più importanti, la stessa ope­razione non sarebbe stata possibile nella fase della fra­zione se non per effetto di uno scivolamento idealistico e spontaneista non esistendo, neppure in minima parte, le condizioni obiettive e subiettive necessarie per dar vita alla sua trasformazione in partito. Storicamente la “sinistra italiana” non era né poteva essere o imper­sonare una ipotetica “sinistra belga” o “franco-belga”.

 

Non bisogna arrampicarsi sugli specchi di un di­scorso costruito “more geometrico” e di logica for­male per intraprendere un esame degli accadimenti che hanno portato alla formazione del P.C. Interna­zionalista. Avviene che partendo da un presupposto teo­rico errato, o almeno non conforme alla metodologia marxista si perviene non ad una critica costruttiva che, in quanto tale, è sempre feconda, ma al suo contrario ad un piano inclinato della degenerazione.

 

Puntualizziamo i termini reali del problema.

 

La “sinistra italiana”, pur negli alti e bassi della sua esperienza, non ha mai teorizzato che il partito sorge ed opera solo nella fase rivoluzionaria e si dis­solve e si riduce a compiti di frazione nella fase con­trorivoluzionaria; forse che il Partito Comunista d’Ita­lia non è sorto a Livorno sotto la spinta ideologica e politica della “sinistra italiana” nella fase montante della controrivoluzione?

 

Tipica a questo riguardo è la esperienza vissuta dai comunisti italiani nel periodo fascista con il passaggio alla clandestinità del partito nella quale fu risolto non solo il problema della continuità e del contatto con le masse, ma quello soprattutto della formazione di nuovi quadri che avrebbero, sì, rafforzato l’organizzazione stalinista ma proporzionalmente avrebbero servito ad allargare la zona d’influenza della “sinistra italiana”. (Si tenga presente a questo proposito che l’espulsione dal partito di Damen, Fortichiari e Repossi avvenuto nel 1933 fu motivato dal fatto che questi compagni ope­ravano alla ricostruzione della frazione di sinistra).

 

Ma l’argomento più specioso, che risulta da un at­tento esame del documento, è quello del rapporto tra partito e classe. Quando si postula “La ricostruzione del proletariato in classe, cioè in partito politico clas­sista” si è nel pieno dell’interpretazione marxista se si vuole affermare che non vi è classe rivoluzionaria se manca il partito rivoluzionario uscito dal seno della classe stessa; ma il postulato si ridurrebbe a barzelletta se si affermasse l’inutilità del partito se la classe è temporaneamente prigioniera dell’opportunismo e delle forze della controrivoluzione.

 

Questo tipo di identità tra partito e classe è al di fuori di ogni rapporto dialettico, è concepito mecca­nicisticamente ed ha la serietà e la consistenza d’una esercitazione intellettualistica.

 

La classe, nel suo complesso, nel suo operare quoti­diano e nella lunga storia delle sue lotte non è mai andata oltre il limite corporativo, oltre lo stimolo ri­vendicativo; la coscienza tradunionista della classe operaia non è mai divenuta coscienza del fine storico in quanto classe rivoluzionaria; battaglie, rivolte, insur­rezioni che punteggiano la lunga strada del movimento operaio non si sono mai trasformate, per virtù propria, in altrettanti momenti dell’assalto rivoluzionario di tutto il proletariato contro tutto il capitalismo.

 

Da qui la funzione storica, permanente, del partito rivoluzionario di classe, a cui è demandato il compito della elaborazione della teoria, di preparazione dei qua­dri, di laboratorio scientifico della classe, di sprone e di guida per il raggiungimento degli obiettivi storici che vedranno la costituzione del proletariato in classe do­minante.

 

Assegnare questo compito di autosufficienza alla classe in una fase prerivoluzionaria, come legare la co­struzione del partito alla fase dell’assalto al potere in cui la presa di coscienza delle masse è ancora e soprat­tutto istintiva, anche se la sua violenza spezza le strut­ture dell’avversario di classe, significa pensare in ter­mini di metafisica e non secondo una metodologia rivo­luzionaria marxista che all’assalto ha sostituito il con­creto, all’ideologismo il dato scientifico desunto dalla realtà economico-sociale.

 

E veniamo agli appunti critici sulla formazione del Part. Com. Internazionalista formulati dai compagni di “Parti De Classe” che tuttavia si richiamano a questa nostra esperienza (che vorrebbero però debitamente corretta) come momento da cui trarre indicazioni e prospettive in vista della costruzione nel loro paese del Partito Comunista Internazionalista.

 

Scrivono:

 

Al di fuori e contro l’erroneo e volonta­rista tentativo trotskista di costruzione di una nuova Internazionale “sorta dalla più grave disfatta”, la Si­nistra mostrò che il dovere dei rivoluzionari non era di tentare dei compiti pratici d’ampiezza (rispondenti ad epoche rivoluzionarie) ma di mantenere il filo d’una continuità non tanto organizzativa (nel senso più stretto del termine) quanto teorica.
Ma l’attivismo, attitudine allora suriettivamente falsa in una situazione obiettivamente sfavorevole, si immaginò che il corso della situazione potesse essere infranto non da fattori economici obiettivi (la fine del periodo di ricostruzione capitalista) ma da una attività febbrile il cui carattere di esempio ecciterebbe all’avvio di un nuovo processo rivoluzionario. È in questa inten­zione (ad onta di qualche reticenza) che fu proclamato in piena orgia democratica (intervento degli Stati Uniti, Comitato Italiano di Liberazione Nazionale anti-fascista) e completa inesistenza del proletariato come classe ri­voluzionaria, nel 1943, il Partito Comunista Internazio­nalista d’Italia, artificio organizzativo di cui si può dire che la pratica fu sempre inversamente proporzionale allo sforzo teorico.
All’inizio si ebbe questa illusione che il partito rivo­luzionario non poteva non essere al rendez-vous dell’im­mediato dopo-guerra nella considerazione che lo schema “guerra-rivoluzione” da cui era uscita la vittoriosa Ri­voluzione dell’ottobre 1917 non mancherebbe, una volta ancora, di riprodursi nelle sue linee essenziali per l’Ita­lia fascita militarmente battuta, economicamente rovi­nata. Lo schema dato per scontato in vista del quale fu proclamata l’organizzazione — perché non poteva trat­tarsi di costruirla progressivamente: essa doveva essere immediatamente presente e disponibile — non solo non si riprodusse ma si ebbe esattamente l’inverso.
Il “partito” del 1943, sorse non dalla profonda con­traddizione del capitale, ma dagli increspamenti di su­perficie della sua riaccumulazione del periodo di rico­struzione, vide progressivamente diminuire il numero dei suoi militanti, perdendo così, dal 1948, ogni giustifi­cazione marxista alla sua esistenza immediata.

 

Il nostro attivismo?

 

Si tratta d’un discorso, come è facile vedere, estre­mamente contradditorio, in cui è evidente che l’ade­sione e la conseguente estremizzazione formale ad al­cune posizioni tipiche della “sinistra italiana”, possono sembrare di comodo e servire di copertura ad un sotta­ciuto sottofondo critico al leninismo che di fatto è stato e continuerà ad essere anche il leninismo della “sinistra italiana” che negli anni più fecondi e conse­guenti della sua attività, è stato totale.

 

Del resto anche la vexata (non troppo per la verità) quaestio dell’elezionismo e del parlamentarismo rivolu­zionario era stata prudentemente messa a bagnomaria ridotta, cioè, a momento tattico e sarà poi compito di alcuni epigoni, acquisiti posteriormente dalla sinistra, a rimettere la questione sul primo piano, quello della immutabilità teorica dell’astensionismo. Ma anche que­ste posizioni hanno, nel caso specifico, vita breve e non è una stranezza che la vantata “invarianza” si riduca in definitiva in un coacervo di variazioni più o meno funamboliche che ridicolizzano quanto di più serio è nel patrimonio della “sinistra italiana”.

