Bordiga (parte 1)

Creato: 21 Settembre 2009 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
Scritto da Onorato Damen Visite: 6093

Bordiga - Validità e limiti... Seconda edizione

Problemi del nostro tempo

Perché questo libro

Quali che siano stati e siano tuttora i dissensi, le lotte e persino le lacerazioni interne che questo libro [1] evidenzia, anzi e soprattutto per questa loro pregnante attualità, noi rivendichiamo e continuiamo quanto fu di Bordiga e nostro, cioè della “Sinistra Italiana” nel suo insieme, negli anni 1920, tanto duri e difficili per noi tutti quanto formativi, quelli della costruzione del partito rivoluzionario prima e dopo Livorno.

Si tratta di un patrimonio non contingente, di dottrina, di metodo e di coerente consequenzialità ai dettami del marxismo che non attende di essere soltanto difeso ma deve riemergere nella sua originaria totalità in uno scorcio della storia del movimento operaio in cui teorici, usciti dalla mediocrazia di partito, si fanno assertori d’un nuovo conformismo demosocialpatriottico e pretendono di farla da innovatori del marxleninismo e del contenuto rivoluzionario del socialismo degradati così a spregevole merce da rigattieri della cultura e dalla politica; voltate le spalle agli interessi fondamentali della classe lavoratrice, sono di fatto nel governo dello Stato dei padroni come forza determinante per salvarlo dall’attuale processo di disgregazione e di disfacimento che mortalmente l’attanaglia e irridono, non a caso, a tale patrimonio di idee e di quadri tenacemente operanti sul piano opposto della rivoluzione proprio in una fase in cui è aperta l’epoca storica del suo inarrestabile realizzarsi.

Due linee, dunque, tra loro contrapposte, che emergono dall’attuale situazione economico-politica.

La prima, quella rivoluzionaria del marxismo che vede nella crisi strutturale del sistema capitalista il dato obiettivo pervenuto a maturazione e quindi sufficiente per spingere il proletariato, suo diretto e storico antagonista, ad operare lo strappo violento per il suo totale superamento avente come fine la costruzione della società socialista.

La seconda, quella pluralistica del revisionismo democratico-parlamentare, già intravista nel “blocco storico” di Gramsci, tradotta e inserita poi, in termini di pragmatismo empirico e facilone nel “compromesso storico” di Berlinguer ha per obiettivo la restaurazione economica e politica da realizzare all’interno del sistema capitalista per assicurargli salvezza e continuità.

Presentazione alla seconda edizione

Nella presentazione di questa seconda edizione ci siamo preoccupati di completare il quadro per se stesso complesso, mettendo a punto alcuni aspetti caratteristici della problematica bordighiana con le implicazioni pratiche che dovevano scaturire che costituiscono un mondo a sè, quello che comunemente viene chiamato “bordighismo”, che Bordiga vivo avrebbe respinto con strafottenza del tutto napoletana e che ritroviamo alla base della “sinistra italiana” in una assoluta unità di teoria e di pratica fino al Congresso di Lione (1926). Poi si tratterà per la “sinistra” di continuare a difendere questo patrimonio di dottrina e di tradizione di classe del marxismo, a cui Bordiga aveva dato l’apporto maggiore e migliore, difenderlo nei confronti dello stesso Bordiga rimasto, per molti rapporti e per suo stesso riconoscimento, sotto le macerie della III Internazionale.

In una fase come questa, di deflusso di classe, era un problema di importanza fondamentale assicurare questa continuità per la “sinistra” chiamata a portare avanti la costruzione del partito, in quanto strumento insostituibile della rivoluzione.

Il dopo Bordiga ha visto ripetersi il dramma semicomico della lotta per i diritti di successione ciò che ha dato l’avvio ad una fioritura di pubblicazioni per lo più antologiche ed acritiche fatto su misura ideologico-politica o di singoli o di gruppi dalle estrazioni più varie; ognuno ha strappato più penne che ha potuto nella vasta gamma degli scritti di Bordiga per farsene ornamento e ognuno vi ha visto e riconosciuto per suo uso e consumo un briciolo di tale paternità. Segni questi di una ripresa di classe? Ritorno di particolare attenzione verso la “sinistra”? Bassa speculazione editoriale a fianco a iniziative di gruppettari di scarso credito e di nessuna autosufficienza ideologico-politica? Si tratterà forse di tutto un po’ ma siamo più propensi per l’ultima ipotesi.

Tra queste pubblicazioni, “Scritti scelti” a cura di Franco Livorsi, (Feltrinelli editore) è la raccolta di un certo respiro ma è anche, tendenzialmente, la più insidiosa per il tipo di storiografia cui si ispira in evidente funzione “picista” che traspare da tutte le pagine. Ma vi è evidente anche una incapacità di approfondimento critico dei problemi che affronta. Più precisamente le note d’introduzione o di commento ad ogni scritto di Bordiga esprimono più cura letteraria che taglio storico e conoscenza della materia. Documenti di un certo peso politico come, ad esempio, la lettera a Karl Korsch, sono buttati lì senza una adeguata e seria ambientazione in una situazione data, espressione di avvenimenti salienti di uno scorcio storico fortemente caratterizzato dallo scontro politico in atto o allo stato potenziale tra le forze entrate in crisi nei quadri dell’Internazionale Comunista. Era ancora nell’aria l’effetto traumatizzante del “Comitato d’Intesa” e la lettera di Bordiga a Korsch dava consigli di cautela proprio di riflesso alla dura esperienza vissuta nelle lotte interne di partito che avevano preceduto il Congresso di Lione tra la sinistra e il centro le cui’ conseguenze, sul piano della deviazione ideologica e politica, si sarebbero poi viste ingigantite, con il “partito nuovo” di Togliatti, su su fino all’odierna politica del “compromesso storico” di Berlinguer.

La stessa osservazione vale per la lettera di Bordiga a Terracini che ci si rimprovera d’aver definito la lettera-testamento. Non ha capito Livorsi l’importanza del documento che ha avuto il privilegio di conoscere e rendere pubblico. L’avrà letto da amante di lettere ma non da studioso di storia e tanto meno da marxista. Avrebbe dovuto porsi qualche interrogativo e tentare di formulare delle risposte. E’ vero che il marxismo in quanto dottrina e metodo non divinizza ma offre a chi dispone di adeguati strumenti d’indagine la possibilità della previsione storica. La spiegazione ad esempio, della crisi attuale che dal 1971 sta scuotendo dalle fondamenta l’economia industriale più sviluppata del mondo, è tutta nella teoria marxista della caduta tendenziale del saggio del profitto; bisognava riallacciare questo presupposto teorico essenziale del “Capitale” di Marx all’aspetto originario e fortemente caratterizzante della crisi con tutte le sue inevitabili implicazioni quali lo sconvolgimento monetario, la recessione e, prima ancora, l’inflazione che hanno avuto la loro prima manifestazione, non a caso, in America, nel paese, cioè del capitalismo tecnicamente più avanzato. Ciò che abbiamo fatto noi della sinistra comunista, quando tutti gli altri partiti e raggruppamenti, tutti, ripetiamo, o tacevano o negavano l’esistenza della crisi o l’attribuivano a fenomeni contingenti di sovrastruttura.

Ma ipotizzare una soluzione rivoluzionaria nel 1975, datare cioè, nel ristretto spazio di un anno lo scoppio della rivoluzione mondiale non si pone al di fuori di ogni possibilità di previsione storica per cadere nella più assurda e arbitraria fantapolitica?

Un ultimo rilievo, a cui teniamo particolarmente, riguarda l’atteggiamento di Bordiga di fronte alla guerra e ciò per evitare che storture teoriche di epigoni siano poi attribuite a Bordiga o, in genere, alla sinistra comunista che su questo problema, cardine della strategia rivoluzionaria, ha le sue carte in perfetta regola.

Quale l’atteggiamento che i compagni di “Programma” dicono d’aver tenuto e di continuare a tenere di fronte alla guerra? Ecco come lo esprimono:

Sulla guerra scrivevamo per esempio ne “Il corso storico del movimento di classe del proletariato” (v. Per l’organica, ecc. p. 90):
La guerra è indubbiamente una risultante di cause sociali (noi diremmo innanzitutto economiche) ed i suoi esiti militari si inseriscono come fattori di primo ordine nel processo di trasformazione della società internazionale, interpretato materialisticamente e classisticamente. […] Vi sono fasi storiche in cui è nostro dovere influire per quanto possiamo su un certo esito della guerra. In altre assolutamente no. L’esito ci interessa sempre.

E a mo’ di esemplificazione, aggiungono:

Accusarci di aver auspicato la vittoria antiamericana nella guerra di Corea, non ci fa né caldo né freddo e solo un idiota può interpretarlo come “simpatia intellettuale”. Noi siamo andati ben oltre: abbiamo perfino detto che sarebbe stato più proficuo, per la ripresa della lotta di classe nel mondo, che l’America e i suoi alleati fossero stati sconfitti nella seconda guerra mondiale. Ci si dirà che abbiamo una “simpatia intellettuale” per il nazismo, o l’amore del paradosso? Tutti possiamo vedere il risultato della vittoria angloamericana: l’oppressione su tutto il globo, che ad alcuni annebbia la vista a tal punto da credere che essa giunga a determinare tutto quanto succede nell’angolo più remoto della terra!

La dialettica serve qui come mira furbesca, deviante e imbrogliona a giustificazione del proprio smarrimento ideologico e politico.

Chi ha scritto questa robaccia, ramazzata alla meglio dalla cultura borghese, deve avere nelle vene il sangue del socialpatriota che, in previsione della prossima guerra imperialista si sente già incline a voltare le spalle alla parola d’ordine leninista del “disfattismo rivoluzionario” che ripudia ogni tentativo di distinguo e ipotizza la sola strategia che mette sullo stesso piano di responsabilità tutti i protagonisti della guerra, nessuno escluso, sia il blocco americano, sia il blocco russo e sia il blocco cinese. Chi osa affermare:

abbiamo perfino detto che sarebbe stato più proficuo, per la ripresa della lotta di classe nel mondo, che l’America e i suoi alleati fossero stati sconfitti nella seconda guerra mondiale…

costui bara con la coscienza di barare e non ha l’onestà politica di assumere la responsabilità di firmare ciò che scrive. Noi comunque siamo in grado di dimostrare che nessuno dei militanti del nostro partito, dalla sua fondazione fino alla spaccatura nel 1952, compresi, quindi, quei compagni del partito (oggi “programmisti”) che solidarizzano con tali posizioni, ha mai espresso con scritti o con prese di posizioni orali opinioni del genere.

Si trattava, è vero, di una vaga ipotesi che Bordiga aveva formulato nè prima, nè durante ma a guerra conclusa, che rientrava in quel suo “vizio” matematico di sottoporre gli accadimenti della storia al calcolo delle probabilità senza pensare ai futuri e inesperti epigoni che si sarebbero serviti, e nel mode più dissacrante, di una semplice ipotesi di laboratorio, anche se maldestra, per farne una linea politica da seguire.

E aggiungono, soddisfatti:

Tutti possiamo vedere il risultato della vittoria anglo-americana.

Sarebbe stato forse da preferire, chiediamo noi, ai fini della lotta di classe, la vittoria dell’asse italo-germanico? Sciovinismo a parte, la sola formulazione di tale ipotesi che ci ripugna, indica una macroscopica ignoranza del fenomeno imperialista di fronte al quale il proletariato non ha scelta da fare se non quella di abbatterlo.

Ora c’è da attendersi che il deflusso, che si opererà nel blocco delle forze demopopuliste per una loro organica incapacità a capire una crisi che sfugge loro di mano, affretterà il riemergere di una più chiara visione del conflitto di classe e di un rinnovato e più vasto interesse per i problemi che hanno trovato uomini della statura intellettuale di Bordiga spazio per la battaglia di idee e di politica nei quadri della Sinistra comunista italiana di cui questo libro vuole essere insieme documentazione e anticipazione.

Onorato Damen

 

[1] O. Damen, “A. Bordiga — Validita’ e limiti di una esperienza nella storia della Sinistra Italiana”, E.P.I. Editoriale Periodici Italiani — Milano.


Punti fermi di teoria e di prassi rivoluzionaria nell'arco storico del capitalismo



Problemi del nostro tempo

La natura e il compito del partito rivoluzionario è problema che riempie di sé uno spazio ampio e tormentato, lo stesso nel quale ha avuto inizio e svi luppo la lotta del proletariato come classe antagonista al capitalismo.

Non sempre però tale problema ha coinciso con gli interessi fondamentali del proletariato e non sempre ha portato un contributo positivo nella elaborazione della teoria rivoluzionaria.

Quello che ci proponiamo con questo nostro esame è di riunire in una panoramica obiettiva, anche se limitata, alcune posizioni teoriche che riteniamo più fortemente caratterizzanti nello schieramento di sinistra ora turbato dalla pletora di sedicenti “sinistri” incomprensibili per certa estemporaneità e superficialità, che a volte rasenta l’improntitudine, attingendo alle fonti originarie e servendoci, per obiettività, degli scritti più qualificati e responsabili.

Non è facile compito quello di mettere ordine nella congerie di posizioni diverse e a volte contraddittorie sulla funzione del partito e sul rapporto tra partito e classe data la disfunzione teorica che ha colpito la maggior parte dei raggruppamenti che si richiamano genericamente alla sinistra rivoluzionaria non escluso quello della “sinistra italiana”, considerato nel suo com plesso.

E’ forse entrato in crisi l’assunto ideologo e politico, a cui abbiamo creduto e per il quale abbiamo lottato, del ruolo storico del partito rivoluzionario come è stato concepito e realizzato dal partito bolscevico nella stagione rivoluzionaria di Lenin e di Trotsky?

Certamente no, ma una considerazione va fatta ed è che nella coscienza di molti si è venuto determinando un senso di vaga insoddisfazione e una conseguente impressione di scadimento del ruolo del partito come organismo permanente della classe operaia e come coefficiente indispensabile e determinante dell’atto rivoluzionario. E questo per due ordini di ragioni, la prima per la chiusura della fase rivoluzionaria e il passaggio della Russia dei Soviet sul fronte della controrivoluzione realizzato senza un evidente e violento scontro di classe, ma per un occulto processo interno di osmosi economico-sociale non facile a capirsi; la seconda, per la banale identificazione dello stalinismo con il leninismo in quanto continuazione storica, in una fase diversa, del partito bolscevico.

Va alla “sinistra italiana” il riconoscimento di aver affrontato per prima e criticamente i problemi inerenti al partito e alle sue implicazioni, ne mettiamo in evidenza il fulcro centrale sempre valido e le devastazioni che ne sono derivate in parte motivate da imprecise enunciazioni e in parte al prevalere, a volte, di quel sottile veleno della polemica che inclina, per il gusto di distinzione intellettualistica, al paradosso.

Ne diamo alcuni precisi riferimenti, a mo’ di dimostrazione, risalendo a ritroso i cinquanta e più anni di questa particolare storia del partito rivoluzionario nella quale la “sinistra italiana” ha proceduto quasi sempre come corrente di opposizione superando le enormi difficoltà che sempre accompa gnano il cammino di una minoranza rivoluzionaria.

Il rapporto, inteso come nesso dialettico tra il partito e la classe, è espresso con semplice linearità senza cioè porre un accento particolare sul partito nei confronti della classe e neppure sulla classe in confronto al partito; il partito è visto come una parte del tutto (classe), certo la parte ideologicamente e politicamente più sensibile, più preparata, più pronta, in una parola la parte più avanzata della classe cui compete il compito di guida, di sprone della classe stessa. Parlando delle varie fasi che si situano nel processo storico, Bordiga si chiede:

Che cosa le separa? Tra lo Stato della borghesia e quello del proletariato non può che collocare il culminare di una lotta rivoluzionaria alla quale la classe operaia è guidata dal partito politico comunista, che vince nel rovesciare colla forza armata il potere borghese, col costituire il nuovo potere rivoluzionario.