 

Per noi la Rivoluzione d’Ottobre è un dato di fatto inoppugnabile che presuppone un partito bolscevico che è quanto dire il partito di Lenin come precedente storico e modello ideale a cui riferirci; tutto il resto offertoci dalla posteriore cultura revisionista e obiettivamente antileninista, nasce dalla psicologia della sconfitta della rivoluzione ed è prevalentemente un sottoprodotto sen­timentale di avversione allo stalinismo.

 

Abbiamo detto modello ideale il partito di Lenin, il solo valido nella storia del proletariato rivoluzionario, i cui connotati sono:

  1. permanenza e continuità del partito senza la cui opera di propedeutica rivoluzionaria e di stimolo, il proletariato non potrà liberarsi dalle remore e dai li­miti che una coscienza tradunionista e tendenzialmente corporativa porta per sua natura con sé;
  2. è necessario ripercorrere criticamente le posizioni assunte dalla “sinistra italiana” già nel cuore della pri­ma guerra mondiale per rintracciare il filo rosso della sua continuità le cui tappe maggiormente significative sono quelle del Congresso di Bologna (1920), del Con­gresso di Livorno (1921), alla gestione del P.C. d’Italia fino alla defenestrazione della direzione di sinistra (1923), del Comitato d’Intesa alla vigilia del Congresso di Lione (1925-1926).

La frazione che aveva raccolto i quadri tradizionali e più efficienti della sinistra che ave­vano già costituito la spina dorsale del P.C. d’Italia e che si erano poi raggruppati attorno al “Comitato d’In­tesa” per difendere come corrente di maggioranza la sua linea politica alla direzione del partito e per soste­nere in vista del Congresso di Lione, la sua piattaforma di opposizione al nuovo corso imposto dall’Internazio­nale, era già il partito in potenza.

 

Nel 1943 nella fase convulsa e conclusiva della se­conda guerra mondiale con in prospettiva il crollo di un settore essenziale del fronte della guerra e con esso lo sfacelo economico e politico già in atto del fascismo e l’inevitabile deterioramento della struttura dello Stato, compito elementare ed immediato dei comunisti era quello di lavorarci dentro e creare gli strumenti più idonei a questo compito per determinare situazioni fa­vorevoli ad una soluzione rivoluzionaria della crisi. Lenin aveva operato in questo senso con esito favore­vole ma avrebbe operato allo stesso modo anche se l’esito fosse stato non conforme alle aspettative imme­diate del partito. Nessuno di coloro che allora hanno creduto nella necessità della organizzazione del partito si era prefissa la ripetizione meccanica dello schema di un succedersi di accadimenti simili a quelli vissuti da Lenin prima dell’Ottobre bolscevico.

 

Le posizioni espresse dal compagno Perrone al con­vegno di Torino (1946), ribadite poi dallo stesso, al I Congresso di Firenze (1948), erano libere manifesta­zioni di una esperienza del tutto personale e con pro­spettive fantapolitiche a cui non è lecito riferirsi per dare crisma di validità ad una formulazione di critica alla formazione del P.C. Internazionalista. Come è del tutto arbitraria e lontana da ogni seria indagine mar­xista attribuire il posteriore calo quantitativo del par­tito a cause obiettive e ad errori di prospettiva e non si ha il coraggio di affondare la propria analisi nel pro­cesso di disgregazione interna operata a difesa di inte­ressi personali di chi non era disposto ad una milizia attiva e dissentiva sull’analisi della natura dell’economia sovietica e sul ruolo del P.C. Internazionalista.

 

Questo è il clima nel quale abbiamo inserito l’inizia­tiva della costruzione del partito di classe e il riferimento a Lenin e al partito bolscevico costituiva e co­stituisce tuttora il solo riferimento storicamente possi­bile e valido; una valutazione diversa sarebbe stata im­possibile per la ripugnanza comune a tutti noi di non legare la nostra opera ad una ipotesi posta al di fuori di ogni esigenza della lotta operaia perdentesi nelle nuvole di qualche paradosso teorico come quello, ad esempio, che considera il partito e la sua legittimazione storica di esistenza meccanicamente legata alla contem­poranea ricostruzione del proletariato in classe. Da qui il tentativo del tutto idealistico di identificare partito e classe come quando si pone tra gli obiettivi “la ri­costruzione del proletariato in classe, cioè in partito po­litico classista…”. Sofisma intellettualistico che brilla per la sua geometricità, ma del tutto campato in aria se riferito alla vicenda della lotta operaia e al ruolo storico e permanente del partito saldato alle alterne vicende di queste lotte. Sotto questo profilo non è meno falsa la distinzione bordighista tra “partito storico” e “partito formale” perché non si è mai dato il caso di un partito portatore di un corpo di tesi e di dottrina, di un programma e di una capacità di elaborazione della teoria rivoluzionaria che viva nella stratosfera e non attinga giorno per giorno, nel cuore della lotta operaia, i motivi di tale elaborazione teorica e la conferma co­stante della sua validità.

 

Il problema fondamentale e il più difficile da risol­versi per una minoranza rivoluzionaria è quello della sua presenza e di operare su una piattaforma politica per tutto un arco storico, quello del capitalismo quali che siano le condizioni obiettive, non escluse quelle della guerra e della controrivoluzione ancora in atto, per aiutare la classe operaia a elevarsi da una coscienza degli interessi immediati e contingenti ad una coscienza del proprio essere di classe storica, antagonista al ca­pitalismo.

 

Il problema della continuità del partito non è una invenzione nostra ma è posizione caratteristica della “sinistra italiana”. A prescindere da quanto Bordiga ha notoriamente scritto su questo argomento, riteniamo utile riportare un passo significativo di una dichiara­zione redatta dalla “Commissione Esecutiva della fra­zione di sinistra del P.C.I., agosto 1933”:

 

Il fascismo, vittorioso in Germania, ha significato che gli avveni­menti prendevano il cammino opposto a quello della rivoluzione mondiale per prendere la strada che può condurre alla guerra.
Il partito non cessa di esistere anche dopo la morte della Internazionale. Il partito non muore, tradisce. Il partito ricollegandosi direttamente al processo della lotta di classe, è chiamato a continuare la sua azione anche quando l’Internazionale è morta. Così, in caso di guerra, quando l’Internazionale scomparisse dalla scena politica, il partito esiste e chiama il proletariato a prendere le armi, non per la trasformazione della guerra imperialista in guerra civile ma per continuare la sua lotta nel corso stesso della guerra…

 

da “Verso l’Internazionale due e tre quarti?…”, Bilan, anno I, n. 1

 

E questo problema, noi della “sinistra italiana” che portiamo la responsabilità d’aver dato vita al P.C. In­ternazionalista, se non riteniamo d’averlo risolto, abbia­mo tuttavia la coscienza di andarlo risolvendo con per­severanza e tenacia attraverso contatti permanenti di fabbrica, con l’attenzione data ai problemi quotidiani dei lavoratori per la loro traduzione in termini di classe, con la diffusione della stampa di partito che alimenta co­stantemente e su scala nazionale i quadri di militanti e i gruppi di fabbrica che si vanno via via costruendo.

 

Ma non siamo immalinconiti dalla preoccupazione di sapere con precisione matematica dove finisce il com­pito della frazione e come e quando comincia quello del partito.

 

Noi tutto ciò lo abbiamo vissuto, ne siamo stati i protagonisti e siamo paghi d’averlo fatto nel momento che ritenevamo fosse giusto farlo.

 

Nel caso specifico il Partito Comunista Internazionalista ha le sue carte in regola: ha al suo attivo la de­finizione della natura capitalista dell’economia russa; la denuncia aperta fatta nel cuore della II guerra mon­diale del ruolo imperialista della Russia schieratasi tra gli stati belligeranti con la sua partecipazione alla suddi­visione del mondo in zone di influenza economica e po­litica; l’attacco frontale condotto contro lo stalinismo in quanto momento della controrivoluzione mondiale; la lotta contro la guerra e contro il moto partigiano della guerra nazionale antifascista considerandolo, co­me è stato nella realtà, un coefficiente positivo della strategia dell’imperialismo americano e non una insur­rezione armata di popolo contro il capitalismo e la sua guerra imperialista. Sempre al suo attivo è la lotta aperta e senza ripiegamenti tattici, contro la direzione togliat­tiana del P.C.I., edizione italiana dello stalinismo impe­rante sul terreno dello schieramento operaio uscito dal­la guerra fascista e già sulla china d’essere trascinato in una nuova turlupinatura, quella della guerra nazio­nale antifascista, preludio all’agganciamento del prole­tariato alla politica della ricostruzione economica per una ripresa del processo di accumulazione praticamente spezzato dall’esito disastroso della guerra.

 

La borghesia italiana deve soprattutto (per non dire unicamente) alla politica di Togliatti e quindi del suo par­tito, se la liquidazione del fascismo si è limitata ad alcuni aspetti del tutto esteriori e se la vera essenza del fascismo nei suoi gangli essenziali e nelle sue strut­ture portanti siano passate sane e salve nelle mani degli uomini e dei partiti della nuova gestione democristiana e comunista, i due maggiori pilastri della resistenza e quindi i due maggiori profittatori della partitocrazia democratico-repubblicana.

 

Il nostro partito, forte dei migliori quadri forgiati al fuoco del conflitto ideologico e politico di Imola e di Livorno o ereditati dalla frazione; forte dell’adesione di considerevoli gruppi partigiani che avevano capito la vera natura del partigianesimo a cui tutto poteva essere chiesto meno una condotta della lotta armata in senso anticapitalistico prima che fascista; forte soprattutto della adesione di giovani leve impegnate contro la guer­ra imperialista e contro lo stalinismo mistificatore, ha imposto alla direzione togliattiana il ricorso ad una po­litica provocatoria e di ricatto per spezzare e far tacere la sola voce che parlasse allora il linguaggio di classe e ponesse davanti alle masse la sola prospettiva possibile per il proletariato, quella della rivoluzione socialista.

 

Va vista e intesa in questo quadro la partecipazione del partito alla battaglia elettorale del 1948: non mire elettoralistiche e neppure applicazione pedissequa delle tesi sul parlamentarismo rivoluzionario del secondo Congresso della Internazionale. Al fondo delle decisioni “partecipazioniste” era un solo obiettivo: inserimento del partito nel dispositivo elezionistico per consentire all’organizzazione di combattere una grande battaglia politica di chiarificazione; non richiesta di voti ma la possibilità di mostrare alle masse operaie nel modo più ampio possibile il vero volto del partito rivoluzionario che la stampa e la propaganda del partito di Togliatti cercava di insozzare con accuse e insinuazioni che si è sempre ben guardato di provare. L’occasione era quanto mai propizia per affrontare la belva nella sua stessa tana. In realtà mai al partito si era offerta, né prima né dopo, la possibilità di attaccare frontalmente e a viso aperto la malabestia stalinista nelle fabbriche, nei maggiori complessi industriali e sulle piazze con la conseguenza di vedere ogni volta rotto il fronte dello schieramento stalinista e lo schierarsi con gli internazionalisti degli elementi più politicizzati e più inclini ad una indipen­denza critica.

 

Questa tattica può sembrare avventurista solo a chi guarda al partito con gli occhi fissi alla frazione.

 

A questo proposito ecco come si esprimevano i com­pagni della “Sinistra Comunista Internazionale”:

 

La partecipazione o meno alle elezioni è condizionata e soggetta al postulato che l’una o l’altra tattica non si giustifica che nella misura in cui, in una situazione data, essa favorisce l’aumento della tensione politica contro il capitalismo.

 

Da Schema di progetto di dichiarazione di principio per l’ufficio internazionale della Sinistra Comunista Internazionale, 1946

 

Dal punto di vista tattico, per la prima volta il par­tito era uscito all’aperto e aveva ingaggiato una batta­glia di classe contro il più saldo e più pericoloso for­tilizio del sistema democratico parlamentare del capi­talismo.

 

Tra la tattica che tende ad uscire all’aperto e la tat­tica opposta di tirare i remi in barca; tra lo sviluppo del partito e la riduzione del partito a frazione si trova il nocciolo della rottura del partito in due tronconi, che, guarda caso, saranno poi di fatto due partiti.

 

E quel che è grave in questo riesame degli avvenimenti è la constatazione che la scissione avveniva in un momento della storia del movimento operaio in cui le condizioni erano favorevoli per un ampliamento e consolidamento del partito rivoluzionario. Lo dimostre­rà poi il fatto della continuità e della crescente influenza avuta ulteriormente dai due partiti, la sola forza poli­tica nell’esperienza italiana che impersoni una tradizione, un metodo, una piattaforma di sinistra rivoluzio­naria di classe cui spetta ora il compito di ritessere pa­zientemente la trama interrotta dell’unità internaziona­lista. Del resto i problemi, le dispute di ordine teorico, organizzativo e di tattica che avevano diviso le due for­mazioni internazionaliste, quali le rivoluzioni nazionali, la natura della economia russa, la natura e il ruolo del sindacato nella fase dell’imperialismo, sono ormai alle spalle nel senso che un ventennio di esperienze ha riso­spinto i dissenzienti del 1952 alle posizioni originarie della “sinistra italiana”.

 

Sindacato e insegnamento leninista

 

E siamo alla questione sindacale, il punctum dolens, delle minoranze della sinistra rivoluzionaria francese. Il gruppo francese di “Parti de Classe” cui dedichiamo questa nota, parte su questo argomento da una pre­messa critica relativa alla tattica entrista che presup­pone un diverso e opposto modo di vedere sulla natura del sindacato nella fase dell’imperialismo che riteniamo giusta e coincidente con la posizione sempre sostenuta dal nostro partito, ma conclude con delle indicazioni di tattica sindacale che ci lasciano sorpresi e fortemente perplessi.

 

Anche in questo gruppo è viva la tendenza a sottrarsi all’insegnamento leninista del come lavorare da parte dei comunisti nei sindacati integrati al sistema.

 

Ma allontanarsi dalla linea tracciata dall’opera di Lenin è in ogni caso una caduta verticale nel vuoto.

 

Ed è per lo meno sorprendente che un movimento che si richiama alla metodologia marxista e alla lineare tra­dizione della “sinistra italiana” affronti il problema sin­dacale in termini di sicurezza pari al semplicismo della sua formulazione.

 

Tatticamente, scrivono questi compagni, il partito rivoluzionario, in luogo di voler estendere in pura per­dita la sua influenza nei sindacati integrati al sistema capitalista, dovrebbe, al contrario, esercitarla nelle or­ganizzazioni economiche non ufficiali create più o meno spontaneamente dai lavoratori — ed anche suscitarle — e trasformare queste in veicolo delle sue parole d’ordine. Diversamente esso introdurrebbe questa confusione tra gli operai, consistente a lasciar loro credere che i sin­dacati ufficiali sono organizzazioni che gli appartengono o suscettibili di appartenergli, a condizione che una direzione rossa se ne impossessi.
La mobilitazione delle forze proletarie non si farà più nei sindacati ufficiali, ma al di fuori di essi e con­tro di essi.