Bordiga, Lenin nel cammino della rivoluzione, 1924

Sempre su questo argomento e nello stesso anno scrive:

Questo interesse generale è, in una parola, l’interesse della rivoluzione proletaria, ossia l’interesse del proletariato considerato come classe mondiale, dotata di una unità di compito storico e tendente ad un obiettivo rivoluzionario, al rovesciamento dell’ordine borghese…
La maniera di coordinare le soluzioni “singole” a questa finalità generale si concreta in postulati acquisiti al partito e che si presentano come i cardini del suo programma e dei suoi metodi tattici. Questi postulati non sono dogmi immutabili e rivelati, ma sono a loro volta la conclusione di un esame generale e sistematico della situazione di tutta la società del presente periodo storico nel quale sia tenuto esatto conto di tutti i dati di fatto che cadono sotto la nostra esperienza. Ma non neghiamo che questo esame sia in continuo sviluppo e che le conclusioni si elaborino sempre meglio, ma è certo che noi non potremo esistere come partito mondiale se la esperienza storica che già il proletariato possiede non permettesse alla nostra critica di costruire un programma di regole e di condotta politica. Non esisteremmo, senza di questa, né noi come partito, né il proletariato come classe storica in possesso di una coscienza dottrinale e di una organizzazione di lotta.

Bordiga, Il comunismo e la questione nazionale, 1924

In questi termini senza ombra di cerebralismi, anche se l’ipotesi è inverificabile, la “sinistra” resa più matura e avvertita attraverso il duro travaglio della costruzione del Partito Comunista d’Italia e della sua direzione, esprimeva con Bordiga il rapporto, non formale, che deve intercorrere tra il partito di classe e la classe stessa.

A questo proposito riuniamo le varie elaborazioni miranti a definire la natura del partito e i suoi compiti di fronte alla classe che si sono susseguite dal “Manifesto dei Comunisti (1848) al 1925 le quali, pur esprimendo situazioni storicamente diverse del conflitto di classe, tuttavia la loro formulazione rimane fondamentalmente la stessa.

Gli operai cominciano a coalizzarsi contro i borghesi, si uniscono per tutelare le loro mercedi, fondano associazioni stabili per procurarsi da vivere durante i conflitti… Gli operai vincono di quando in quando, ma sono vittorie effimere. Il vero risultato della loro lotta non è l’immediato successo, bensì l’organizzazione sempre più estesa dei lavoratori… Operai delle diverse località si alleano e basta la sola unione perché le molte lotte locali, avendo quasi dappertutto lo stesso carattere, si accentrino in una lotta nazionale (intendi una lotta estesa su tutto il territorio dello Stato, da cui si passa poi al campo internazionale), in una lotta di classe. Ma ogni lotta di classe è lotta politica… e i proletari… effettuano in pochi anni la loro organizzazione. Questa organizzazione dei proletari in classe e quindi in partito politico, viene ad ogni istante incagliata dalla concorrenza che si fanno i lavoratori stessi, ma rinasce sempre più forte, più salda e potente… Vedemmo come intere parti della classe dominante sono respinte nel proletariato, o per lo meno minacciate nelle loro condizioni di esistenza… e forniscono molti elementi di educazione al proletariato. Finalmente, in tempi in cui la lotta di classe si avvicina a soluzione, il disgregamento prende, nella classe dominante, nella vecchia società, carattere così crudo e violento, che una piccola parte dei dominatori diserta e si unisce ai rivoluzionari di quella classe che ha con sè l’avvenire.

Dal “Manifesto dei comunisti”

Il Partito Comunista si distingue da tutta quanta la classe operaia in quanto che, abbracciando con lo sguardo tutto il cammino storico della classe operaia nella sua totalità, mira a difendere, a tutte le svolte di questo cammino, non soltanto gli interessi di singoli gruppi o di singoli mestieri, ma gli interessi detta classe operaia nella sua totalità.

Dalle tesi del Secondo Congresso dell’Internazionale comunista sui com piti del partito comunista nella rivoluzione proletaria

L’organo indispensabile della lotta rivoluzionaria del proletariato è il partito politico di classe. 11 Partito Comunista, riunendo in sé la parte più avanzata e cosciente del proletariato, unifica gli sforzi delle masse lavoratrici, volgendoli dalle lotte per gli interessi dei gruppi e per i risultati contingenti alla lotta per la emancipazione rivoluzionaria del proletariato.

Dallo Statuto del Partito Comunista d’Italia votato ad unanimità nel Congresso costitutivo di Livorno

Nulla di diverso da questi testi ben conosciuti e fondamentali dicono i Punti di Sinistra”, pur nella prima loro redazione schematica, colle parole:

Il Partito è l’organo che sintetizza ed unifica le spinte individuali e di gruppi provocato dalla lotta di classe. In quanto tale, il tipo di organizzazione di partito deve essere capace di porsi al disopra delle particolari categorie e perciò raccoglie in sintesi gli elementi che provengono dai proletari delle diverse categorie, dai contadini, dai disertori della classe borghese, ecc.” (Dai “Punti di sinistra” del “Comitato d’intesa” (1925]]

”# Il Partito Comunista, partito politico della classe operaia, si presenta nella sua azione come una collettività operante con indirizzo unitario. I moventi iniziali pei quali gli elementi e i gruppi di questa collettività sono condotti ad inquadrarsi in un organismo ad azione unitaria sono gli interessi immediati di gruppi della classe lavoratrice suscitati dalle loro condizioni economiche. Carattere essenziale della funzione del Partito Comunista è l’impiego delle energie così inquadrate per il conseguimento degli obbiettivi che, per essere comuni a tutta la classe lavoratrice e situati al termine di tutta la serie delle sue lotte, superano, attraverso la integrazione di essi, gli interessi dei singoli gruppi e i postulati immediati e contingenti che la classe lavoratrice si può porre”.
# La integrazione di tutte le spinte elementari in una azione unitaria si manifesta attraverso due principali fattori; uno di coscienza critica, dal quale il Partito trae il suo programma, l’altro di volontà che esprime nello strumento con cui il Partito agisce, la sua disciplinata e centralizzata organizzazione. Questi due fattori di coscienza e di volontà sarebbe erroneo considerarli come facoltà che si possono ottenere o si debbono pretendere dai singoli poiché si realizzano solo per la integrazione delle attività di molti individui in un orga nismo collettivo unitario.” (Dalle “Tesi di Roma” (1922]]

In questo profilo storico la definizione del partito rivoluzionario ed il rapporto partito-classe è univoca anche se diversamente espressa nel breve scorcio di tempo degli anni 1920, cioè da Livorno alla promulgazione delle “leggi eccezionali” che gettava il partito nella clandestinità. Sono i termini di una piattaforma che è stata alla base unitaria della “sinistra italiana” e nella quale noi della “sinistra” ci siamo sempre riconosciuti. Ed è su questa linea maestra teorico-politica che il nostro partito consolida i pilastri di dottrina e di coerenza politica della sinistra rivoluzionaria.

Se tale è la costante teorica che ha caratterizzato le tumultuose vicende di questa nostra corrente, bisogna rifarci ad un articolo, particolarmente significativo di Bordiga che se non veniva ad incrinare sostanzialmente tale costante teorica, tuttavia il modo della sua formulazione, preso in assoluto, poteva dare adito, come del resto l’ha dato, a delle interpretazioni devianti e per questo arbitrarie ed anguste. Ci riferiamo all’articolo “Partito e azione di classe” in cui è soltanto intravista quella tematica paradossale che ha accompagnato la personalità di Bordiga ed ha offerto una larga messe all’opera dei soliti epigoni con i quali lo stesso B. non è mai stato fortunato. Vi si afferma che:

non possa parlarsi di una classe dotata di movimento storico, ove non esista il partito che di quel movimento si ponga all’avanguardia nell’azione. […]
Il partito è l’organo indispensabile di tutta l’azione della classe; ed anzi logicamente non si può parlare di vera azione di classe (che cioè sorpassi i limiti degli interessi di categoria o dei problemucci contingenti) ove non si sia in presenza di una azione di partito.

Bordiga, Partito e azione di classe

E’ proprio questo modo di esprimersi alquanto impreciso e volutamente ermetico che lascia adito a più interpretazioni; si traccia in tal modo l’inizio di una strada che altri possono percorrere ad arbitrio nell’illusione di concludere il discorso non importa se tale conclusione è in contrasto con la stessa premessa come è avvenuto con la “dittatura del proletariato”, sbocco storico inevitabile, divenuto, con un frego di penna, “dittatura del partito”.

La cautela espressiva è comprensibile quando si pensa che si era negli anni subito dopo Livorno e il partito era diretto e amministrato dalla “sinistra” e Bordiga ne esprimeva al massimo il grado eli influenza e di responsabilità.

Bisognerà attendere la redazione del corpo di tesi del 1951, con un Bordiga slegato da ogni disciplina che la milizia rivoluzionaria impone, per vedere più accentuata la tendenza ad attenuare il nesso tra il partito e la classe, ponendo l’accento più sul ruolo del partito e meno su quello della classe.

Il partito — vi si afferma — come avrà diretto da solo ed in modo autonomo la lotta della classe sfruttata per abbattere lo Stato capitalistico, così da solo ed in modo autonomo dirige lo Stato del proletariato rivoluzionario.

Che cos’è questa se non chiara indicazione a negare validità alla dittatura del proletariato, in quanto dittatura di classe, che il partito esercita e a dare il via libera alla teorizzazione della “dittatura del partito”, che non può sostituire la classe nel suo compito di antagonista storico del capitalismo?

La classe è storicamente intesa non solo se ha chiara coscienza del fine rivoluzionario a cui è chiamata, ma lo è anche in tutta la fase precedente in cui, proprio in virtù dell’opera eli critica e di convincimento del suo partito, acquista con lenta e faticosa gradualità tale coscienza che da corporativa e di semplice rivendicazionismo diviene unitaria e matura alla comprensione ideo logica, politica e organizzativa del suo ruolo di classe rivoluzionaria.

Bisogna risalire al timido accenno fatto con una disputa sul centralismo organico come formulazione che Bordiga riteneva più consona alla interpretazione del centralismo democratico di Lenin e dei partiti della Terza Internazionale, per capire questo tendere a rapporti di autorità e al limite di gerarchie che finirebbero per riproporre il peggiore stalinismo.

Nella concezione leninista la dittatura del proletariato significava presenza e continuità di un contenuto di classe basato sui rapporti di democrazia nel quadro della più rigida centralizzazione propria della dittatura, da qui il rapporto dialettico tra democrazia e dittatura. Il deperimento dello Stato e della dittatura di classe aprirà la fase dell’esercizio della più larga e più completa democrazia proletaria in cui concretamente si esprime e si esalta una società socialista.

Tale tendenza alla totale socialità della classe che si articola nella fase transitoria nel grembo stesso della dittatura è quanto di avvenire, di vivo e di operante si genera dal processo di deperimento di ogni struttura di autorità, di coazione e di esercizio della forza e non trova posto in una dittatura di partito nella quale si spezza di fatto il rapporto dialettico nella misura in cui ogni decisione viene unilateralmente e unicamente dall’alto e la disciplina rivoluzionaria viene amministrata anche nella fase pre-rivoluzionaria, ad esempio, da Commissari Unici solo per viscerale amore dell’antidemocrazia. Esempio tipico il modo angusto e casermesco di considerare con criterio di inibizione il contributo di elaborazione teorica che mira ad approfondire la conoscenza critica di particolari fenomeni che si originano dalla esperienza del dominio imperialista come espressione del capitalismo in fase di avanzata putrefazione, che si avvalga degli strumenti di indagine propri del marxismo. Rileggiamo il paragrafo 7, Parte IV, dei “Punti Base” (1951) dovuti alla penna di Bordiga:

Nessun movimento può trionfare nella storia senza la continuità teorica, che è l’esperienza delle lotte passate. Ne consegue che il partito vieta la libertà personale di elaborazione e di elucubrazione di nuovi schemi e spiegazioni del mondo sociale contemporaneo: vieta la libertà individuale di analisi, di critica e di prospettiva anche per il più preparato intellettuale degli aderenti e difende la saldezza di una teoria che non è effetto di cieca fede, ma è il contenuto della scienza di classe proletaria, costruito con materiale di secoli, non dal pensiero di uomini, ma dalla forza di fatti materiali, riflessi nella coscienza storica di una classe rivoluzionaria e cristallizzati nel partito.

Bordiga, Punti Base, 1951

E’ evidente la discriminazione tra i pochi toccati dalla provvidenziale luce divina cui è dato di poter elaborare in sede teorica e i molti non favoriti dalla stessa provvidenza cui è negata la libertà di ripercorrere criticamente il corso degli avvenimenti guidati dalla bussola della metodologia marxista.

Bisognerà vedere da vicino gli effetti prodotti da una simile “forma mentis” che di marxismo ha solo la vernice esteriore ma sotto cui ristagna una incapacità a seguire nella sua dinamica complessità di flusso delle alterne e a volte contraddittorie vicende della classe operaia nella lenta formazione d’una coscienza di sé che spezzi i lacci che la lega agli interessi più immediati e con tingenti della vita d’ogni giorno.

E’ quello che vedremo nel prossimo numero con un esame del perché di una situazione di permanente crisi interna dei raggruppamenti che, con più evidenza, hanno portato avanti tale processo degenerativo.

Onorato Damen


 

Zone di irrazionalità nel mondo della sovrastruttura



In che misura una improprietà di linguaggio può pervenire a deformare il pensiero che si ritiene improntato alle idee e alla metodologia marxista? E’ il caso della interpretazione della irrazionalità nella storia allorché viene formulato il quesito su quanto di razionale è nel pensare e nell’operare degli uomini e quanto di irrazionale, invece, è presente e a volte vi domina sotto la parvenza e la falsa apparenza di razionalità.

Si affaccia così un problema che chiameremmo di psicologia sociale e politica che non ha avuto fin qui, che si sappia, il posto che merita nella pur vasta problematica marxista.

Ci ha condotto ad affrontarlo non tanto la presunzione di trattarlo a fondo, quanto di porlo sul tavolo dell’osservazione critica e vederne l’importanza non solo e non unicamente in sede di elaborazione teorica, ma soprattutto sotto il profilo della sua importanza di azione politica.

L’occasione è data da una notazione critica, anche se timidamente formulata, di Giorgio Galli nella sua attenta e intelligente recensione al mio libro dedicata alla complessa personalità di Bordiga e pubblicata in “Critica Sociale” del 5 febbraio 1972, n. 3, dal titolo: “P.C.I. Alternative storiografiche”.

L’osservazione del Galli è così formulata:

Certamente, come rileva Damen, l’impostazione di Bordiga presenta alcuni aspetti non dialettici, una sopravvalutazione del dato razionale che tuttavia è largamente implicita in quella concezione che lo stesso Marx definiva “socialismo scientifico”, nel quadro del “materialismo storico”. Ma una dialettica che prenda in considerazione la dinamica di un mondo che, come afferma lo stesso Damen, “obbedisce in buona parte a spinte di irrazionalità”, è una dialettica che probabilmente andrebbe al di là di quello che è stato, sinora, il recepimento del marxismo nelle sue varie interpretazioni, comprese le più rivoluzionarie.

I termini della mia analisi presi in considerazione dal Galli sono esattamente questi:

È mancato a Bordiga una giusta valutazione della dialettica per quel fondo della sua educazione basata prevalentemente sul lato scientifico che lo portava a vedere il mondo e la vita su di un piano di sviluppo razionale, quando la realtà della vita sociale e della lotta rivoluzionaria lo ha messo spesso davanti ad un mondo che obbedisce in buona parte a spinte di irrazionalità. La metodologia basata sul dato matematico proprio della scienza non sempre combacia con la metodologia basata sulla dialettica che è movimento e contraddizione e questo, nell’esame della politica rivoluzionaria e delle sue prospettive, non è di poco conto.