 

L’argomento polemico che questi compagni condu­cono contro la deformazione della politica sindacale così come è stata intesa e applicata dai compagni di “programma comunista” su cui siamo d’accordo, non ci riguarda perché non riconosciamo a questo raggrup­pamento, in contrasto con quanto credono i compagni di “Parti de Classe”, nessun ruolo di interprete esclu­sivo e di continuità della “sinistra italiana”, a meno che non si voglia considerare personificazione di questa corrente il compagno Bordiga quale lo abbiamo cono­sciuto noi prima e dopo Livorno, prima e dopo la II Guerra Mondiale. In questo caso i compagni di “Parti de Classe” sono invitati a indirizzare la loro indagine critica alla linea politica seguita da quel troncone, il nostro, della sinistra i cui componenti sono stati gli iniziatori e gli animatori della costituzione del “Comi­tato d’Intesa” (1925) che aveva per obiettivo la rimessa in moto della corrente con una piattaforma di difesa e di attacco contro l’opportunismo; gli stessi che si fe­cero continuatori e animatori della frazione contro il suo scioglimento voluto dal compagno Perrone allo scoppio della seconda guerra mondiale; gli stessi che nel 1933 vennero espulsi e denunciati alla polizia fa­scista dai dirigenti del P.C.I. sotto l’accusa della rior­ganizzazione della “sinistra”, gli stessi che daranno vita e sviluppo al Partito Comunista Internazionalista; gli stessi infine che per la difesa non formale della piatta­forma della sinistra e della sua continuità hanno capito di dover rompere anche con chi aveva dato alla “si­nistra” fino al 1926 il meglio della sua attività di teorico e di militante.

 

Per tornare all’argomento “sindacale” la confuta­zione migliore sta nel ricostruire per sommi capi ciò che il partito ha fatto e intende fare in coerenza alla nota posizione della sinistra:

  1. Nella fase dell’imperialismo e della economia pro­grammata per il fatto stesso che ogni programmazione sarebbe impossibile senza il consenso attivo dei sinda­cati, questi sono divenuti di fatto, alla pari con lo Stato e con gli imprenditori privati, gli artefici garanti del successo del piano.
  2. Il sindacato giunto così al vertice del potere eco­nomico-politico dello Stato di cui si sente parte inte­grante e necessaria, farà la sola politica che gli è pos­sibile, quella di saldare, subordinandola, la spinta ri­vendicativa delle masse operaie che inquadra alle esi­genze del piano e della realizzazione del maggiore pro­fitto. A questa sola condizione offerta da un sindacato di­storto dal suo compito storico, la politica di piano sarà resa possibile e con essa il consolidamento e la salvezza del sistema.
  3. Ma una politica di vertice del sindacato è possi­bile se questo possiede con fermezza la disponibilità delle masse sindacate a soggiacere alla sua politica di potere, strategia questa che delimita ed attenua la mi­naccia di intervento delle masse, con la spada di Da-mode dello sciopero articolato reso sempre possibile dalla gamma sempre più vasta e pressante delle riven­dicazioni sia economiche che politiche. Su questa realtà in movimento il sindacato, quale che sia il suo colore politico, trova alimento alla sua esistenza e funzionalità in tutto l’arco storico del ca­pitalismo.
  4. Se il sindacato è integrato al sistema attraverso il suo apparato, non lo è o lo è soltanto indirettamente la massa degli operai che vi è inquadrata che tuttavia non ha mai cessato di lottare contro il capitalismo che la sfrutta anche se tuttora è incapace di andare oltre il limite tradunionista e corporativo della rivendicazione. È fondamentalmente il quadro di sempre tale e quale lo ha conosciuto Marx, tale e quale lo ha conosciuto Lenin, tale e quale lo conosciamo noi, e conseguente­mente il sindacato della III Internazionale non ha detto una parola nuova in confronto al sindacato socialde­mocratico della II Internazionale e in confronto al sin­dacato odierno che delizia la nostra vita sociale e po­litica.
  5. Spontaneamente e autonomamente le masse ope­raie non perverranno alla conoscenza del loro essere di classe antagonista e alla coscienza del fine storico implicito nella lotta che esse conducono contro il capita­lismo, ma sono queste stesse masse di lavoratori che creano con il loro operare le condizioni obiettive di questa conoscenza e di questa coscienza che il partito della classe assomma in sé e rielabora ai fini di una propedeutica rivoluzionaria da far rivivere nel comples­so della classe.
  6. A questo fine la “sinistra italiana” con l’orga­nizzazione e la permanenza dei “gruppi di fabbrica” tende a creare, anche se in mezzo ad enormi difficoltà, centri di formazione e di irradiazione ideologica e po­litica che divengono di fatto altrettanti veicoli per pa­role d’ordine di critica sindacale che rendono risolvi­bile il problema del contatto con le zone operaie so­cialmente e politicamente più sensibili a recepire la propaganda del partito, condizione prima e insostitui­bile d’una politica di reclutamento di sempre nuovi qua­dri operai sul piano della milizia attiva e della lotta rivoluzionaria.
  7. Nuovo sindacato da crearsi al di fuori e contro il sindacato ufficiale? Oppure adesione a nuovi orga­nismi sorti spontaneamente per iniziativa operaia? A prescindere dalla facile constatazione che nuovi sinda­cati non troverebbero spazio adeguato per enuclearsi in una organizzazione di base autosufficiente ed anche se ciò fosse possibile il nuovo sindacato si modellerebbe su quello ufficiale con tutti i vizi e i pochi pregi che sono propri del sindacato tradizionale.

Vorremmo chiedere ai compagni di “Parti de Clas­se” di indicare un solo esempio di sindacato non uffi­ciale su scala internazionale che faccia eccezione alla nostra analisi e possa essere preso a modello dalle or­ganizzazioni rivoluzionarie al di fuori delle esperienze offerteci dalla storia del movimento operaio della Se­conda e Terza Internazionale.

 

Se poi vogliamo riferirci agli organismi sindacali nati più o meno spontaneamente e di cui dovremmo servirci per diffondere la politica sindacale del partito, va detto senza timore di smentita che tali organismi formatisi sull’onda delle agitazioni sindacali dell’autun­no caldo del 1968 ad opera di gruppi extraparlamentari e studenteschi in Italia, in Francia e altrove, sono len­tamente rifluiti e sono in ogni caso destinati a rifluire nell’alveo della conservazione del sistema provocando sulle scarse minoranze che hanno risposto al loro ri­chiamo del tutto velleitario, una più cocente e amara disillusione e il motivo ad un nuovo sbandamento verso i partiti contro cui avevano condotto la loro battaglia sedicente rivoluzionaria.

 

Circa la presenza o meno dei comunisti internazio­nalisti nei sindacati, trascriviamo quanto è affermato dallo stesso “Schema di progetto di dichiarazione di principio per l’ufficio internazionale della Sinistra Co­munista Internazionale” (1946):

 

a) In una situazione storica che non permette di porre il problema della presa del potere, l’organizza­zione di massa non può essere basata che sull’azione rivendicativa: il sindacato. Quando la situazione diviene rivoluzionaria, e si pone il problema della presa del po­tere, è allora che possono apparire i consigli di operai di fabbrica (Soviet) il cui scopo non è di rivendicare dei miglioramenti nella società capitalista ma di esigere la presa del potere nelle fabbriche.
È evidente che se delle rotture storiche non de­termineranno avvenimenti rivoluzionari, il processo di collegamento dei sindacati attuali allo Stato continuerà. Fino a tanto che tale processo non è terminato, non portato cioè a compimento, la nostra posizione è di restare nei sindacati. Se questi verranno statizzati si porrà la questione di dar vita a nuove organizzazioni di massa.

 

Il problema di fondo che comunque scaturisce da questo nostro dibattito è uno, uno soltanto: rompere le paratie di un presupposto teorico viziato da una se­rie di sofismi tra loro legati da una logica formale che ignora l’impegno reale e storico della lotta operaia e rattrappisce, immiserendolo, il ruolo di classe del par­tito rivoluzionario del proletariato.