È evidente nella osservazione del Galli una sottintesa ipotesi materialistica e crede di intravedere nella mia formulazione una ipotesi che potrebbe andare oltre i termini della dialettica formale, non coglie cioè il nesso che deve costantemente intercorrere tra il mondo della determinazione e quello della sovrastruttura.

Innanzitutto va detto che è proprio del materialismo infantile il modo di concepire il rapporto dialettico tra causa ed effetto di un qualsiasi fenomeno politico-sociale con carattere di immediatezza; data cioè la causa a questa deve corrispondere inevitabilmente e subito l’effetto; in altre parole data, ad es., una situazione oggettiva di crisi profonda del sistema (è il caso attuale di tutto il complesso del regime capitalista) a questa deve necessariamente corrispondere, come un addentellato strumentale, automatico con la sovrastruttura, una soluzione rivoluzionaria e su questo presupposto predisporre una tattica ed una strategia dell’atto rivoluzionario, facendo leva sulla spontaneità delle masse. É questa la tipica “forma mentis” d’ogni tipo di populismo politico che pervade le cosiddette “sinistre” da quelle extra-parlamentari, troppo numerose in questa policromia di gruppi per essere esaminate ad una ad una e troppo inconsistenti per attribuire loro un ruolo caratterizzante nella crisi del sistema, a quella dell’anarchismo libertario e comunisteggiante e del maoismo becero e pasticcione tutti, indistintamente, e non a caso, germinati nel clima del dominio imperialista come momento estremo e parossistico del suo disfacimento.

Questo modo di concepire meccanicisticamente il muoversi delle vicende umane è sempre servito a tutti i regimi in crisi come espediente per consentir loro di riprender fiato e di guadagnare tempo nella speranza di risalire la china e ritessere la tela del proprio privilegio di classe e ciò contro le stesse leggi che regolano, in senso contrario, il divenire della storia. Anche il capitalismo non agisce oggi contro la linea dinamica del suo opposto illudendosi così di violentare la storia?

L’argomento così sinteticamente abbozzato merita, pensiamo, un esame più approfondito.

Il nostro tempo dà giustamente l’impressione d’aver raggiunto il più alto grado delle certezze obiettive; nel campo delle scienze naturali, nelle ricerche come nelle scoperte la scienza ha realizzato conquiste al di sopra di ogni previsione umana: la rivoluzione tecnologica ha investito di sé ogni attività dell’uomo spazzando via residui del passato, inserendosi come elemento propulsore e di profondo svecchiamento nella stessa tradizione artigianale che aveva accumulato nei secoli un incomparabile potenziale di bellezza e di ricchezza. Lo stesso processo produttivo è dilatato ormai sul terreno della più assoluta razionalizzazione. Ma sono forse queste indiscutibili e universali certezze obiettive offerte agli uomini e di cui gli uomini stessi non sempre hanno la dovuta consapevolezza.

Tra queste abbiamo posto il processo produttivo che del complesso dell’economia è, a giusta ragione, la manifestazione più razionale: non è concepibile, infatti, la vita dei grandi complessi dell’industria monopolizzata che non sia basata su criteri di rigida programmazione tanto nella sua strutturazione di macchine, di materie prime e di mano d’opera, il tutto contabilizzato fino ai minuto temporale e al centesimo monetario, che nelle sue prospettive di sviluppo e di realizzazione del profitto a lungo termine.

Eppure se scaviamo nella complessità di questo processo non è difficile individuare la matrice di vaste e profonde contraddizioni quale, ad es., la tendenza all’inarrestabile aumento della tecnica in confronto ai limiti di assorbimento del mercato e la conseguente riduzione progressiva dell’utilizzo della mano d’opera; più in particolare la contraddizione fondamentale tra il crescere, sotto il pungolo della concorrenza, del capitale fisso (macchine) e la tendenza alla diminuzione “globale” del profitto che mette in crisi la scientificità del sistema e manda in bestia i possessori dei mezzi di produzione. Non a caso il marxismo ritiene anarchico questo sistema di produzione, anarchico perché irreale e contraddittorio e quindi irrazionale.

Ma l’argomento si allarga a dismisura se spostato sul piano dei fenomeni socio-politici della sovrastruttura, là dove gli uomini pensano e operano.

Ci riportiamo così al rapporto dialettico tra i fattori della determinazione e quelli sovrastrutturali che esprimiamo in termini di classe, più precisamente delle due classi storiche che in questa fase vivono, l’una nell’altra, in contrapposizione dialettica, il lungo momento della crisi di trapasso dal capitalismo al socialismo, da una società condizionata, basata sullo sfruttamento dell’uomo sull’uomo ad un’altra basata sulla libertà.

Nessuno più dubita che il capitalismo è pervenuto alla fase conclusiva del suo ciclo storico, ma non tutti hanno coscienza della gravità della crisi che ha investito quel perfetto ma complicato e delicatissimo strumento produttivo che la scienza, applicata alla tecnica, ha messo nelle mani dei detentori del potere economico e soprattutto dei possessori del capitale finanziario divenuto il dominatore dispotico della politica imperialista. Ma la scienza applicata alla tecnica, se ha consentito di dilatare senza limiti la capacità produttiva del capitalismo, ora è chiamata a consulto al letto di questo grande ammalato per guarire i mali che affliggono il sistema capitalista di produzione dei beni e della loro distribuzione; ebbene questa scienza non ha trovato altro rimedio che quello di una tecnologia ancora più avanzata per una ristrutturazione aziendale destinata, sì, a ridare l’illusione di una rinascita ma anche e soprattutto a riprodurre, e in modo più allargato, i mali che era chiamata a guarire. E tra questi mali, il male maggiore, per il capitalismo, della diminuita capacità del sistema ad assicurare il normale profitto. Da qui l’accresciuto ritmo al processo di accentramento dei grandi complessi industriali nelle varie branche dell’attività produttiva: i pesci grandi si mangiano i pesci piccoli nella speranza di sopravvivere; la polarizzazione ulteriore del capitale finanziario nelle mani di pochi che ricorrono a tutte le forme della speculazione e il crollo verticale delle piccole e medie industrie dato che tanto lo Stato che i privati non vogliono correre rischi con investimenti di capitali in imprese di non sicuro avvenire.

Questo complesso economico così profondamente, e inguaribilmente in dissesto e dalle manifestazioni a volte ridicole e a volte tragiche e proprie del capitalismo morente, continua a vivere la sua agonia nella misura che le debolezze e gli errori della classe opposta, storicamente chiamata al suo superamento, rendono ciò possibile; la verità è che il capitalismo non sta vivendo una crisi di crescenza in quanto strutturalmente capace di aprire davanti a sè un nuovo ciclo di sviluppo, ma è l’antagonista di classe, il proletariato, che non ha ancora raggiunto quel grado di consapevolezza del proprio fine e di violenza rivoluzionaria per osare di affossarlo.

Il capitalismo non muore per esaurimento o perchè ha portato a compimento il suo compito storico di classe; può continuare a vivere, come infatti vive, anche se non ha più nulla da dire sotto il profilo economico e di sviluppo sociale e culturale. Ed è questa specie di interregno tra un capitalismo che non c’è più se non nelle forme antistoriche del parassitismo e della violenza, e un proletariato tuttora incapace di imporre la sua egemonia di classe che si riproduce nella sovrastruttura con lo sconvolgimento di tutti i valori acquisiti e con la tendenza a regredire verso epoche che ci illudevamo fossero del tutto scomparse.

Data la situazione di crisi esistente che sta toccando il fondo nella sua azione di disintegrazione del tessuto economico, del settore cioè che più di ogni altro mostrava i segni della certezza obiettiva per l’azione coordinatrice della scienza e della razionalizzazione, si sarebbero dovuti determinare sul piano sovrastrutturale altrettanti sommovimenti nelle strutture socio-politiche con l’acutizzarsi del conflitto di classe e con lo svegliarsi di una coscienza rivoluzionaria delle masse. Se ciò è avvenuto, lo è stato solo in parte e in modo limitato, quando non del tutto distorto, ciò che dimostra la estrema inadeguatezza e inattualità della tesi, cui accennavamo più sopra, che vuole che ogni fenomeno del sostrato economico si riproduca per automatismo in superficie, nella mente degli uomini, nei loro rapporti e nelle loro cose quando, in realtà, i fenomeni della struttura economica si proiettano sul piano dei rapporti sociali e politici in uno svolgimento di ampiezza spaziale e temporale difficilmente delimitabile sia per il diverso grado di sviluppo tra le singole esperienze capitalistiche sia per la lenta e disuguale sensibilizzazione della coscienza e della volontà umana che attendono un’azione unificatrice, condizione prima e indispensabile perché possa operarsi quel moto di ritorno sulla base della determinazione da cui dipende il realizzarsi, in concreto, dell’evento storico.

Non è difficile ragguagliare la validità di questi fenomeni con i dati reali dello sviluppo economico, sociale e politico.

In altre parole a crolli, anche verticali, in economia non seguono sempre e inevitabilmente soluzioni rivoluzionarie se non esistono condizioni subiettive favorevoli che esaminiamo relativamente alla classe cui storicamente spetta di compiere l’atto dell’eversione rivoluzionaria. Sul piano ove operano le forze sociali e politiche della contraddizione dialettica, il problema di un amalgama della coscienza collettiva protesa verso un obiettivo comune mostra maggiori difficoltà di organizzazione, di sviluppo e di soluzione in confronto di quelle che abbiamo visto determinarsi nelle strutture di fondo dell’economia.

La classe proletaria è nel suo insieme tuttora legata da una unità fittizia più d’ordine sociologico che saldata ad una base economico-politica; è solcata da suddivisioni per categorie e in esse da situazioni contraddittorie che investono l’ambiente di lavoro, il grado di sfruttamento fisico e psichico e il sistema di retribuzione salariale.

Una classe che pensa ed opera per categorie non è ancora classe vera e propria perchè priva di una coscienza del suo essere unitario e del fine al quale è chiamata e quando si muove obbedisce a spinte di interessi parziali e contingenti e di apparati sindacali e politici che si servono del movimento delle masse per ingabbiarle in una strategia parlamentare per fini utili tanto ai partiti democratici d’opposizione come a quelli che sono al governo. In questo tondo di irrazionalità che pervade ancora buona parte delle masse lavoratrici, il fatto più irrazionale e perverso è che queste si sentono costrette a lottare con scioperi sempre più svirilizzati e con manifestazioni di banale coreografia per falsi scopi e, quel che è peggio, contro gli stessi interessi della classe.

Travagliata maturazione di una coscienza di classe

In questa immensa e vasta gamma di componenti della classe che va dai singoli ai gruppi, alle categorie e che a volte sembrano assumere i caratteri di veri compartimenti stagni. le azioni e reazioni e le prese di coscienza che si determinano per effetto della crisi economica incombente su tutto il sistema, assumono aspetti tra loro difformi e contradditori non facilmente recepibili sul piano d’una valutazione unitaria non diciamo economica e politica, ma anche e soprattutto di semplice psicologia sociale.

Il fatto che vivete, che avete una attività economica, che procreate, che fabbricate prodotti, che li scambiate, determina una concatenazione oggettiva necessaria d’avvenimenti, di sviluppi, concatenazione indipendente dalla vostra coscienza sociale, che non può mai abbracciarla nella sua totalità. Il fine più nobile dell’umanità è quello di abbracciare questa logica oggettiva dell’evoluzione economica (dell’evoluzione dell’esistenza sociale) nei suoi tratti generali e principali, onde adattarvi il più chiaramente e il più nettamente possibile, col più grande spirito critico, la sua coscienza sociale e la coscienza delle classi avanzate di tutti i paesi capitalistici.

Lenin

Tutto ciò non va inteso come linearità dello sviluppo che condurrebbe ad una interpretazione ora idealistica, ora mistica ma come un “tutto fatto di contrari” che ci dà il senso vero e rivoluzionario insieme del procedere dialettico d’ogni processo di sviluppo.

Solo questa concezione ci spiega l’ “auto-dinamica” di tutto ciò che è; ci dà la chiave dei “movimenti bruschi” delle “soluzioni di continuità”, delle “conversioni di direzione”; solo essa ci fa comprendere la distruzione delle vecchie cose e la nascita delle nuove.

Lenin

Il proletariato, è questo il solo riferimento valido nel dissolvimento dei valori tradizionali della cultura in questa fase della crisi borghese, è il portatore storico della dialettica concreta; allo stesso modo Engels aveva considerato il movimento operaio tedesco come l’erede della filosofia classica tedesca; in una parola il moderno proletariato si erge come il solo protagonista della storia, dalla rivoluzione industriale inglese all’attuale fase decadente e parassitaria di tutta l’economia capitalista.

Questo spiega il perché in questo scorcio di storia, pur così pieno di attriti sociali e di aspre lotte politiche, il massimo della tensione ha dato un diffuso senso di agitazione e di rivolta e di uso indiscriminato della violenza, ma in nessun caso queste agitazioni e rivolte sono riuscite a radicarsi nel profondo della classe ed esprimere le esigenze fondamentali del conflitto insanabile tra classe e classe.

La strada di questa travagliata maturazione d’una coscienza unitaria di classe è per se stessa lunga e difficile e non ha superato lo stadio del rivendicazionismo riformista e corporativo nel quale il proletariato è tuttora invischiato. Manca la soluzione di queste premesse perché gli operai sentano la suggestione delle lotte di classe e dell’azione rivoluzionaria.

Le masse operaie vi perverranno da sole? Vi perverrà in funzione del complesso della classe la punta avanzata del proletariato industriale nella misura che avrà contribuito a creare le condizioni per la formazione d’una coscienza unificatrice e critica di tutta la storia del movimento operaio; d’un tessuto di elaborazione teorica della rivoluzione di classe; di un corpo di dottrine maturato nel solco fecondo del marxismo; condizioni queste che presuppongono la esistenza e il travaglio formativo del partito rivoluzionario sorto tempestivamente dal seno stesso della classe.

All’opera di questo partito e di nessun altro, è demandato il compito di ridurre, quanto più possibile, lo spazio tra razionale e irrazionale che separa le masse operaie dalla coscienza del loro essere di classe.

Tuttavia non basta che il partito rivoluzionario disponga di quadri validi, di dottrina e di una solida base programmatica se non ha presente che queste zone obiettivamente preclassiste, che abbiamo visto essere così vaste e varie nel l’ambito stesso della classe, permangono ai margini della sua organizzazione e attendono di essere ridotte ad un momento attivo della pratica rivoluzionaria.

Se…

la vita sociale è essenzialmente pratica e tutti i misteri che sviano la teoria verso il misticismo trovano la loro soluzione razionale nella attività pratica umana e nella condizione di questa attività pratica…

Marx, dalle “Tesi su Feuerbach”

… è evidente l’importanza e l’urgenza del problema che sta da vanti alle forze responsabili dell’azione rivoluzionaria di precisare e approfondire la conoscenza della reale natura di queste zone d’ombra che appesantiscono la lotta di classe e la loro eventuale utilizzazione di forze “sussidiarie” sul piano della strategia rivoluzionaria.

Onorato Damen


 

Punto essenziale nelle vicende cinesi: la mancata rivoluzione democratico-borghese



È quanto attendevamo da tempo, salvo che il bubbone cinese è venuto a suppurazione assai prima del previsto. Il ritmo della svolta maoista è quale è stato impresso dalla intensità e dinamismo della fase attuale della crisi del mondo capitalista e delle contraddizioni della sua politica di dominio imperialista; siamo di fronte ad una ennesima conferma della teoria leninista delle svolte brusche che, se non sono sempre delimitabili nel tempo, tuttavia il loro susseguirsi incalzante mostra ogni volta sempre più marcati e cupi i segni della progressiva, drammatica decomposizione del contesto generale economico e politico del capitalismo.