 

È sofisma l’affermazione della inesistenza della clas­se nel quadro della situazione attuale anche se è, nelle condizioni di classe, temporaneamente sconfitta; è so­fisma la conseguenza che se ne vuol dedurre che vuole, mancando la classe, manchi anche il partito politico le­gato geneticamente alla classe; è sofisma infine l’altra identificazione della dittatura del proletariato con la dit­tatura del partito trasferendo nel dopo rivoluzione l’identità partito-classe della fase precedente la rivolu­zione.

 

Conclusione? Con un proletariato che non è ancora classe, con una organizzazione politica che non è par­tito, con un sindacato ufficiale nel quale gli operai sono considerati come perduti alla lotta di classe e ad ogni tentativo di influenzamento ideologico-politico da parte della minoranza rivoluzionaria, il quadro che ne risulta e le prospettive che su di esso possono essere formu­late indurrebbero alla considerazione malinconica di autoeliminazione dalla scena politica se il marxismo non indicasse come permanentemente presenti nel mo­vimento operaio queste certezze, anche se relative, ma pur sempre certezze.

 

Il proletariato è classe, la sola storicamente antago­nista al capitalismo in tutto l’arco storico della sua esi­stenza che perviene alla coscienza del suo essere di classe rivoluzionaria nella fase dell’attacco al potere ca­pitalista, e condizionato com’è ad un processo di forma­zione e di sviluppo attraverso il travagliato e ininter­rotto corso della insopprimibile lotta di classe.

 

Processo di formazione e di sviluppo reso possibile alla classe dalla presenza operante del partito che dalla classe si articola e in essa riunisce in poderosa sintesi le ragioni ideali della sua crescita di forza rivoluzio­naria.

 

 

 

[1] I compagni, riuniti in Francia attorno alla rivista “Parti de Classe”, inizialmente uscirono con un gruppo di compagni francesi dal P.C.I. che diedero vita alla rivista “Invariance” di cui ci occupiamo in questo libro (pag. 180) e solo in un secondo tempo ruppero anche con “Invariance” per formare gruppo a sé.


 

 

 

 

Amadeo Bordiga fuori dal mito e dalla retorica



Problemi del nostro tempo

 

Il nostro partito, che non ha fatto di Bordiga un feticcio e che, Bordiga vivo, ha apertamente dissentito da alcune sue posizioni di principio ma soprattutto dalle deformazioni che ne hanno fatto non pochi epigoni che si sono serviti del suo nome, è nelle condizioni migliori per parlare di lui, della sua alta statura di militante, della sua opera di organizzatore infaticabile ed anche dei suoi stessi limiti.

 

Per questo, mentre rifiutiamo il tono apologetico del “post mortem” che è stato adoperato e che Bordiga avrebbe respinto con la sua abituale battuta come fesserie, ci proponiamo di mettere in evidenza quanto del suo contributo va considerato e difeso perché entrato di diritto nella elaborazione della teoria rivoluzionaria e quanto, invece, non è da considerarsi sulla linea della continuità storica della sinistra comunista internazionale e particolarmente di quella passata alla storia col nome di “sinistra italiana”.

 

Dobbiamo a Bordiga la teoria dell’astensionismo tattico enunciata in una fase del parlamentarismo più deteriore basato sul clientelismo personale, sulla corruzione e il sottogoverno germogliati nel socialismo meridionale e di aver dato consistenza organizzativa a questa corrente nell’ambito del partito socialista italiano creando con questo il presupposto teorico-pratico alla rigenerazione del pensiero marxista avvilito dalla degenerazione democratica e alla lotta a fondo contro il parlamento, il maggiore baluardo della democrazia parlamentare corrotta e corruttrice insieme.

 

Dobbiamo a Bordiga la ricostruzione del quadro teorico del socialismo scientifico nelle linee fondamentali datane da Marx e da Engels tonificando in tal modo la parte migliore politicamente più sensibile del partito socialista stretta nelle morse di una socialdemocrazia che dirigeva di fatto il partito dai seggi di Montecitorio, che aveva in Kautsky il suo pontefice massimo, che mutuava la rivoluzione con la evoluzione, la dittatura del proletariato con la dittatura del parlamento impersonata in Giolitti.

 

Dobbiamo a Bordiga l’elaborazione teorica del giusto rapporto tra partito e classe da cui dipende la riuscita di una politica rivoluzionaria. Si può affermare, senza tema di peccare di esagerazione e di essere comunque smentiti, che la definizione di tale rapporto che teoricamente e politicamente è un punto fermo della tematica marxista, rappresenta una geniale fusione tra l’esperienza della “sinistra italiana” e quella di Lenin conclusasi vittoriosamente nella rivoluzione d’Ottobre. E va aggiunto che l’elaborato di Bordiga su “partito e classe” non soltanto è servito da punto di riferimento marxista nel periodo del primo dopoguerra ai partiti che andavano formandosi nella scia della rivoluzione d’Ottobre, ma è tuttora un classico e lo sarà per tutta la fase che precede la prossima ondata rivoluzionaria del proletariato. Ignorarlo o tentare di attenuarne i termini, anche se fatto in nome di Bordiga o di un generico e approssimativo bordighismo, sarebbe snaturarne il significato e il ruolo di indirizzo permanente nell’azione del partito rivoluzionario.

 

Bisogna riandare alla piattaforma elaborata al Convegno di Imola e posta alla base della formazione del Partito Comunista d’Italia al Congresso di Livorno per seguire i momenti formativi d’una dinamica del partito di cui Bordiga più e meglio di ogni altro, ha tratto esperienza viva e dati obiettivi e subiettivi per la elaborazione della sua teoria sul partito in rapporto alla classe.

 

Centralismo organico? Centralismo democratico? Noi lo chiameremmo, con maggior coerenza con il Bordiga di allora che per noi vale non come il Bordiga migliore, ma come il Bordiga di sempre, centralismo dialettico perchè compenetrato di spinte anche se per lo più irrazionali provenienti dalla base della organizzazione, recepite e razionalizzate dal vertice per tornare a loro volta alla base per essere tradotte in termini operativi e di concretezza politica.

 

Dar credito ad una teoria del centralismo organico e attribuirne la elaborazione a Bordiga che non ne ha mai riconosciuto la paternità, in nome di una concezione antidemocratica tesa all’assurdo, è ridicolizzare Bordiga che pure porta la responsabilità e non soltanto formale, delle “Tesi di Roma” in cui, nella parte relativa alla tattica diretta e indiretta, è esplicito il richiamo leninista di piegare le stesse concessioni offerte dalla democrazia all’interesse del partito rivoluzionario.

 

Quanto poi abbia contato la cosiddetta “conta” come simbolo del metodo democratico che legittima l’esistenza della maggioranza e della minoranza dei comitati centrali che a questa conta sono meccanicamente legati chi scrive ricorda come reagì alle decisioni prese nell’ultima riunione tenuta a Napoli che doveva decidere lo scioglimento o meno del Comitato d’Intesa dietro il perentorio invito di Zinoviev, segretario dell’Internazionale; messo in minoranza Bordiga, che accettava lo scioglimento “sic et simpliciter”, avvertì con accorato stupore di essere per la prima volta in minoranza (sono le sue parole) nello stesso raggruppamento della sinistra che portava di fatto il suo nome. Altro che l’irriverente per non dire ridevole, accostamento a Lenin fatto da “Programma”:

 

come restauratore del marxismo su un piano perfino più alto, non per virtù personali, ma per collocazione storica, eliminando fin l’ultimo anello di congiunzione con qualunque residuo, anche involontario, esteriore e linguistico-formale, di democratismo.