L’apertura al dialogo e alla possibilità di accordi tra la Cina e gli Stati Uniti d’America ha bruscamente rotto l’equilibrio instabile basato sulla cosiddetta diarchia “bipolare”, quella russo-americana, e ha altrettanto bruscamente aperto l’epoca di un nuovo equilibrio di forze di direzione mondiale che gli strateghi della diplomazia americana già ipotizzano nel cosiddetto “pentapolarismo”, quello cioè dei cinque nuovi vertici di potere individuati nell’America, Russia, Cina, Giappone ed Europa occidentale.

Fino a ieri la linea di demarcazione tra la zona d’influenza americana e quella russa obbediva ad una dialettica del tutto epidermica e formale di caratterizzazione polemicamente ideologica per cui al mondo sovietico, che si voleva “socialista”, si contrapponeva quello americano dichiaratamente capitalista.

Oggi, dato il rimescolamento delle ideologie, delle alleanze e degli interessi, anche questa frontiera di reciproco comodo politico è crollata e si riconosce apertamente la comune natura della competizione internazionale per cui tutto fa comodo quando si tratta di rafforzare o di difendere il proprio schieramento di forze; le amicizie e le alleanze, aperte o segrete, si effettuano sul terreno offerto dall’avversario del momento. La manovra a largo raggio cino-americana di questi giorni ha creato le condizioni obiettive di una contromanovra russa che lancia un po’ ovunque ponti d’oro, ma con particolare riguardo alla seconda grande potenza industriale del mondo, il Giappone, che, se ha motivi di scontro con la Cina di Mao, nel settore più particolarmente asiatico, opera tuttavia sulla linea di una strategia reazionaria e globale come avamposto della controrivoluzione.

È avvenuto così, e nello spazio breve di poco più di un decennio, che l’America cessa ad un tratto, per la politica cinese, di essere la tigre di carta dell’imperialismo secondo “l’illuminato” pensiero di Mao e diviene la sua possibile alleata contro l’espansionismo russo; nel contempo per la Russia che si autodefinisce socialista e centro del socialismo mondiale, il Giappone, per sua natura nazionalista e militarista, diviene d’improvviso il paese con cui è possibile trattare e risolvere i problemi di un nuovo equilibrio nel mondo sotto il manto del “socialismo” sovietico.

Se l’analisi si fermasse qui e si limitasse a puntualizzare soltanto la presenza sulla scena politica generale di una tale ridda di episodi contraddittori e sempre rinnovantisi con altri e più stupefacenti, verrebbe meno in questa analisi marxista l’approfondimento di quel sottosuolo della storia da cui questi episodi della sovrastruttura incessantemente scaturiscono e il loro fondamentale carattere unitario che è quello del capitalismo nella fase monopolistica del suo sviluppo.

Allora è chiaro che il problema centrale da affrontare, tra tanti giri di valzer e rimescolamenti di carte, è quello di precisare, una volta per tutte, la reale natura delle forze sociali e politiche che si muovono sul terreno dell’imperialismo. È il nostro discorso di sempre, ma che oggi si pone non solo come interpretazione delle vicende tormentose e ingarbugliate del nostro tempo, ma come indirizzo ad una tattica e ad una strategia proprie del partito rivoluzionario.

Riteniamo di essere stati, come organizzazione politica, i soli o quasi, a non dar credito alla cosiddetta rivoluzione cinese di Mao come rivoluzione socialista e a considerare il “maoismo” come una infezione ideologica e politica che avrebbe appestato di nazionalismo e di demagogia “populista” il movimento operaio internazionale. E tutto ciò per la convinzione propria del marxismo che la realizzazione del socialismo presuppone un’azione condotta sul piano di classe dal proletariato con i principi, la tattica e la strategia che gli sono propri.

Profondamente intaccata nella coscienza di molti maoisti è ora la credibilità nel ruolo rivoluzionario della Cina maoista; rimane tuttavia il problema, aperto dal crollo di questo mito, di approfondire e di chiarire non tanto i motivi del crollo che non escono dall’ambito, sempre mutevole, dei sentimenti, quanto quelli di una esperienza che doveva e deve essere vista, pazientemente e serenamente anche col rischio di ripeterci, col metodo e con gli strumenti di una interpretazione marxista.

Rivoluzione democratico-borghese e guerra contadina

C’è da chiedersi se la Cina, nella lunga serie di lotte interne, ha realmente avuto e portato a compimento la sua rivoluzione democratico-borghese. Il modello classico di confronto storicamente valido cui riferirci è la rivoluzione russa del 1905 soffocata nel sangue e quella vittoriosa del febbraio 1917.

Tolgo dall’opuscolo di Lin Piao “Viva la vittoria della guerra popolare” questo passo particolarmente pertinente al nostro argomento:

Già nel periodo della prima guerra civile rivoluzionaria, il compagno Mao-tse-tung, aveva sottolineato che il problema contadino occupava una posizione estremamente importante nella rivoluzione cinese, che la rivoluzione democratico-borghese contro l’imperialismo e il feudalismo era, in effetti, una rivoluzione contadina e che il compito fondamentale del proletariato cinese nella rivoluzione democratico-borghese era quello di guidare la lotta dei contadini.

Al centro quindi dell’episodio storicamente più importante per la formazione della Cina d’oggi è per Mao e i maoisti la guerra contro la dominazione giapponese che si conclude con la conquista armata del potere dello Stato, e che ha nei contadini la sua forza determinante e più omogenea.

Che il contadiname nei paesi come la Russia e la Cina prerivoluzionarie sia una componente importantissima di cui non si può fare a meno nella strategia della rivoluzione democratico-borghese, è uno dei cardini del leninismo; ma che una guerra partigiana di liberazione nazionale contro la dominazione giapponese condotta dal contadiname come forza sociale egemone sia da considerare come rivoluzione democratico-borghese, è per lo meno arbitrario; è come forzare i termini nella dinamica delle sue componenti storiche.

La rivoluzione contadina è soltanto rivoluzione antifeudale.

La rivoluzione democratico-borghese presuppone la presenza non solo di forze sociali della medievalità ma soprattutto di quelle che il capitalismo ha suscitato, quelle cioè, della moderna borghesia e del moderno proletariato.

Queste sono le nuove forze reali, le forze motrici che lo sviluppo sociale ha offerto alla strategia rivoluzionaria tanto a Lenin che a Mao, i due protagonisti che hanno operato su di un terreno economico-sociale apparentemente diverso, se visto in superficie, ma nei tratti essenziali del suo sviluppo, obiettivamente simile: le forze sociali residue della medioevalità economica in fase di lento ma sicuro esaurimento e le forze del moderno capitalismo, borghesia e proletariato che irrompono sulla scena della vita nazionale con l’audacia e la violenza che sono il tratto distintivo di tutto ciò che è proiettato in avanti, sotto la spinta di un dinamismo realizzatore proprio della fase ascendente del capitalismo. La strategia di Lenin aveva gli occhi puntati su queste forze nuove lanciate alla conquista di uno spazio socio-economico, quello del capitalismo moderno, che a fatica stava liberandosi dai lacci della medioevalità; era questo il terreno fertile della rivoluzione democratico-borghese che doveva vedere il proletariato affiancato alla borghesia nella lotta armata contro la medioevalità economica e politica e nel quale il vasto e tumultuoso settore del contadiname, che portava ancora i segni dell’antica servitù della gleba, doveva costituire la forza alleata indispensabile all’esito vittorioso della rivoluzione democratico-borghese.

A conferma di questa intuizione leninista della strategia di classe si sono avute le prime enucleazioni del proletariato russo nei moti del 1905 che hanno dato vita al primo Soviet di Pietroburgo sotto la presidenza prestigiosa di Trotsky; più ampiamente e, sotto molti aspetti, in modo determinante nella rivoluzione di Febbraio; rivoluzione, questa, democratico-borghese più nei segni esteriori (soluzione parlamentare, costituente, governo provvisorio) che nella realtà effettuale dato che il proletariato, che era stato il maggiore protagonista della rivoluzione, era costretto ora ad una coabitazione con le forze della democrazia parlamentare, tuttavia cosciente del compito di dovere spingere per portare fino in fondo la stessa rivoluzione democratica.

Questo breve profilo storico della rivoluzione russa non trova il suo equivalente nello sviluppo della rivoluzione cinese la cui visione strategica non e andata oltre il suo ambito nazionale ed oltre il suo angusto contenuto di natura contadina.

A differenza di Lenin, Mao non ha vissuto il gran giorno delle contraddizioni fondamentali, prigioniero com’era entro i limiti d’una dialettica delle piccole cose, non è andato cioè oltre l’esame delle piccole contraddizioni; non avendo afferrato il senso del ruolo storico e primordiale del proletariato nella fase dell’imperialismo, si è irretito in una esperienza paesana di socialismo utopistico e premarxista, quali ad esempio le comuni rurali, che stanno al marxismo scientifico come la pratica della chiesa di Roma sta al primo dettato della predicazione di Cristo.

Sempre nel quadro della dialettica formale, e al di fuori quindi d’ogni seria valutazione di classe, è visto il problema della guerra partigiana condotta in prima persona dal contadiname.

Combattere contro il dominio giapponese non è episodio a se stante, ma si tratta di una guerra di liberazione nazionale nel quadro più vasto della seconda guerra imperialista portata a compimento con le stesse armi, con lo stesso fine strategico e soprattutto con la stessa ideologia che accompagna ogni conflitto armato sotto il dominio dell’imperialismo. Non esistono soluzioni intermedie: la guerra o è di classe con le forze e le ideologie rivoluzionarie e si ha allora uno sbocco socialista, oppure la guerra, qualunque ne sia l’origine, condotta sul terreno degli interessi nazionali, finisce in ogni caso per assumere i colori, le ideologie, le armi e il contenuto che sono propri dell’imperialismo di cui diviene necessariamente parte integrante.

Del resto i moti partigiani, così numerosi nella fase terminale del secondo conflitto mondiale, anche se formati in prevalenza da operai, non si sono conclusi in moto rivoluzionario verso il socialismo ma è vero il contrario, hanno cioè operato al servizio, diretto o indiretto, della guerra imperialista e con il loro sacrificio si è aperta l’era della democrazia parlamentare che non è nè sarà mai socialismo, nè introduzione necessaria alla sua affermazione.

Vero è che, come abbiamo visto nel brano sopra riportato, Mao cerca di premunirsi teoricamente allorchè afferma che:

compito fondamentale del proletariato cinese nella rivoluzione democratico-borghese era quello di guidare la lotta dei contadini.

Altro giochetto cinese di dialettica formale che genera imbroglio nella interpretazione del ruolo storico delle classi e serve egregiamente ai teorici del maoismo per nascondere la vera natura d’una ideologia e d’una politica obiettivamente populista. È ormai una constatazione quasi banale per dei marxisti, considerare il proletariato come classe storica avente nel seno i motivi del proprio divenire rivoluzionario, la sola cui è affidato il compito del superamento violento del capitalismo; come è constatazione altrettanto banale considerare il contadiname come classe priva di tutti gli attributi che il divenire storico ha affidato al proletariato. Da qui l’assurdo di una rivoluzione democratico-borghese che si afferma essere contadina nel suo contenuto sociale e presupporre una guida che spetterebbe al proletariato come suo compito fondamentale. Già, un proletariato in grado di guidare i contadini, ma non in grado di guidare se stesso, come se, marxisticamente parlando, tutto il proletariato fosse storicamente capace di guidare e non la sua parte migliore, che al limite altro non è che il partito uscito dal seno dello stesso proletariato.

Innanzitutto un moto contadino esprimerà sempre una direzione contadina (anche se formalmente non di contadini) per la difesa d’interessi che non vanno oltre il cerchio di quelli che sono peculiari alla sua classe. Da questa analisi risulta chiaro che in Cina, nella guerra di liberazione nazionale, nè la borghesia come espressione del moderno capitalismo, nè il proletariato, vi hanno giocato alcun ruolo importante, per cui si può concludere che in Cina non si è compiuta nessuna rivoluzione democratico-borghese, ma soltanto una rivoluzione contadina che per sua natura non poteva essere che rivoluzione antifeudale.

Sotto questo profilo, quanto è accaduto, ad esempio, nella storia d’Italia può dare la misura ad una comprensione critica degli avvenimenti cinesi. Anche l’Italia non ha avuto la sua rivoluzione nazionale col sorgere della borghesia capitalista. Le guerre d’indipendenza si sono sviluppate secondo una visione diplomatico-militare di accatto propria della politica dinastica dei Savoia in cui non c’era spazio per una rivoluzione che avesse avuto per protagonista il popolo come era nel sogno mazziniano. Pur tuttavia l’Italia ha avuto il suo sviluppo con l’affermazione del moderno capitalismo, ma presenti e visibili sono le carenze di una classe dirigente rozza e bottegaia, non plasmata da una autentica rivoluzione nazionale.

Una borghesia, dunque, senza rivoluzione borghese, costantemente oscillante tra la tendenza al nuovo, imposto dallo sviluppo economico-sociale nella forma anche più avanzata e residui ancor vivi e pesanti della medioevalita economica che in termini politici assumono le fisionomie varie del clericalismo, integralismo cattolico, fascismo, baronie agrarie e fondamentale tendenza a risolvere le proprie interne contraddizioni ricorrendo alla autorità dei vertici, all’uso sistematico della forza che diviene ogni volta, indiscriminato esercizio di violenza.

Il clima storico delle guerre nazionali è questo, e le sue componenti sociali che si articolano nella rivoluzione democratico-borghese si precisano nei due maggiori protagonisti in posizione antagonista nell’attuale fase del dominio imperialista: borghesia e proletariato.

Più si acuisce il conflitto di classe e più si evidenzia l’inevitabile spostamento della media e piccola borghesia e del contadiname povero verso i due poli opposti come forze subalterne dello schieramento, una parte proiettata verso la conservazione e l’altra proiettata verso la rivoluzione. Soluzioni intermedie risolutive non ci sono e se si determinano sul piano parlamentare con la “costituente”, episodio limite della rivoluzione democratico-borghese, questo o apre la strada ai suo superamento con la rivoluzione proletaria, oppure rimette sul loro binario tradizionale le forze del moto borghese per un nuovo e più avanzato sviluppo del capitalismo.

La Cina di Mao, anche se non ha avuto la rivoluzione di Febbraio dell’esperienza russa, potrà essere il teatro di una radicalizzazione delle lotte sociali con il riemergere del proletariato come classe che punta decisamente al potere e a cui spetta intanto di creare le condizioni obiettive per un ottobre bolscevico?

Sarà possibile:

  • se saranno spezzate le strutture del potere delle quattro classi;
  • se i contadini usciranno dal chiuso delle comuni agricole e si uniranno al proletariato nella lotta contro ogni residuo di politica populista;
  • se lo Stato operaio che i cinesi andranno a costruire romperà ogni legame aperto o segreto con i centri dell’imperialismo e col loro capitale finanziario;
  • se l’ideologia maoista che ha assommate le astuzie, le insoddisfazioni e i repentini mutamenti che sono propri del contadiname e della piccola e media borghesia sarà spazzata via dalla rivoluzione autenticamente socialista.