 

Abbiamo sottolineato noi questo brano per mettere in evidenza il paradossale rimescolamento di idee e di metodi in cui il disegno teorico è campato in aria al di fuori della realtà e contro la realtà stessa in una frenesia di soggettivismo idealistico lontanissimo da ogni seria metodologia marxista del tutto estranea all’opera e alla elaborazione teorica propria di Bordiga. Allora si capisce il perché della definizione e legittimazione di certo centralismo organico nell’amministrazione degli organi e della vita del partito rivoluzionario che Bordiga non ha mai definito teoricamente e mai praticato nell’ambito della sua attività di militante.

 

Ne consegue che al posto dei Comitati Centrali eletti dai Congressi secondo il metodo del centralismo democratico possono venir fuori, ad esempio, Commissari permanenti che fanno e disfano secondo criteri lasciati in eredità dallo stalinismo.

 

Va riconosciuto, tuttavia, che è facile rintracciare in molti scritti, come in molti atteggiamenti personali di Bordiga, intuizioni e originalità più o meno geniali e polemiche a cui non ha fatto seguito un adeguato lavoro di sistemazione teorica e di approfondimento critico al vaglio dell’esperienza accumulata dal movimento operaio in un momento dato della sua lunga storia. È questo il caso del “centralismo organico” che qualche epigono di dubbio marxismo penserà a distorcere sul piano di un aberrante soggettivismo, come in pratica si è già verificato, e con danni inferti all’organizzazione e alla giusta linea indicata dall’esperienza leninista, non sempre rimediabili.

 

Dobbiamo a Bordiga il rovesciamento di una politica tradizionale del partito socialista in cui il programma minimo, quello della tattica contingente, era tutto il programma massimo, quello della strategia era nullo perchè ridotto a semplice e convenzionale enunciato di una ipotetica, evanescente conquista del potere da parte della classe lavoratrice che sarebbe avvenuta per legge di evoluzione (la teoria cara ai riformisti della “pera matura che cade da sé”). Come ogni rovesciamento assumeva anche questo in Bordiga i termini a volte paradossali di una negazione assoluta o di una affermazione altrettanto assoluta; spariva nei suoi scritti il termine “tattica” per essere sostituito in quello di “strategia”. E dava l’impressione di ridurre così la dialettica nei due termini fissi della contraddizione, ma in realtà era, per l’autore, l’unico modo, anche se drastico, di rompere una tradizione di pensiero e di pratica politica, quella riformista, per porre l’accento sulla strategia che dialetticamente ha in sé e supera il dato del momento tattico sempre limitato e provvisorio, in una visione più ampia e più vera del momento strategico.

 

Togliamo dalla esperienza personalmente vissuta due episodi che sono illuminanti e particolarmente significativi a questo proposito, come, cioè, il momento tattico diventa dialetticamente valido nel quadro di una strategia di classe; si tratta della indicazione indirettamente data da Bordiga, da poco defenestrato dalla direzione del partito di Livorno, al nuovo centro Gramsci-Togliatti circa la linea tattica da condurre nell’aula del parlamento e non fuori di essa nella situazione di profondo smarrimento provocato dall’assassinio di Matteotti: niente questione morale, consigliava; niente secessionismo parlamentare tipo Aventino, dietro e a fianco dei partiti della democrazia nella illusione di combattere il fascismo in nome della morale borghese offesa dal feroce assassinio, o in nome della difesa dell’istituto parlamentare garante della vera democrazia, o, persino, in nome della difesa dell’istituto regio delle prerogative della monarchia sabauda. Questa linea di condotta che fu seguita, poi, dal centro del partito di malavoglia, a rilento e a zig-zag, come è risaputo, fu consigliata ed elaborata in casa di Bordiga ed espressa nel discorso che Grieco lesse alla camera, proprio quel Grieco fino allora discepolo prediletto di Amadeo e di lì a qualche mese nemico “irriducibile” di Bordiga e della “sinistra italiana”.

 

Il significato più profondo di questa indicazione, è che l’antifascismo tattico del centro del partito, ligio alla politica dello Stato russo, doveva concludersi con lo schieramento del partito sul fronte della guerra imperialista e con la sua giustificazione teorica distorcendo in modo infame e quanto mai pacchiano la teoria di Lenin sull’imperialismo e sul compito del partito rivoluzionario di avversare la guerra mirando alla sua trasformazione in guerra di classe; ideologia e compito che solo la sinistra comunista ha difeso allora e continua a difendere oggi.

 

La seconda esperienza tattica, intesa come momento di un obiettivo strategico, si situa nel cuore della crisi interna del nostro partito che rappresentava nel suo nascere, come lo rappresenta oggi, non un tentativo di polemica rivolta dall’esterno al P.C.I. per raddrizzarne lo sviamento ideologico e l’opportunismo della sua linea politica, ma l’ergersi della “sinistra italiana” a partito della rivoluzione nel momento che questo era obiettivamente venuto a mancare. Il dissenso verteva soprattutto sul come considerare l’organizzazione sindacale e di fabbrica che noi ritenevamo indispensabile al partito della rivoluzione che si richiamava non soltanto alla classe, ma alla necessità di una crescita dei quadri del partito adeguati ai suoi compiti fondamentali e che altri ritenevano come prassi socialdemocratica di sinistra da respingere dalla politica del partito.

 

Bordiga, che non era iscritto al partito, ma che al partito portò il contributo di una seria collaborazione teorica (mai di milizia attiva) ritenne di doversi inserire nel dibattito sostenendo la tesi che tra partito e classe sono necessari organismi intermedi (le organizzazioni sindacali) la famosa cinghia di trasmissione senza la quale il partito verrebbe a mancare dello strumento per il contatto diretto con le masse che il sindacato inquadra e conduce alle lotte rivendicative, ciò che non rientra nei compiti specifici del partito rivoluzionario. Ma è soprattutto per la esistenza di questi organismi intermedi tra partito e classe che si crea la condizione prima e permanente perché il partito possa attingere dal seno delle masse lavoratrici e dalle loro lotte la condizione del suo esistere, la validità della sua dottrina, la possibilità del suo concrescere con la classe nel suo complesso e apprestare gli strumenti e il materiale umano per servirsi delle lotte contingenti e del loro ingrandirsi e approfondirsi per elevare il particolare e il contingente all’universale della classe che è quanto dire allargare e approfondire le possibilità oggettive e di sovrastruttura della crescita rivoluzionaria.

 

Questo intervento ebbe allora scarsa eco tra quei compagni che ripugnavano all’azione sindacale con l’animosità propria dei neofiti: a rottura avvenuta dell’organizzazione internazionalista si è poi determinato quel voltafaccia che tutti conosciamo senza una giustificazione critica che un ribaltamento del genere avrebbe dovuto correttamente comportare.

 

Abbiamo creduto opportuno ricavare questi due episodi di profonda sensibilità e aderenza con cui Bordiga, e con lui la “sinistra italiana”, ha affrontato e risolto il difficile problema della tattica rivoluzionaria e in sede di teoria e in sede di applicazione pratica sfatando così la leggenda, se ancora ce ne fosse bisogno, di un Bordiga e cli una sinistra incapaci di sentire i problemi della tattica. Ciò che di vero è in questa accusa, cara ai Gramsci e ai Togliatti all’epoca del loro faticoso e oscuro arrembaggio alla direzione del Partito Comunista d’Italia (1923) in sostituzione della sinistra, avvenuta, va ripetuto, non per decisione della base del partito, nella stragrande maggioranza di sinistra, ma per decisione della nuova politica russa alla quale il Centro della III Internazionale si adeguava in ogni aspetto della sua politica, anche intromettendosi nei fatti interni dei partiti delle singole sezioni appartenenti all’Internazionale, è che la sinistra è sempre stata ed è apertamente e decisamente contraria alla tattica a sé stante, staccata cioè dalla linea di una strategia di classe; apertamente e decisamente contraria a quella tattica contingente e piena di concretezza del reale che, a cominciare da Gramsci e da Togliatti, ha fatto del Partito Comunista d’Italia il partito del compromesso sistematico e della politica di piccolo cabotaggio, il partito della via italiana e pacifica al socialismo.