Posto da questa angolazione il problema della interpretazione degli accadimenti cinesi, si capirà finalmente perché Mao sia diventato l’esecutore più fedele della politica stalinista che ha condotto alla sconfitta la rivoluzione del 1925-27 sacrificando l’autonomia e lo sviluppo d’una politica di classe e gli stessi obiettivi di lotta rivoluzionaria del Partito Comunista cinese ridotto ad una trascurabile appendice del Kuomintang; si capisce perché Mao si sia costantemente battuto contro le idee e la tattica della sinistra comunista dell’Internazionale che poneva l’accento sul ruolo prioritario del proletariato che la strategia maoista relegava ad una funzione marginale nella rivoluzione contadina; si capisce perché la guerra di liberazione antigiapponese condotta in chiave nazional-contadina non poteva sottrarsi al clima storico della guerra mondiale dell’imperialismo; si capisce perché le forze sociali che si sono articolate nella lotta armata saranno le stesse che, afferrato il potere dello Stato, lo amministreranno sulla base del nazionalismo più esasperato nell’interesse delle quattro classi installatesi al vertice del potere; si capisce infine perchè la violenza della guerra, qualunque essa sia, all’infuori della guerra di classe, non è, non sarà mai violenza rivoluzionaria.

Se tale è il retroterra della recente storia cinese, quella che sta svolgendosi oggi sotto i nostri occhi, obbedisce alla logica della conseguenzialità che è nelle cose prima ancora che nella buona o cattiva volontà degli uomini.

L’apertura della Cina verso gli Stati Uniti, che significa innanzitutto apertura del suo vastissimo mercato alla economia americana bisognosa di sollevarsi da una crisi profonda l’ingresso all’ONU alla pari nel covo dei briganti imperialisti; la proclamata solidarietà al Pakistan in guerra in obbedienza ad un evidente calcolo strategico di grande potenza, non sono certo episodi da elencarsi nella linea di classe e dell’azione rivoluzionaria.

Fedeltà, dunque, fino in fondo alla controrivoluzione stalinista.

Onorato Damen


 

 

Libro Bordiga

Nota introduttiva



Due righe di presentazione, anche se la pubblicazione, per gli argomenti che tratta, si presenta da sé. Teniamo, tuttavia, a precisare che non ci siamo prefissi di presentare, in modo organico, una completa analisi della vasta e contraddittoria problematica bordighista, ma ci siamo limitati ad alcuni suoi aspetti che sono stati alla base d’un dissenso teorico per un diverso modo di considerare i problemi della politica rivoluzionaria e della militanza nel partito del proletariato.

Non ha importanza che lo scontro teorico e, a volte, l’asprezza polemica siano espressi da Alfa o da Onorio, ciò che è particolarmente visibile nello scambio di alcune lettere tra Bordiga (Alfa) e Damen (Onorio). I nomi come gli pseudonimi fungono da semplici strumenti di comunicazione, non sono, in definitiva, che i portavoce più o meno efficaci e validi di una realtà in continuo movimento che finisce per trascendere la stessa persona fisica che cerca di contenerla entro la logica d’una metodologia per meglio interpretarla.

Quel che conta è che il dissenso serva in ogni caso come una delle componenti della ricerca e porti un contributo di chiarificazione dei problemi e faciliti il compito, proprio di ogni ricerca, di portare avanti idee ed esperienze; come questo avvenga e a prezzo di quali sacrifici e lacerazioni nei rapporti umani, conta assai meno.

Ecco perché riteniamo che Bordiga è e rimane nella storia del movimento rivoluzionario tanto per ciò che ha dato come per ciò che non ha saputo o voluto dare.

Quel che ha dato e che la “Sinistra italiana”, fattasi adulta come Partito Comunista Internazionalista, porta avanti nella sua battaglia quotidiana, prende più consistenza e caratterizzazione proprio in virtù del contrasto con ciò che Bordiga avrebbe potuto e dovuto dare e non ha dato. Del resto l’alternarsi delle vicende umane, come l’incessante mutare delle cose, è pieno di luci e di ombre, di affermazioni e di negazioni che anche il politico, l’agitatore e persino il “capo” cova dentro di sé come termini di una contraddizione mai risolta, senza accorgersene, senza averne coscienza piena.

Tutto ciò costituisce il tessuto connettivo di questo nostro lavoro: vi sono riuniti scritti noti o poco noti, e scritti di ieri di cui è da tempo venuta meno ogni possibilità di consultazione da parte di chi fosse interessato alla loro conoscenza. Nel pubblicarli, è nostro intendimento continuare l’opera di ampliamento e di approfondimento del quadro che il presente lavoro ha soltanto abbozzato nella sua essenzialità. Lo scopo? Uno soprattutto: non spezzare, non consentire che venga spezzato, il filo rosso della continuità storica della “Sinistra italiana” nel suo corpo di ideologia e di politica, il meglio che sia stato espresso dalle lotte del proletariato italiano negli anni 20 come contributo alla elaborazione di una teoria autenticamente di classe, e non come una esigenza di cultura e di vezzeggiamento intellettualistico usciti dai libri o dalle università, dal tempio, cioè, della intelligenza e della dottrina borghese, come è avvenuto per l’esperienza “ordinovista” di Gramsci, anche se cresciuta, quasi in concomitanza di tempo, con quella “astensionista” di Bordiga.

Marzo 1971

Nota alla seconda edizione

Nella presentazione di questa seconda edizione ci siamo preoccupati di completare il quadro per se stesso complesso, mettendo a punto alcuni aspetti caratteri­stici della problematica bordighiana con le implicazioni pratiche che dovevano scaturirne che costituiscono un mondo a sé, quello che comunemente viene chiamato “bordighismo”, che Bordiga vivo avrebbe respinto con strafottenza del tutto napoletana e che ritroviamo alla base della “sinistra italiana” in una assoluta unità di teoria e di pratica fino al Congresso di Lione (1926). Poi si tratterà per la “sinistra” di continuare a difen­dere questo patrimonio di dottrina e di tradizione di classe del marxismo, a cui Bordiga aveva dato l’apporto maggiore e migliore, difendendolo nei confronti dello stesso Bordiga rimasto, per molti rapporti e per suo stesso riconoscimento, sotto le macerie della III Inter­nazionale.

In una fase, come questa, di deflusso di classe, era un problema di importanza fondamentale assicurare questa continuità per la “sinistra” chiamata a portare avanti la costruzione del partito, in quanto strumento insostituibile della rivoluzione.

Il dopo Bordiga ha visto ripetersi il dramma semi-comico della lotta per i diritti di successione ciò che ha dato l’avvio ad una fioritura di pubblicazioni per lo più antologiche ed acritiche fatte su misura ideologico‑politica o di singoli o di gruppi dalle estrazioni più varie; ognuno ha strappato più penne che ha potuto nella vasta gamma degli scritti di Bordiga per farsene ornamento e ognuno vi ha visto e riconosciuto per suo uso e consumo un briciolo di tale paternità. Segni questi di una ripresa di classe? Ritorno di particolare attenzione verso la “sinistra”? Bassa speculazione edi­toriale a fianco a iniziative di gruppettari di scarso cre­dito e di nessuna autosufficienza ideologico-politica? Si tratterà forse di tutto un po’, ma siamo più propensi per l’ultima ipotesi.

Tra queste pubblicazioni “Scritti scelti” a cura di Franco Livorsi (Feltrinelli editore), è la raccolta di un certo respiro ma è anche tendenzialmente la più insi­diosa per il tipo di storiografia a cui si ispira in evi­dente funzione “picista” che traspare da tutte le pagine. Ma vi è evidente anche una incapacità di approfondi­mento critico dei problemi che affronta. Più precisa­mente le note d’introduzione o di commento ad ogni scritto di Bordiga esprimono più cura letteraria che taglio storico e conoscenza della materia. Documenti di un certo peso politico come, ad esempio, la lettera a Karl Korsch, sono buttati lì senza una adeguata e seria ambientazione in una situazione data, espressione di avvenimenti salienti di uno scorcio storico fortemente caratterizzato dallo scontro politico in atto o allo stato potenziale tra le forze entrate in crisi nei quadri del­l’Internazionale Comunista. Era ancora nell’aria l’effetto traumatizzante del “Comitato d’Intesa” e la lettera di Borcliga a Korsch dava consigli di cautela proprio di riflesso alla dura esperienza vissuta nelle lotte interne di partito che avevano preceduto il Congresso di Lione tra la sinistra e il centro le cui conseguenze, sul piano della deviazione ideologica e politica, si sarebbero poi viste ingigantite, con il “partito nuovo” di Togliatti su su fino all’odierna politica del “Compromesso storico” di Berlinguer.

La stessa osservazione vale per la lettera di Bordiga a Terracini che ci si rimprovera di aver definito lettera-testamento. Non ha capito Livorsi l’importanza del do­cumento che ha avuto il privilegio di conoscere e di rendere pubblica. L’avrà letto da amante di lettere ma non da studioso di storia e tanto meno da marxista. Avrebbe dovuto porsi qualche interrogativo e tentare di formulare delle risposte. E vero che il marxismo in quanto dottrina e metodo non divinizza ma offre a chi dispone di adeguati strumenti d’indagine la possibilità della previsione storica. La spiegazione ad esempio, della crisi attuale che dal 1971 sta scuotendo dalle fon­damenta l’economia industriale più sviluppata del mondo, è tutta nella teoria marxista della caduta ten­denziale del saggio del profitto; bisognava riallacciare questo presupposto teorico essenziale del “Capitale” di Mara all’aspetto originario e fortemente caratteriz­zante della crisi con tutte le sue inevitabili implicazioni quali lo sconvolgimento monetario, la recessione e, prima ancora, l’inflazione che hanno avuto la loro prima manifestazione, non a caso, in America, nel paese, cioè, del capitalismo tecnicamente più avanzato. Ciò che ab­biamo fatto noi della sinistra comunista, quando tutti gli altri partiti e raggruppamenti, tutti, ripetiamo, o tacevano o negavano l’esistenza della crisi o l’attribui­vano a fenomeni contingenti di sovrastruttura.

Ma ipotizzare una soluzione rivoluzionaria nel 1975, datare cioè, nel ristretto spazio di un anno lo scoppio della rivoluzione mondiale non si pone al di fuori di ogni possibilità di previsione storica per cadere nella più assurda e arbitraria fantapolitica?

Un ultimo rilievo, a cui teniamo particolarmente, ri­guarda l’atteggiamento di Bordiga di fronte alla guerra e ciò per evitare che storture teoriche di epigoni siano poi attribuite a Bordiga o, in genere, alla sinistra co­munista che su questo problema, cardine della strategia rivoluzionaria, ha le sue carte in perfetta regola.

Quale l’atteggiamento che i compagni di “Pro­gramma” dicono d’aver tenuto e di continuare a tenere di fronte alla guerra? Ecco come lo esprimono:

Sulla guerra scrivevamo per esempio ne “Il corso storico del movimento di classe del proletariato” (v. Per l’organica… ecc. p. 90) “La guerra è indubbiamente una risultante di cause sociali (noi diremmo innanzitutto economiche) ed i suoi esiti militari si inseriscono come fattori di primo ordine nel processo di trasformazione della so­cietà internazionale, interpretato materialisticamente e classisticamente”. Vi sono fasi storiche in cui è nostro dovere influire per quanto possiamo su un certo esito della guerra. In altre assolutamente no. L’esito ci interessa sempre.

E a mo’ di esemplificazione, aggiungono:

Accusarci di aver auspicato la vittoria antiameri­cana nella guerra di Corea, non ci fa né caldo né freddo e solo un idiota può interpretarlo come “simpatia intel­lettuale”. Noi siamo andati ben oltre: abbiamo perfino detto che sarebbe stato più proficuo, per la ripresa della lotta di classe nel mondo, che l’America e i suoi alleati fossero stati sconfitti nella seconda guerra mondiate. Ci si dirà che abbiamo una “simpatia intellettuale” per il nazismo, o l’amore del paradosso? Tutti possiamo ve­dere il risultato della vittoria angloamericana: l’oppressione su tutto il globo, che ad alcuni annebbia la vista a tal punto da credere che essa giunga a determinare tutto quanto succede nell’angolo più remoto della terra!

La dialettica serve qui come mira furbesca, deviante e imbrogliona a giustificazione del proprio smarrimento ideologico e politico.

Chi ha scritto questa robaccia, ramazzata alla meglio dalla cultura borghese, deve avere nelle vene il sangue del socialpatriota che, in previsione della pros­sima guerra imperialista si sente già incline a voltare le spalle alla parola d’ordine leninista del “disfattismo rivoluzionario” che ripudia ogni tentativo di distinguo e ipotizza la sola strategia che mette sullo stesso piano di responsabilità tutti i protagonisti della guerra, nessuno escluso, sia il blocco americano, sia il blocco russo e sia il blocco cinese. Chi osa affermare: “abbiamo perfino detto che sarebbe stato più proficuo, per la ripresa della lotta di classe nel mondo, che l’America e i suoi alleati fossero stati sconfitti nella seconda guerra mondiale”, costui bara con la coscienza di barare e non ha l’onestà politica di assumere la responsabilità di firmare ciò che scrive. Noi comunque siamo in grado di dimostrare che nessuno dei militanti del nostro partito, dalla sua fon­dazione fino alla spaccatura nel 1952, compresi, quindi, quei compagni del partito (oggi “programmisti”) che solidarizzano con tali posizioni, ha mai espresso con scritti o con prese di posizioni orali opinioni del genere.

Si trattava, è vero, di una vaga ipotesi che Bordiga aveva formulato né prima, né durante ma a guerra conclusa, che rientrava in quel suo “vizio” matematico di sottoporre gli accadimenti della storia al calcolo delle probabilità senza pensare ai futuri e inesperti epigoni che si sarebbero serviti, e nel modo più dissacrante, di una semplice ipotesi di laboratorio, anche se maldestra, per farne una linea politica da eseguire.

E aggiungiamo, soddisfatti : “Tutti possiamo vedere il risultato della vittoria anglo-americana”. Sarebbe stato forse da preferire, chiediamo noi, ai fini della lotta di classe, la vittoria dell’asse italo-germanico? Sciovinismo a parte, la sola formulazione di tale ipotesi che ci ri­pugna, indica una macroscopica ignoranza del fenomeno imperialista di fronte al quale il proletariato non ha scelta da fare se non quella di abbatterlo.

Ora c’è da attendersi che il deflusso che si opererà nei blocco delle forze demopopuliste per una loro orga­nica incapacità a capire una crisi che sfugge loro di mano, affretterà il riemergere di una più chiara visione del conflitto di classe e di un rinnovato e più vasto inte­resse per i problemi che hanno trovato uomini della statura intellettuale di Bordiga e spazio per la battaglia di idee e di politica nei quadri della Sinistra comunista italiana di cui questo libro vuole essere insieme docu­mentazione e anticipazione.

Novembre 1975


Amadeo Bordiga fuori dal mito e dalla retorica



Il nostro partito, che non ha fatto di Bordiga un feticcio e che, Bordiga vivo, ha apertamente dissentito da alcune sue posizioni di principio ma soprattutto dalle deformazioni che ne hanno fatto non pochi epigoni che si sono serviti del suo nome, è nelle condizioni migliori per parlare di lui, della sua alta statura di militante, della sua opera di organizzatore infaticabile ed anche dei suoi stessi limiti.

Per questo, mentre rifiutiamo il tono apologetico del “post mortem” che è stato adoperato e che Bordiga avrebbe respinto con la sua abituale battuta come fesserie, ci proponiamo di mettere in evidenza quanto del suo contributo va considerato e difeso perché entrato di diritto nella elaborazione della teoria rivoluzionaria e quanto, invece, non è da considerarsi sulla linea della continuità storica della sinistra comunista internazionale e particolarmente di quella passavi alla storia col nome di “sinistra italiana”.

Dobbiamo a Bordiga la teoria dell’astensionismo tattico enunciata in una fase del parlamentarismo più deteriore basato sul clientelismo personale, sulla corruzione e il sottogoverno germogliati nel socialismo meridionale e di aver dato consistenza organizzativa a questa corrente nell’ambito del partito socialista italiano creando con questo il presupposto teorico-pratico alla rigenerazione del pensiero marxista avvilito dalla degenerazione democratica e alla lotta a fondo contro il parlamento, il maggiore baluardo della democrazia parlamentare corrotta e corruttrice insieme.