 

Abbiamo esaminato fin qui brevemente ma con senso di obiettività quanto di Bordiga, militante rivoluzionario, è passato nel corpo di dottrina e di insegnamenti scaturiti da una esperienza che copre un arco di lotta tra le più roventi della storia del movimento rivoluzionario e che costituisce patrimonio indubbio della sinistra italiana e quindi del partito rivoluzionario. Verremmo però meno al nostro dovere di militanti di un partito rivoluzionario se non fossimo altrettanto obiettivi nell’esaminare i limiti del suo pensiero e della sua personalità sottacendo per ragioni di sentimento o di supposta opportunità politica, quanto di contraddittorio e di inconseguente nell’opera e negli atteggiamenti di questo nostro compagno riteniamo non si sia svolto sulla linea di questa tradizione.

 

È mancato a Bordiga una giusta valutazione della dialettica per quel fondo della sua educazione basata prevalentemente sul dato scientifico che lo portava a vedere il mondo e la vita su di un piano di sviluppo razionale quando la realtà della vita sociale e della lotta rivoluzionaria lo ha messo spesso davanti ad un mondo che obbedisce in buona parte a spinte di irrazionalità. La metodologia basata sul dato matematico proprio della scienza non sempre combacia con la metodologia basata sulla dialettica che è movimento e contraddizione e questo, sull’esame della politica rivoluzionaria e delle sue prospettive, non è di poco conto. Nel quadro di una sottovalutazione del metodo di analisi basato sulla dialettica marxisticamente intesa, vanno ricercate le ragioni della inutilità del Congresso di Bologna (1919) ai fini di una fondamentale chiarezza delle realtà e delle immediate prospettive per ciò che concerneva il partito socialista, praticamente finito come partito della rivoluzione se pur vivo e vegeto come partito parlamentare e la necessità di operare in quel congresso la formazione di un nuovo partito o attraverso una scissione delle forze protese all’atto rivoluzionario o attraverso il coagulo di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria in un partito nuovo nelle strutture del vecchio in attesa del momento giusto per operare il taglio. Era questa la condizione sufficiente e necessaria per dar vita al partito comunista ideologicamente e organizzativamente maturo per assumere il ruolo di sprone e di guida del proletariato, mentre ancora la situazione era aperta alla soluzione rivoluzionaria; a Livorno (1921) la situazione era già cambiata e le forze del proletariato erano di fatto in ritirata sotto l’incalzare della reazione fascista. Lo stesso Bordiga cui incombeva la maggiore responsabilità dell’indirizzo teorico-politico della sinistra astensionista non aveva capito che a Bologna, e non dopo, doveva essere dato il via alla costruzione del Partito Comunista e che un tale evento storico imponeva una piattaforma che non avesse come sua componente essenziale un espediente tattico quale era l’astensionismo ma una piattaforma non dissimile da quella del partito di Lenin, che fosse centro di attrazione e di raccolta di tutte le forze di sinistra disposte a battersi per la rivoluzione proletaria nella quale anche l’astensionismo avrebbe potuto giocare un ruolo non secondario, anche se non preminente, come antidoto salutare al dilagare dell’elezionismo più deteriore.

 

Una corretta interpretazione dialettica non pone come termini di contraddizione fondamentale, come nel caso in esame, elezionismo e astensionismo, ma le ragioni storiche di una classe nel suo complesso soggetta economicamente e politicamente, il proletariato, e la classe opposta che L’assoggetta, il capitalismo.

 

Fin qui la vicenda umana e politica di Bordiga conclusasi praticamente con la defenestrazione della sinistra dagli organi direttivi del partito e per conseguenza, la fine obbligata della direzione Bordiga. Ma è soprattutto la coscienza del crollo della III Internazionale come centro di direzione rivoluzionaria che ha operato in Bordiga quel trauma psico-politico che lo accompagnerà per oltre un quarantennio fino alla sua morte: un complesso di inferiorità che lo porterà ad avere paura di metter fuori la testa dalle macerie di quella enorme organizzazione internazionale che era crollata improvvisamente sulla testa di coloro che avevano creduto nella sua continuità e nella sua forza come ad una certezza che aveva più del mistico che dello scientifico.

 

In questo particolare clima va considerata la sua condotta politica, il rifiuto costante ad assumere politicamente un atteggiamento che potesse qualificarlo responsabilmente. Si sono così susseguiti avvenimenti politici, a volte di importanza storica, che sono passati accanto a questa sdegnosa estraneità, senza eco alcuna: il conflitto Trotsky-Stalin; lo stalinismo; la nostra frazione che all’estero, in Francia e Belgio, continuava storicamente la ideologia e la politica del partito di Livorno; la II guerra mondiale e, infine, lo schieramento della Russia sul fronte della guerra dell’imperialismo. Né una parola, né un rigo proprio nello stesso spazio storico, su un piano più allargato e complesso di quello della prima guerra mondiale che aveva offerto a Lenin i dati obiettivi per una analisi marxista condensata in “Imperialismo come fase suprema del capitalismo” e in “Stato e Rivoluzione”, pilastri della dottrina rivoluzionaria e presupposto teorico della rivoluzione d’Ottobre.

 

Bisogna attendere la fine della guerra e con essa la fine della esperienza fascista per allacciare veri e propri contatti con i compagni e i quadri rimasti dell’organizzazione, primo fra tutti quello con Bordiga per consentirci di conoscere quale fosse il suo pensiero sui maggiori problemi e che cosa intendesse fare come militante comunista: non si trattava di chiedere a Bordiga l’assunzione di responsabilità al centro del partito anche se completo e costante era il suo apporto come consigliere e collaboratore “anonimo” del partito quando non si faceva ispiratore di un indirizzo di politica generale non sempre coincidente con quella del partito. Il suo discorso divergeva dal nostro anche se, grosso modo, il metodo di analisi fosse quello di sempre. Sosteneva che non si dovesse parlare dell’economia russa in termini di “Capitalismo di Stato” ma di “Industrialismo di Stato”, non di rivoluzione socialista, quella di Ottobre, ma di rivoluzione antifeudale e quindi di una economia che tendeva al capitalismo. Ma non sembrava molto convinto di quello che affermava e le rettifiche che ha dovuto apportare poco tempo dopo al suo pensiero ne sono la conferma. E allora quale è la ragione di una copertura ideologica così fragile e in così evidente contrasto col suo passato soprattutto con i punti cardini della piattaforma della “sinistra italiana” elaborati dallo stesso Bordiga? Non vogliamo entrare nelle pieghe di un dramma psicopolitico che ha come sua componente la paura, anche e soprattutto fisica, di una rottura con quel passato di esperienza nella quale egli aveva costruito con la sua coscienza prima ancora che con la sua intelligenza e creatività, il capolavoro della sua vita politica degli anni 20 così intensamente vissuta. Il “Capitalismo di Stato” portava il segno di una significazione di classe; l’ “industrialismo di Stato” no, lasciava le cose come stavano o come si desiderava che stessero.

 

Riteniamo perciò che sia positivo essere stati costretti a ritornare ora su questi argomenti con una esperienza più matura ed avvertita in confronto a quella che si poteva avere intorno agli anni 40.