Dobbiamo a Bordiga la ricostruzione del quadro teorico del socialismo scientifico nelle linee fondamentali datene da Marx e da Engels tonificando in tal modo la parte migliore politicamente più sensibile del partito socialista stretta nelle morse di una socialdemocrazia che dirigeva di fatto il partito dai seggi di Montecitorio, che aveva in Kautsky il suo pontefice massimo, che mutuava la rivoluzione con la evoluzione, la dittatura del proletariato con la dittatura del parlamento impersonata in Giolitti.

Dobbiamo a Bordiga l’elaborazione teorica del giusto rapporto tra partito e classe da cui dipende la riuscita di una politica rivoluzionaria. Si può affermare, senza tema di peccare di esagerazione e di essere comunque smentiti, che la definizione di tale rapporto che teoricamente e politicamente è un punto fermo della tematica marxista, rappresenta una geniale fusione tra l’esperienza della “sinistra italiana” e quella di Lenin conclusasi vittoriosamente nella rivoluzione d’Ottobre. E va aggiunto che l’elaborato di Bordiga su “partito e classe” non soltanto è servito da punto di riferimento marxista nel periodo del primo dopoguerra ai partiti che andavano formandosi nella scia della rivoluzione d’Ottobre, ma è tuttora un classico e lo sarà per tutta la fase che precede la prossima ondata rivoluzionaria del proletariato. Ignorarlo o tentare di attenuarne i termini, anche se fatto in nome di Bordiga o di un generico e approssimativo bordighismo, sarebbe snaturarne il significato e il ruolo di indirizzo permanente nell’azione del partito rivoluzionario.

Bisogna riandare alla piattaforma elaborata al Convegno di Imola e posta alla base della formazione del Partito Comunista d’Italia al Congresso di Livorno per seguire i momenti formativi d’una dinamica del partito di cui Bordiga più e meglio di ogni altro, ha tratto esperienza viva e dati obiettivi e subiettivi per la elaborazione della sua teoria sul partito in rapporto alla classe.

Centralismo organico? Centralismo democratico? Noi lo chiameremmo, con maggior coerenza con il Bordiga di allora che per noi vale non come il Bordiga migliore, ma come il Bordiga di sempre, centralismo dialettico perché compenetrato di spinte anche se per lo più irrazionali provenienti dalla base della organizzazione, recepite e razionalizzate dal vertice per tornare a loro volta alla base per essere tradotte in termini operativi e di concretezza politica.

Dar credito ad una teoria del centralismo organico e attribuirne la elaborazione a Bordiga che non ne ha mai riconosciuto la paternità, in nome di una concezione antidemocratica tesa all’assurdo, è ridicolizzare Bordiga che pure porta la responsabilità e non soltanto formale, delle “Tesi di Roma” in cui, nella parte relativa alla tattica diretta e indiretta, è esplicito il richiamo leninista di piegare le stesse concessioni offerte dalla democrazia all’interesse del partito rivoluzionario.

Quanto poi abbia contato la cosiddetta “conta dei voti” come simbolo del metodo democratico che legittima l’esistenza della maggioranza e della minoranza dei comitati centrali che a questa conta sono meccanicamente legati, chi scrive ricorda come reagì alle decisioni prese nell’ultima riunione tenuta a Napoli che doveva decidere lo scioglimento o meno del Comitato d’Intesa dietro il perentorio invito di Zinoviev, segretario dell’Internazionale; messo in minoranza, Bordiga, che accettava lo scioglimento “sic et simpliciter”, avvertì con accorato stupore di essere per la prima volta in minoranza (sono le sue parole) nello stesso raggruppamento della sinistra che portava di fatto il suo nome. Altro che l’irriverente per non dire ridevole, accostamento a Lenin fatto da “Programma”

come restauratore del marxismo su un piano perfino più alto, non per virtù personali, ma per collocazione storica, eliminando fin l’ultimo anello di congiunzione con qualunque residuo, anche involontario, esteriore e linguistico-formale, di democratismo.

Abbiamo sottolineato noi questo brano per mettere in evidenza il paradossale rimescolamento di idee e di metodi in cui il disegno teorico è campato in aria al di fuori della realtà e contro la realtà stessa in una frenesia di soggettivismo idealistico lontanissimo da ogni seria metodologia marxista del tutto estranea all’opera e alla elaborazione teorica propria di Bordiga. Allora si capisce il perché della definizione e legittimazione di certo centralismo organico nell’amministrazione degli organi e della vita del partito rivoluzionario che Bordiga non ha mai definito teoricamente e mai praticato nell’ambito della sua attività di militante.

Ne consegue che al posto dei Comitati Centrali eletti dai Congressi secondo il metodo del centralismo democratico possono venir fuori, ad esempio, Commissari permanenti che fanno e disfano secondo criteri lasciati in eredità dallo stalinismo.

Va riconosciuto, tuttavia, che è facile rintracciare in molti scritti, come in molti atteggiamenti personali di Bordiga, intuizioni e originalità più o meno geniali e polemiche a cui non ha fatto seguito un adeguato lavoro di sistemazione teorica e di approfondimento critico al vaglio dell’esperienza accumulata dal movimento operaio in un momento dato della sua lunga storia.

È questo il caso del “centralismo organico” che qualche epigono di dubbio marxismo penserà a distorcere sul piano di un aberrante soggettivismo, come in pratica si è già verificato, e con danni inferti all’organizzazione e alla giusta linea indicata dall’esperienza leninista, non sempre rimediabili.

Dobbiamo a Bordiga il rovesciamento di una politica tradizionale del partito socialista in cui il programma minimo, quello della tattica contingente, era tutto il programma massimo, quello della strategia era nullo perché ridotto a semplice e convenzionale enunciato di una ipotetica, evanescente conquista del potere da parte della classe lavoratrice che sarebbe avvenuta per legge di evoluzione (la teoria cara ai riformisti della “pera matura che cade da sé”). Come ogni rovesciamento assumeva anche questo in Bordiga i termini a volte paradossali di una negazione assoluta o di una affermazione altrettanto assoluta; spariva nei suoi scritti il termine “tattica” per essere sostituito in quello di “strategia”. E dava l’impressione di ridurre così la dialettica nei due termini fissi della contraddizione, ma in realtà era, per l’autore, l’unico modo, anche se drastico, di rompere una tradizione di pensiero e di pratica politica, quella riformista, per porre l’accento sulla strategia che dialetticamente ha in sé e supera il dato del momento tattico sempre limitato e provvisorio, in una visione più ampia e più vera del momento strategico.

Togliamo dalla esperienza personalmente vissuta due episodi che sono illuminanti e particolarmente significativi a questo proposito, come, cioè, il momento tattico diventa dialetticamente valido nel quadro di una strategia di classe; si tratta della indicazione indirettamente data da Bordiga, da poco defenestrato dalla direzione del partito di Livorno, al nuovo centro Gramsci-Togliatti circa la linea tattica da condurre nell’aula del parlamento e non fuori di essa nella situazione di profondo smarrimento provocato dall’assassinio di Matteotti: niente questione morale, consigliava; niente secessionismo parlamentare tipo Aventino, dietro e a fianco dei partiti della democrazia nella illusione di combattere il fascismo in nome della morale borghese offesa dal feroce assassinio, o in nome della difesa dell’istituto parlamentare garante della vera democrazia, o, persino, in nome della difesa dell’istituto regio e delle prerogative della monarchia sabauda. Questa linea di condotta che fu seguita, poi, dal centro del partito di malavoglia, a rilento e a zig-zag, come è risaputo, fu consigliata ed elaborata in casa di Bordiga ed espressa nel discorso che Grieco lesse alla camera, proprio quel Grieco fino allora discepolo prediletto di Amadeo e di lì a qualche mese nemico “irriducibile” di Bordiga e della “sinistra italiana”.

Il significato più profondo di questa indicazione è che l’antifascismo tattico del centro del partito, ligio alla politica dello Stato russo, doveva concludersi con lo schieramento del partito sul fronte della guerra imperialista e con la sua giustificazione teorica distorcendo in modo infame e quanto mai pacchiano la teoria di Lenin sull’imperialismo e sul compito del partito rivoluzionario di avversare la guerra mirando alla sua trasformazione in guerra di classe; ideologia e compito che solo la sinistra comunista ha difeso allora e continua a difendere oggi.

La seconda esperienza tattica, intesa come momento di un obiettivo strategico, si situa nel cuore della crisi interna del nostro partito che rappresentava sul suo nascere, come lo rappresenta oggi, non un tentativo di polemica rivolta dall’esterno al P.C.I. per raddrizzarne lo sviamento ideologico e l’opportunismo della sua linea politica, ma l’ergersi della “sinistra italiana” a partito della rivoluzione nel momento che questo era obiettivamente venuto a mancare. Il dissenso verteva soprattutto sul come considerare l’organizzazione sindacale e di fabbrica che noi ritenevamo indispensabile al partito della rivoluzione che si richiamava non soltanto alla classe, ma alla necessità di una crescita dei quadri del partito adeguati ai suoi compiti fondamentali e che altri ritenevano come prassi socialdemocratica di sinistra da respingere dalla politica del partito.

Bordiga, che non era iscritto al partito, ma che ai partito portò il contributo di una seria collaborazione teorica (mai di milizia attiva) ritenne di doversi inserire nel dibattito sostenendo la tesi che tra partito e classe sono necessari organismi intermedi (le organizzazioni sindacali) la famosa cinghia di trasmissione senza la quale il partito verrebbe a mancare dello strumento per il contatto diretto con le masse che il sindacato inquadra e conduce alle lotte rivendicative, ciò che non rientra nei compiti specifici del partito rivoluzionario. Ma è soprattutto per la esistenza di questi organismi intermedi tra partito e classe che si crea la condizione prima e permanente perché il partito possa attingere dal seno delle masse lavoratrici e dalle loro lotte la condizione del suo esistere, la validità della sua dottrina, la possibilità del suo concrescere con la classe nel suo complesso e apprestare gli strumenti e il materiale umano per servirsi delle lotte contingenti e del loro ingrandirsi e approfondirsi per elevare il particolare e il contingente all’universale della classe che è quanto dire allargare e approfondire le possibilità oggettive e di sovrastruttura della crescita rivoluzionaria.

Questo intervento ebbe allora scarsa eco tra quei compagni che ripugnavano all’azione sindacale con l’animosità propria dei neofiti: a rottura avvenuta dell’organizzazione internazionalista si è poi determinato quel voltafaccia che tutti conosciamo senza una giustificazione critica che un ribaltamento del genere avrebbe dovuto correttamente comportare.

Abbiamo creduto opportuno ricavare questi due episodi di profonda sensibilità e aderenza con cui Bordiga, e con lui la “sinistra italiana”, ha affrontato e risolto il difficile problema della tattica rivoluzionaria e in sede di teoria e in sede di applicazione pratica sfatando così la leggenda, se ancora ce ne fosse bisogno, di un Bordiga e di una sinistra incapaci di sentire i problemi della tattica. Ciò che di vero è in questa accusa, cara ai Gramsci e ai Togliatti all’epoca del loro faticoso e oscuro arrembaggio alla direzione del Partito Comunista d’Italia (1923) in sostituzione della sinistra, avvenuta, va ripetuto, non per decisione della base del partito, nella stragrande maggioranza di sinistra, ma per decisione della nuova politica russa alla quale il Centro della III Internazionale si adeguava in ogni aspetto della sua politica, anche intromettendosi nei fatti interni dei partiti delle singole sezioni appartenenti all’Internazionale, è che la sinistra è sempre stata ed è apertamente e decisamente contraria alla tattica a sé stante, staccata cioè dalla linea di una strategia di classe; apertamente e decisamente contraria a quella tattica contingente e piena di concretezza del reale che, a cominciare da Gramsci e da Togliatti, ha fatto del Partito Comunista d’Italia il partito del compromesso sistematico e della politica di piccolo cabotaggio, il partito della via italiana e pacifica al socialismo.

Abbiamo esaminato fin qui brevemente ma con senso di obiettività quanto di Bordiga, militante rivoluzionario, è passato nel corpo di dottrina e di insegnamenti scaturiti da una esperienza che copre un arco di lotta tra le più roventi della storia del movimento rivoluzionario e che costituisce patrimonio indubbio della sinistra italiana e quindi del partito rivoluzionario. Verremmo però meno al nostro dovere di militanti di un partito rivoluzionario se non fossimo altrettanto obiettivi nell’esaminare i limiti del suo pensiero e della sua personalità sottacendo, per ragioni di sentimento o di supposta opportunità politica, quanto di contraddittorio e di inconseguente nell’opera e negli atteggiamenti di questo nostro compagno riteniamo non si sia svolto sulla linea di questa tradizione.

È mancata a Bordiga una giusta valutazione della dialettica per quel fondo della sua educazione basata prevalentemente sul dato scientifico che lo portava a vedere il mondo e la vita su di un piano di sviluppo razionale quando la realtà della vita sociale e della lotta rivoluzionaria lo ha messo spesso davanti ad un mondo che obbedisce in buona parte a spinte di irrazionalità. La metodologia basata sul dato matematico proprio della scienza non sempre combacia con la metodologia basata sulla dialettica che è movimento e contraddizione e questo, sull’esame della politica rivoluzionaria e delle sue prospettive, non è di poco conto. Nel quadro di una sottovalutazione del metodo di analisi basato sulla dialettica marxisticamente intesa, vanno ricercate le ragioni della inutilità del Congresso di Bologna (1919) ai fini di una fondamentale chiarezza delle realtà e delle immediate prospettive per ciò che concerneva il partito socialista, praticamente finito come partito della rivoluzione se pur vivo e vegeto come partito parlamentare e la necessità di operare in quel congresso la formazione di un nuovo partito o attraverso una scissione delle forze protese all’atto rivoluzionario o attraverso il coagulo di tutte le forze della sinistra rivoluzionaria in un partito nuovo nelle strutture del vecchio in attesa del momento giusto per operare il taglio. Era questa la condizione sufficiente e necessaria per dar vita al partito comunista ideologicamente e organizzativamente maturo per assumere il ruolo di sprone e di guida del proletariato, mentre ancora la situazione era aperta alla soluzione rivoluzionaria; a Livorno (1921) la situazione era già cambiata e le forze del proletariato erano di fatto in ritirata sotto l’incalzare della reazione fascista. Lo stesso Bordiga cui incombeva la maggiore responsabilità dell’indirizzo teorico-politico della sinistra astensionista non aveva capito che a Bologna, e non dopo, doveva essere dato il via alla costruzione del Partito Comunista e che un tale evento storico imponeva una piattaforma che non avesse come sua componente essenziale un espediente tattico quale era l’astensionismo ma una piattaforma non dissimile da quella del partito di Lenin, che fosse centro di attrazione e di raccolta di tutte le forze di sinistra disposte a battersi per la rivoluzione proletaria nella quale anche l’astensionismo avrebbe potuto giocare un ruolo non secondario, anche se non preminente, come antidoto salutare al dilagare dell’elezionismo più deteriore.

Una corretta interpretazione dialettica non pone come termini di contraddizione fondamentale, come nel caso in esame, elezionismo e astensionismo, ma le ragioni storiche di una classe nel suo complesso soggetta economicamente e politicamente, il proletariato, e la classe opposta che l’assoggetta, il capitalismo.

Fin qui la vicenda umana e politica di Bordiga conclusasi praticamente con la defenestrazione della sinistra dagli organi direttivi del partito e per conseguenza, la fine obbligata della direzione Bordiga. Ma è soprattutto la coscienza del crollo della III Internazionale come centro di direzione rivoluzionaria che ha operato in Bordiga quel trauma psico-politico che lo accompagnerà per oltre un quarantennio fino alla sua morte: un complesso di inferiorità che lo porterà ad avere paura di metter fuori la testa dalle macerie di quella enorme organizzazione internazionale che era crollata improvvisamente sulla testa di coloro che avevano creduto nella sua continuità e nella sua forza come ad una certezza che aveva più del mistico che dello scientifico.

In questo particolare clima va considerata la sua condotta politica, il rifiuto costante ad assumere politicamente un atteggiamento che potesse qualificarlo responsabilmente. Si sono così susseguiti avvenimenti politici, a volte di importanza storica, che sono passati accanto a questa sdegnosa estraneità, senza eco alcuna: il conflitto Trotsky-Stalin; lo stalinismo; la nostra frazione che all’estero, in Francia e Belgio, continuava storicamente la ideologia e la politica del partito di Livorno; la Seconda Guerra Mondiale e, infine, lo schieramento della Russia sul fronte della guerra dell’imperialismo. Né una parola, né un rigo proprio nello stesso spazio storico, su un piano più allargato e complesso di quello della Prima Guerra Mondiale che aveva offerto a Lenin i dati obiettivi per una analisi marxista condensata in “Imperialismo come fase suprema del capitalismo” e in “Stato e Rivoluzione”, pilastri della dottrina rivoluzionaria e presupposto teorico della rivoluzione d’Ottobre.

Bisogna attendere la fine della guerra e con essa la fine della esperienza fascista per allacciare veri e propri contatti con i compagni e i quadri rimasti dell’organizzazione, primo fra tutti quello con Bordiga, per consentirci di conoscere quale fosse il suo pensiero sui maggiori problemi e che cosa intendesse fare come militante comunista: non si trattava di chiedere a Bordiga l’assunzione di responsabilità al centro del partito anche se completo e costante era il suo apporto come consigliere e collaboratore “anonimo” del partito quando non si faceva ispiratore di un indirizzo di politica generale non sempre coincidente con quella del partito. Il suo discorso divergeva dal nostro anche se, grosso modo, il metodo di analisi fosse quello di sempre. Sosteneva che non si dovesse parlare dell’economia russa in termini di “Capitalismo di Stato” ma di “Industrialismo di Stato”, non di rivoluzione socialista, quella di Ottobre, ma di rivoluzione antifeudale e quindi di una economia che tendeva al capitalismo. Ma non sembrava molto convinto di quello che affermava e le rettifiche che ha dovuto apportare poco tempo dopo al suo pensiero ne sono la conferma. E allora quale è la ragione di una copertura ideologica così fragile e in così evi-dente contrasto col suo passato soprattutto con i punti cardini della piattaforma della “sinistra italiana” elaborati dallo stesso Bordiga? Non vogliamo entrare nelle pieghe di un dramma psicopolitico che ha come sua componente la paura, anche e soprattutto fisica, di una rottura con quel passato di esperienza nella quale egli aveva costruito con la sua coscienza, prima ancora che con la sua intelligenza e creatività, il capolavoro della sua vita politica degli anni 1920 così intensamente vissuta. Il “Capitalismo di Stato” portava il segno di una significazione di classe; l’“industrialismo di Stato” no, lasciava le cose come stavano o come sì desiderava che stessero.

Riteniamo perciò che sia positivo essere stati costretti a ritornare ora su questi argomenti con una esperienza più matura ed avvertita in confronto a quella che si poteva avere intorno agli anni 1940.

E una tardiva e non convinta giustificazione alla teoria sull’“industrialismo di Stato” è riapparsa poi buttata lì, quasi per incidens, sul N. 3, febbraio 1966, di “Programma Comunista” per mano dello stesso autore; trascriviamo dall’articolo “Il nuovo statuto delle aziende di Stato in Russia”:

Primo rilievo: l’affermazione dell’azienda statale come “anello principale”, implica l’esistenza di aziende non statali, e per conseguenza di attività “private” nel senso volgare del termine, e riconferma un nostro vecchio assunto circa il “Capitalismo di Stato” in Russia, nel quale riconoscevamo piuttosto un “industrialismo di Stato”. Esistono altri “anelli”, altre aziende, nell’economia russa, che concorrono al processo economico.

La giustificazione che lo stesso autore ne dà, non solo conferma l’esattezza della nostra analisi di allora, ma mette in chiara evidenza come tale imprecisione relativa alla natura della economia sovietica fosse voluta e serviva a nascondere la volontà politica di respingere allora (dicevamo “allora” perché poi si è adeguata all’evidenza) ogni formulazione rigidamente di classe come quella del “Capitalismo di Stato” a cui si legava tutta l’impostazione teorico-politica, fatta propria fin dal suo sorgere, del Partito Comunista Internazionalista.

La giustificazione teorica che ci viene offerta rasenta i limiti della banalità se con essa si vuoi creare una nuova categoria economica inesistente tanto nella storia della economia capitalista come nella esperienza della prima fase dello Stato socialista.

Le fasi di sviluppo della economia capitalista così venivano precisate da Engels nel suo magistrale “Antidühring”.

Appropriazione dei grandi organismi di produzione e di traffico, prima da parte di società anonime, più tardi da parte di trusts e in ultimo da parte dello Stato. La borghesia dimostra di essere una classe superflua; tutte le sue funzioni sociali vengono ora compiute da impiegati stipendiati.

Non si tratta di terminologia, ma di giudizio politico di fondamentale importanza se si vuole orientare giustamente il partito rivoluzionario con una linea politica chiara e conseguente di fronte al più sconcertante problema del secondo dopoguerra. La constatazione che l’azienda statale come “anello” principale della economia nazionale implica l’esistenza di aziende non statali e per conseguenza di attività “private” è proprio d’ogni sviluppo ineguale del Capitalismo anche quando è pervenuto alla fase del suo massimo sviluppo, come è proprio della fase inferiore del socialismo che potenzia e supera il “suo” capitalismo di Stato nella dialettica propria dello Stato socialista di immettere gradualmente nella azienda statale i residui del capitalismo e precapitalismo che la rivoluzione ha inevitabilmente trascinato con sé nell’arco storico della costruzione di una società socialista.

Ed è questo il tipo di Capitalismo di Stato quale lo concepiva Lenin e che l’ulteriore potenziamento del settore socialista avrebbe dovuto superare e vincere nel quadro del potere rivoluzionario la cui maggiore garanzia era rappresentata dall’esercizio politico della dittatura del proletariato armato.

Ma la natura del Capitalismo di Stato che si è posta davanti all’esame del partito rivoluzionario nel cuore della seconda guerra mondiale e dell’immediato dopoguerra (è quanto è avvenuto al centro della nostra organizzazione e a cui questa nota si riferisce) era radicalmente diversa e aveva ben altri caratteri che vogliamo subito esaminare anche se forzatamente per sintesi:

  1. Il Capitalismo di Stato nel periodo di Stalin non tendeva al socialismo, ma a consolidare il potere del tradizionale capitalismo sulla forma dell’azienda statale, fortemente centralizzata, resa possibile dal passaggio della economia industriale privata nell’ambito dello Stato operato dalla Rivoluzione d’Ottobre.
  2. Il suo inserimento nella seconda guerra mondiale non ha avuto a sua giustificazione alcun elemento di natura socialista e ne ha avuto invece mille di natura borghese-capitalista con evidenti implicazioni imperialiste, come l’incontro di Yalta, poi, dimostrerà per aver posto la Russia tra i maggiori beneficiari nella spartizione del bottino di guerra. La stessa spregiudicata elasticità tattica che vede la Russia prima in combutta con Hitler (come se con i battaglioni di Hitler si potesse pervenire al socialismo) per la spartizione della Polonia e, quindi, dopo una giravolta di 180 gradi, a fianco delle democrazie occidentali (come se il socialismo potesse esser meta comune delle maggiori plutocrazie mondiali).
  3. L’economia sovietica è rimasta, nelle sue strutture portanti, tale e quale era all’epoca di Stalin. La liberalizzazione di Kruscev più ipotizzata che realizzata, e la natura antidemagogica dei tecnocrati, non hanno, nel loro complesso, portato modificazioni di rilievo o del tutto settoriali pur rappresentando momenti interessanti di un susseguirsi di crisi di sovrastruttura negli apparati politici, economici e militari come l’esperienza di questi ultimi decenni ha abbondantemente dimostrato.
  4. Bisognava tracciare una netta distinzione di classe tra il tempo che potremmo definire di Lenin e quello che ha avuto inizio con Stalin e che continua senza profonde e sostanziali modificazioni con i suoi successori.

Il tempo di Lenin, dalla rivoluzione di Ottobre agli esordi della nuova politica economica (Nep), è caratterizzato dallo Stato operaio che, basato sui Soviet attraverso il partito comunista tuttuno con le forze armate del proletariato, esercita la propria dittatura, anche se in mezzo ad ostacoli e difficoltà d’ogni genere provocati dal temporaneo arresto della spinta offensiva delle forze del proletariato internazionale e della possibilità immediata di una concreta proliferazione rivoluzionaria tra i paesi europei; mantiene la rotta verso gli obiettivi della realizzazione socialista avvalendosi della tattica delle concessioni all’avversario di classe come di un momento tattico indispensabile nella visione strategica di un ritorno offensivo rivoluzionario. Il Capitalismo di Stato, in questo quadro di insieme del tempo di Lenin, risponde al rischio calcolato di un voluto, temporaneo disciogliersi di necessità obiettive di una economia di mercato che, per quanto localizzata e sempre irta di pericoli, lo Stato della dittatura controlla e nella quale il gioco della domanda e dell’offerta, la funzione del capitale, lo stesso profitto e la utilizzazione del plus-valore, sono episodi marginali regolati nell’interesse generale della stessa economia socialista.

Sulla base di queste ragioni, di importanza fondamentale, acquisite dall’avanguardia rivoluzionaria fin dall’inizio del processo degenerativo e che sono state alla base della sua battaglia fatta di aperta denuncia e di conseguente distinzione organizzativa e politica, si è articolata l’opera della frazione di sinistra prima e del partito poi, che in obbedienza ad un netto carattere distintivo anche nel suo definirsi come partito si è rifatto ai motivi del comunismo rivoluzionario e dell’internazionalismo.

Non ci nascondiamo che all’interno di questi problemi, cui abbiamo accennato, si articola e si sviluppa una linea di coerenza politica che deve apparire per quella che è e non sopporta né di essere sottaciuta, né di essere sfigurata da arbitrarie sovrapposizioni mistificatorie. È stata questa ed è tuttora la nostra battaglia più bella anche se più ingrata. Ad ognuno il suo ed a Bordiga va riconosciuto una consequenzialità d’atteggiamento che ha inizio con l’ostruzionismo del silenzio alle sedute del Comitato Centrale dopo il Congresso di Lione (1926) e trova il suo approdo naturale nella lettera-testamento diretta, non a caso, a Terracini.

Questa nostra messa a punto può sembrare, sul piano del sentimento, amara e forse inumana, ma ci riportiamo al valore che i marxisti danno al ruolo degli uomini nelle vicende della storia e siamo certi d’aver interpretato il significato profondo dello stesso insegnamento di Bordiga che vuole che l’interesse dell’azione rivoluzionaria sia al di sopra di ogni sottoprodotto ideologico-politico, non escluso quello del bordighismo deteriore.


 

Cinque lettere e un profilo del dissenso - Premessa



Non si può togliere nessuna premessa fondamentale, nessuna parte essenziale a questa filosofia del marxismo fusa in acciaio, tutta d’un pezzo, senza allontanarsi dalla verità oggettiva, senza cadere nella reazionaria menzogna borghese.

Lenin — Materialismo ed empiriocriticismo

Al punto in cui è giunta la discussione scaturita dal dissenso sorto nella nostra organizzazione per il diverso modo di considerare, dal punto di vista del marxismo, alcuni problemi inerenti alla fase attuale della crisi del capitalismo, la pubblicazione di queste cinque lettere, cui va attribuito il merito d’aver iniziato questa necessaria messa a punto teorica, è quanto mai opportuna e necessaria.

Non ha alcun valore che il cortese scontro polemico sia avvenuto per lettera tra Alfa e Onorio piuttosto che tra x ed y; ciò che conta in queste circostanze è la preoccupazione teorica che lo anima, la convinzione propria delle parti in contrasto di sentirsi egualmente interpreti fedeli della stessa dottrina. Quel che è certo, comunque, è che, pubblicando questi scritti, non sveliamo alcun segreto epistolare, non tentiamo alcuna speculazione polemica, ma partiamo dalla convinzione, convinzione del resto che non dovrebbe essere soltanto nostra, che ciò che un rivoluzionario pensa e scrive nello sforzo di chiarire a se stesso, di interpretare e approfondire ì problemi della lotta rivoluzionaria cessa d’essere manifestazione singola e diviene patrimonio comune della classe alla quale appartiene.

È assurdo pensare che ciò che uno di noi scrive ed afferma intorno a questi argomenti in privato e ad uso personale, sia da ritenere valido ed impegnativo solo in questa, sede e cessi d’essere tale se esposto e sottoposto a critica esterna, collettiva, di partito. Soprattutto quando queste enunciazioni ed elaborazioni teoriche investono problemi di tattica e di strategia a cui si lega attualmente e in un avvenire assai prossimo la stessa ragione di esistenza del partito rivoluzionario.

Dalla lettura di queste lettere apparirà chiaro che alla base del dissenso sta, come sempre, una diversa valutazione della dialettica marxista, un diverso modo di aderire a questa dottrina. In realtà i dissensi sulla interpretazione del materialismo storico sono vecchi quanto il marxismo e sembra quasi che particolare vitalità gli provenga proprio da questo dissidio che accompagna l’apparire di ogni nuova generazione di rivoluzionari.

Esiste oggi il pericolo di vedere il nostro partito sradicato dal suo terreno di classe, dalla sua ideologia e dai suoi compiti storici per una falsa applicazione della teoria rivoluzionaria? Rispondiamo senza esitazione: Sì, perché soltanto oggi la vastità e l’acutezza della crisi del inondo borghese mette alla prova ideologie, programmi politici, partiti e singoli combattenti e fa risaltare nella sua vera luce tanto gli aspetti giusti come quelli deleteri d’ogni corpo di dottrina e d’ogni formulazione teorica. Per l’incalzare degli avvenimenti e per la loro stessa linearità ciò che ieri sembrava secondario, marginale, accessorio e poteva trascurarsi e passare come atteggiamento di pensiero tutto personale, snobismo cerebrale, tendenza innocua e dilettosa insieme al paradosso, ora è spinto sul piano, si precisa, si sostanzia quasi ed è dialetticamente costretto a mostrarsi per quel che è e per quel che criticamente vale.

Il partito proletario ora fa suo e assimila, ora respinge da sè perché estraneo alla sua natura di classe quest’apporto teorico attraverso il vaglio dell’azione che è una continua messa a confronto della teoria con l’esperienza passata e con l’interesse che ne può trarre e sia questo non soltanto fugace e contingente e mai in contrasto con i suoi compiti finali.


Rovesciamento della prassi



Prendiamo in esame lo schema di Alfa che esprime il suo modo di concepire la dialettica.

Curva discendente o rami di curva ascendente? Non accettabile la prima formulazione se ad essa fosse attribuito un gradualismo escludente “sbalzi, scosse o salti”; non accettabile la seconda dei “rami di curve sempre ascendenti” se a questo reale ascendente del mondo delle cose economiche non si facesse corrispondere anche un ascendere e un potenziare delle contraddizioni che è nel contempo anche un obiettivo “decadere”.

In che cosa allora il capitalismo sarebbe “moribondo” per noi che lo abbiamo appreso da Lenin?

In complesso, nella fase dell’imperialismo cresce assai più rapidamente di prima, senonchè tale incremento non solo diviene in generale più difforme, ma tale mancanza di uniformità si manifesta particolarmente nel ristagno dei paesi capitalisticamente più forti (Inghilterra).