 

E una tardiva e non convinta giustificazione alla teoria sull’ “industrialismo di Stato” è riapparsa poi buttata lì, quasi per incidente sul N. 3, febbraio 1966, di “Programma Comunista” per mano dello stesso autore; trascriviamo dall’articolo “Il nuovo statuto delle aziende di Stato in Russia”:

 

Primo rilievo: l’affermazione dell’azienda statale come “anello principale”, implica l’esistenza di aziende non statali, e per conseguenza di attività “private” nel senso volgare del termine, e riconferma un nostro vecchio assunto circa il “capitalismo di Stato” in Russia, nel quale riconoscevamo piuttosto un “industrialismo di Stato”. Esistono altri “anelli”, altre aziende, nell’economia russa, che concorrono al processo economico.

 

La giustificazione che lo stesso autore ne dà, non solo conferma l’esattezza della nostra analisi di allora, ma mette in chiara evidenza come tale imprecisione relativa alla natura della economia sovietica fosse voluta e serviva a nascondere la volontà politica di respingere allora (dicevamo “allora” perchè poi si è adeguata all’evidenza) ogni formulazione rigidamente di classe come quella del “Capitalismo di Stato” a cui si legava tutta l’impostazione teorico-politica fatta propria fin dal suo sorgere, del Partito Comunista Internazionalista.

 

La giustificazione teorica che ci viene offerta rasenta i limiti della banalità se con essa si vuol creare una nuova categoria economica inesistente tanto nella storia della economia capitalista come nella esperienza della prima fase dello Stato socialista.

 

Le fasi di sviluppo della economia capitalista così venivano precisate da Engels nel suo magistrale Antidiihring:

 

Appropriazione dei grandi organismi di produzione e di traffico, prima da parte di società anonime, più tardi da parte di trust e in ultimo da parte dello Stato. La borghesia dimostra di essere una classe superflua; tutte le sue funzioni sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati.

 

Non si tratta di terminologia, ma di giudizio politico di fondamentale importanza se si vuole orientare giustamente il partito rivoluzionario con una linea politica chiara e conseguente di fronte al più sconcertante problema del secondo dopoguerra. La constatazione che l’azienda statale come “anello” principale della economia nazionale implica l’esistenza di aziende non statali e per conseguenza di attività “private” è proprio d’ogni sviluppo ineguale del Capitalismo anche quando è pervenuto alla fase del suo massimo sviluppo. come è proprio della fase inferiore del socialismo che potenzia e supera il “suo” capitalismo di Stato nella dialettica propria dello Stato socialista di immettere gradualmente nella azienda statale i residui del capitalismo e precapitalismo che la rivoluzione ha inevitabilmente trascinato con sé nell’arco storico della costruzione di una società socialista.

 

Ed è questo il tipo di Capitalismo di. Stato quale lo concepiva Lenin e che l’ulteriore potenziamento del settore socialista avrebbe dovuto superare e vincere nel quadro del potere rivoluzionario la cui maggiore garanzia era rappresentata dall’esercizio politico della dittatura del proletariato armato. Ma la natura del Capitalismo di Stato che si è posta davanti all’esame del partito rivoluzionario nel cuore della seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra (è quanto è avvenuto al centro della nostra organizzazione e a cui questa nota si riferisce) era radicalmente diversa e aveva ben altri caratteri che vogliamo subito esaminare anche se forzatamente per sintesi:

  1. Il Capitalismo di Stato nel periodo di Stalin non tendeva al socialismo, ma a consolidare il potere del tradizionale capitalismo sulla forma dell’azienda statale, fortemente centralizzata, resa possibile dal passaggio della economia industriale privata nell’ambito dello Stato operato dalla Rivoluzione d’Ottobre.
  2. Il suo inserimento nella II guerra mondiale non ha avuto a sua giustificazione alcun elemento di natura socialista e ne ha avuto invece mille di natura borghese-capitalista con evidenti implicazioni imperialiste, come l’incontro di Yalta, poi, dimostrerà per aver posto la Russia tra i maggiori beneficiari nella spartizione del bottino di guerra.
    La stessa spregiudicata elasticità tattica che vede la Russia prima in combutta con Hitler (come se con i battaglioni di Hitler si potesse pervenire al socialismo) per la spartizione della Polonia e, quindi, dopo una giravolta di 180 gradi, a fianco delle democrazie occidentali (come se il socialismo potesse esser meta comune delle maggiori plutocrazie mondiali).
  3. L’economia sovietica è rimasta, nelle sue strutture portanti, tale e quale era all’epoca di Stalin. La liberalizzazione di Kruscew più ipotizzata che realizzata e la natura antidemagogica dei tecnocrati non hanno, nel loro complesso, portato modificazioni di rilievo o del tutto settoriali pur rappresentando momenti interessanti di un susseguirsi di crisi di sovrastruttura negli apparati politici, economici e militari come l’esperienza di questi ultimi decenni ha abbondantemente dimostrato.
  4. Bisognava tracciare una netta distinzione di classe tra il tempo che potremmo definire di Lenin e quello che ha avuto inizio con Stalin e che continua senza profonde e sostanziali modificazioni con i suoi successori.

Il tempo di Lenin, dalla rivoluzione di Ottobre agli esordi della nuova politica economica (Nep), è caratterizzato dallo Stato operaio che, basato sui Soviet attraverso il partito comunista tuttuno con le forze armate del proletariato, esercita la dittatura, anche se in mezzo ad ostacoli e difficoltà d’ogni genere provocati dal temporaneo arresto della spinta offensiva delle forze del proletariato internazionale e della possibilità immediata di una concreta proliferazione rivoluzionaria tra i paesi europei; mantiene la rotta verso gli obiettivi della realizzazione socialista avvalendosi della tattica delle concessioni all’avversario di classe come di un momento tattico indispensabile nella visione strategica di un ritorno offensivo rivoluzionario. Il Capitalismo di Stato, in questo quadro di insieme del tempo di Lenin, risponde al rischio calcolato di un voluto, temporaneo disciogliersi di necessità obiettive di una economia di mercato che, per quanto localizzata e sempre irta di pericoli, lo Stato della dittatura controlla e nella quale il gioco della domanda e dell’offerta, la funzione del capitale, lo stesso profitto e la utilizzazione del plus-valore, sono episodi marginali regolati nell’interesse generale della stessa economia socialista.

 

Sulla base di queste ragioni, di importanza fondamentale, acquisite dall’avanguardia rivoluzionaria fin dall’inizio del processo degenerativo e che sono state alla base della sua battaglia fatta di aperta denuncia e di conseguente distinzione organizzativa e politica, si è articolata l’opera della frazione di sinistra prima e del partito poi, che in obbedienza ad un nettò carattere distintivo anche nel suo definirsi come partito sì è rifatto ai motivi del comunismo rivoluzionario e dell’internazionalismo.

 

Non ci nascondiamo che all’interno di questi problemi, cui abbiamo accennato, si articola e si sviluppa una linea di coerenza politica che deve apparire per quella che è e non sopporta né di essere sottaciuta, né di essere sfigurata da arbitrarie sovrapposizioni mistificatorie. È stata questa ed è tuttora la nostra battaglia più bella anche se più ingrata. Ad ognuno il suo ed a Bordiga va riconosciuto una consequenzialità d’atteggiamento che ha inizio con l’ostruzionismo del silenzio alle sedute del Comitato Centrale dopo il Congresso di Lione (1926) e trova il suo approdo naturale nella lettera-testamento diretta, non a caso, a Terracini.

 

Questa nostra messa a punto può sembrare, sul piano del sentimento, amara e forse inumana, ma ci riportiamo al valore che i marxisti danno al ruolo degli uomini nelle vicende della storia e siamo certi d’aver interpretato il significato profondo dello stesso insegnamento di Bordiga che vuole che l’interesse dell’azione rivoluzionaria sia al di sopra di ogni sottoprodotto ideologico-politico, non escluso quello del bordighismo deteriore.

 

Onorato Damen