Lenin, L’imperialismo

Il grafico esprimente “i rami di curve ascendenti” non indica in nessun modo la contraddizione dialettica per la quale

attraverso il suo stesso progresso, il capitale prepara doppiamente il proprio crollo finale… Il progresso economico del capitale esaspera nel mondo, man mano che ingigantisce, gli antagonismi di classe e l’anarchia economica e politica a un punto tale che provocherà, contro la sua dominazione, la ribellione del proletariato internazionale molto tempo prima che l’evoluzione economica abbia raggiunto la sua ultima conseguenza: il potere assoluto ed esclusivo della produzione capitalistica nel inondo.

Rosa Luxembourg, Accumulazione del Capitale

Vero è che l’imperialismo potenzia e ingigantisce i mezzi per prolungare l’esistenza del capitale ma costituisce nel contempo il mezzo più sicuro per abbreviarla. Questo lo schema delle curve sempre ascendenti non solo non lo dimostra, ma in un certo senso lo nega. È su questa falsa interpretazione del problema dialettico che si basa la teoria della inutilità della creazione del partito in una fase controrivoluzionaria come l’attuale; della sua riduzione, quando altri l’hanno costruito, nella sua struttura, nei suoi compiti e nella sua azione; di limitare la funzione della stampa ad un riordinamento teorico che rimastica il passato, non illuminante perciò il presente di una avanguardia rivoluzionaria saldamente innestata nel vivo dei problemi del proletariato e della loro traduzione sul piano della continuità storica della lotta rivoluzionaria.

Da questo modo dì sentire la dottrina rivoluzionaria è nata la più recente novità… dialettica di accettare un minimo di interessamento dell’azione pratica del partito se giustificata da un adeguato rapporto quantitativo, per cui, ad es., una partecipazione del partito alla battaglia elettorale sarebbe sempre possibile anche per certo astensionismo, se esistessero le possibilità obiettive di una decente affermazione quantitativa. È significativo a questo proposito il gioco capriolesco del teorico dell’astensionismo. Si è battuto sul terreno del più rigido astensionismo aprioristico e assoluto sino al convegno di Imola, nel quale accetta di abbandonare “obtorto collo” questa sola nota caratteristica dell’opposizione napoletana,. accetta a Livorno l’elezione tout court fino al congresso di Roma; ritorna poi astensionista quando le forze politiche del Partito sono di fatto disperse e con esse la direzione di sinistra del Partito, ed oggi è astensionista forse che sì forse che no, ed elezionista forse che si forse che no quando accetta di riconsiderare questa partecipazione se preventivamente risultasse acquisita la certezza di una affermazione numerica.

Sempre entro questa cornice di interpretazione… marxista, risulta

priva di senso la pretesa analisi secondo cui vi sono tutte le condizioni rivoluzionarie ma manca una direzione rivoluzionaria. È esatto dire che l’organo di direzione è indispensabile, ma il suo sorgere dipende dalle stesse condizioni generali di lotta, mai dalla genialità o dal valore di un capo o di una avanguardia.

Questo vorrebbe essere l’argomento cardine a riprova della validità teorica di quel tale schema relativo al rovesciamento della prassi per il quale “mentre il determinismo esclude per il singolo possibilità di volontà e coscienza, premesse all’azione, il rovesciamento della praxis le ammette unicamente nel Partito come risultato di una generale elaborazione storica”.

Nello schema prevale il senso geometrico a danno del senso pratico, un determinismo di “cose” senza un nesso con l’attività degli uomini per cui è matematicamente certo che se sulla scena politica fa difetto una direzione rivoluzionaria è perché mancano le condizioni rivoluzionarie; viceversa, se queste condizioni esistono realmente, una direzione rivoluzionaria non può mancare. Un argomentare come questo sta alla dialettica di Marx come… la politica ufficiale della Chiesa cattolica .sta al credo evangelico della predicazione di Cristo.

Vediamo di precisare il nostro pensiero in proposito.

I termini del noto schema vanno “storicizzati” nel senso che nel “prius” deterministico non giocano soltanto le spinte individuali prodotte dagli stimoli e appetiti economici, ma stimoli ed appetiti vanno intesi nel senso del loro muoversi e del loro modificarsi con tutto il processo della economia capitalistica, del grado di sviluppo dei suoi mezzi produttivi, del loro affinamento tecnico, delle variazioni del mercato, delle sue crisi ricorrenti, del crescente dominio del capitale finanziario, etc. etc.

Il formarsi e il modificarsi della coscienza umana, il suo trasformarsi in volontà e in azione, è il riflesso sul piano della vita sociale e politica di quanto avviene nel sottosuolo dell’economia in un nesso fra fattori determinanti e mondo determinato della sovrastruttura, che a sua volta compie l’azione di ritorno sulla base come elemento indispensabile al compimento di qualsiasi accadimento della storia. Non c’è schema geometrico, né calcolo aritmetico che possa chiudere questo nesso tra il mondo che determina e quello determinato in una formula sempre vera e sempre valida quale che sia la spinta proveniente dal sottosuolo dell’economia e quali che siano gli accadimenti della sovrastruttura.

Nel caso nostro, non sempre a date condizioni obiettive della crisi capitalistica corrisponde un adeguato e tempestivo condensarsi della coscienza rivoluzionaria e della volontà d’azione. La crisi del primo dopoguerra in Germania e in Italia ha dato la tragica dimostrazione di un proletariato istintivamente portato alla comprensione della necessità della lotta per il potere a cui è venuto a mancare la direzione rivoluzionaria. La storia delle lotte operaie è piena di esempi di situazioni favorevoli di fronte alle quali il proletariato perde ogni volta l’autobus della rivoluzione per la presenza di un Partito inadeguato al suo compito di guida.

Qui sta il punto focale, non solo della interpretazione dialettica, ma anche della natura e funzione del Partito di classe.

Il sorgere del Partito non dipende, d’accordo, “dalla genialità o dal valore di un capo o di una avanguardia”; ma è la esistenza storica del proletariato come classe che pone la necessità della esistenza, non episodica nel tempo e nello spazio, del suo Partito. Il proletariato tornerebbe al rango di plebe se perdesse le sue caratteristiche di classe antagonista al capitalismo; e le sue possibilità di classe sfruttata, che lotta per la sua difesa e liberazione, verrebbero frustrate e rese nulle se dal suo seno e dalla sua lotta non si originassero i motivi e le forze fisiche di una direzione rivoluzionaria.

Ma quali in realtà i rapporti tra Partito e classe? Va combattuto come estraneo al marxismo lo schema che nega l’esistenza del Partito nella fase della controrivoluzione e affida ad una avanguardia ristretta di rivoluzionari immalinconiti il compito di studio; che prevede il sorgere del Partito al fuoco dell’assalto rivoluzionario e dà al Partito e soltanto ad esso la funzione di soggetto nel rovesciamento della prassi. Non si sa per quanto tempo e per quale virtù magica il corpo (costituito dalla classe) dovrebbe rimanere senza la testa (il Partito della classe).

Nello schema, data l’errata concezione della natura e della funzione del Partito, si puntualizza una concezione del tutto catastrofica con l’apparire improvviso, in una fase X della crisi del capitalismo, del Partito uscito chi sa come dalla niente di Giove, per risolvere da solo il miracolo del rovesciamento della prassi. Si distacca così dal complesso della classe e dal suo sviluppo genetico il Partito verso il quale singoli lavoratori e classe lavoratrice indirizzerebbero stimoli, coscienza e volontà, accumulazione di quel necessario potenziale rivoluzionario senza il quale l’azione di ritorno alla base della determinazione non sarebbe possibile, come non sarebbe possibile una realizzazione rivoluzionaria della classe così distaccata dal Partito.

Tutto ciò spezza il processo dialettico che il marxismo storicamente attribuisce alla classe in quanto antitesi storica della borghesia; antitesi di classe e non di Partito, perché le contraddizioni sono di classe a classe e non di partito a partito, perché infine la forza di eversione dialettica è la classe e non il Partito. Il Partito sensibilizza e potenzia, rende cosciente e guida all’azione rivoluzionaria. In questo senso il Partito è parte della classe nella classe, non fuori della classe e distinto da questa. Il rovesciamento dialettico è operato dalla classe nel suo insieme non dal Partito in funzione della classe; solo che non avverrebbe il passaggio dalla classe in sé nella classe per sé dove questa mancasse del suo centro nervoso di preparazione e di guida che è poi il Partito.

Nulla perciò avviene per automatismo indipendentemente dall’attività umana. Non esiste sviluppo della sovrastruttura (morale, giuridica, filosofica, letteraria, artistica, etc.) che non riposi sullo sviluppo economico.

Ma tutti (questi sviluppi) reagiscono congiuntamente e separatamente, l’uno sull’altro e sulla base economica.

Engels: Lettera del 1894

Si precisa così la questione dell’ “influenza in ritorno” delle sovrastrutture sulla base economica e sulle forze produttive della società, con l’affermazione che “tra le diverse serie di fenomeni sociali vi è un processo incessante d’azione reciproca”, la causa e l’effetto si sostituiscono l’uno all’altro.

La “teoria delle azioni reciproche” viene precisata e limitata magistralmente da Engels:

Sono gli uomini che fanno essi stessi la loro storia, ma in un ambiente dato che li condiziona (in einem gegebenen, sie bedingenden Milieu), sulla base di dati rapporti effettivi; tra questi ultimi i rapporti economici, qualunque sia l’influenza esercitata su di essi dagli altri rapporti d’ordine politico e ideologico, sono pertanto quelli la cui azione è in definitiva decisiva e che costituiscono il filo conduttore che permette di comprendere l’insieme del sistema.

Engels: Lettera del 1894

 

Dove incominciano a divergere queste due interpretazioni del materialismo storico e del metodo dialettico, lì ha inevitabilmente inizio il diverso modo di sentire i problemi del partito, di valutare i suoi compiti contingenti e permanenti, e quindi di concepire e realizzare la sua tattica e la sua strategia.

Chi ha la responsabilità di guida del partito rivoluzionario, e nel vederne i problemi parte da una interpretazione di automatismo economistico, state pur certi che rimarrà sempre in attesa che la rivoluzione bussi alla sua finestra per avvertirlo che è giunto il momento di costruire il partito di classe e di procedere alla insurrezione.

Non è assolutamente accettabile la teoria che conduce alla affermazione che non c’è niente da fare per il partito in questa fase della controrivoluzione e in logica coerenza formale è del parere che sia inutile e dannoso procedere alla formazione del partito o mantenerlo in vita e ciò fino a quando non ci troveremo di fronte ad un radicale rovesciamento degli attuali rapporti di forza tra le due classi storiche.

Sempre in coerenza formale con questa arbitraria ed aberrante interpretazione del marxismo di fronte ai problemi attuali dell’imperialismo e della guerra, si deraglia dalle fondamentali linee della valutazione di classe e dall’interesse rivoluzionario e si è giunti fino ad auspicare la vittoria delle forze borghesi che portano nel loro seno il domani del progresso capitalista, si è civettato e si civetta con le forme della dittatura solo per farla alle forme della democrazia, mentre si fa finta di ignorare o di dimenticare che Lenin, con i pochi e dispersi nuclei del partito bolscevico, ha innestato proprio nel cuore della guerra e dopo l’immane crollo della II Internazionale la possibilità anche fisica della ripresa e della vittoria rivoluzionaria.

Posti di fronte all’alternativa di rimanere quelli che siamo sempre stati o piegare la nostra milizia ad un atteggiamento di avversione platonica e intellettualistica al capitalismo americano e di benevola neutralità di fronte al capitalismo russo sol perché non ancora capitalisticamente maturo, noi non abbiamo esitato a riaffermare la posizione classista dei comunisti internazionalisti assunta di fronte a tutti i protagonisti del secondo conflitto imperialista per auspicare non la vittoria di uno qualsiasi dei contendenti, ma per volere la soluzione rivoluzionaria della crisi capitalistica.

Posti di fronte all’alternativa di salvare ad ogni costo il partito o accettare una direzione di uomini con idee e metodi che ci riporterebbero a ripetere di fronte alla terza guerra mondiale una posizione di nullismo politico, di abbandono del posto di lotta e di liquidazione d’ogni forma d’organizzazione, come è avvenuto alla vigilia della seconda guerra mondiale, noi non abbiamo esitato a reagire a questo rinnovato, subdolo tentativo e a preservare il partito alla funzione che gli interessi del proletariato e della sua lotta rivoluzionaria gli hanno assegnato.

A questo conduce e doveva condurre il contrasto teorico che abbiamo voluto qui precisare anche in sede dottrinaria, che non è soltanto d’ordine teorico, ma che per essere tale è nel contempo contrasto d’ordine politico di tattica e di strategia non più operanti verso lo stesso obiettivo di classe, sulla linea della rivoluzione proletaria.


Onorio ad Alfa - 6 luglio 1951



Ho esaminato il tuo documento redatto sulla traccia dei tuoi motivi di assalto contro certe posizioni teoriche e politiche prevalenti in alcuni gruppi internazionali provenienti quasi tutti dal trotskismo, e ti dico subito che sotto certi aspetti ho preferito allo scritto la tua esposizione orale di Roma per una maggiore acutezza di analisi e forse anche per una maggiore compiutezza.

Ti riassumo qualche mia osservazione affrettata.

Nel capoverso 5 dei capisaldi di orientamento affermi che in Russia l’economia tende al capitalismo e ne dai la ragione a pag. 8 dove scrivi che

il carattere monetario, mercantile, redditiero e titolaristico del tessuto economico russo predominante, per nulla inficiato dalle statizzazioni di grandi industrie, servizi, ecc…

Non mi pare che tu contribuisca con ciò a precisare l’idea di una economia sovietica a struttura di capitalismo di Stato in un mondo economico nella fase più acuta del suo sviluppo monopolistico.

La tendenza a un sempre maggior intervento dello Stato, che è caratteristica di questa fase dell’economia nei paesi industrialmente più progrediti, trova nella economia sovietica la sua manifestazione più organica, più definita e completa. Sulla generale linea di sviluppo del capitalismo monopolistico la Russia ha potuto bruciare più d’una tappa, grazie alla Rivoluzione d’ottobre che ha consentito l’accentramento più assoluto dell’economia nell’ambito dello Stato, e grazie alla controrivoluzione stalinista che si è servita di questo enorme potenziale economico così accentrato per ingigantire il potere dello Stato e dare l’avvio all’esperienza estrema del capitalismo.

Il protagonista di questa fase della storia è dunque lo Stato la cui economia riproduce i modi e i caratteri, su scala forse allargata, propri della produzione e della distribuzione capitalistiche (salario, mercato, plusvalore, accumulazione, ecc.).

Quale la nuova classe che attraverso questo Stato esercita la propria dittatura? La strapotenza dello Stato sovietico non può non aver risolto in concreto il problema d’una sua classe dirigente omogenea e forte, per la coscienza che ha del proprio essere di classe e della funzione storica che è chiamata a compiere.

Non mi pare che quanto tu scrivi in proposito sia soddisfacente e porti elementi risolutivi tra gruppi internazionali così divisi e smarriti su questo problema della definizione della nuova classe dirigente sovietica. Non è storicamente possibile che il più accentrato e ferreo esercizio del potere che la storia ricordi possa essere demandato ad una

ibrida coalizione e fluida associazione tra interessi interni di classi piccolo-borghesi, medio-borghesi, intraprenditrici dissimulate, e quelli capitalistici internazionali, ecc..

Sempre nel capoverso 5 dei capisaldi di orientamento, al

trasporto delle forze di classe in tutti i paesi sul terreno dell’autonomia di fronte a tutti gli Stati

tu affidi il compito supremo di

infrangere il potere capitalistico nei paesi industriali più progrediti di occidente che sbarra la via alla rivoluzione.

C’è da domandarsi: proprio soltanto i paesi industriali più progrediti di occidente sbarrano la via alla rivoluzione?

Inoltre a pag. 3 sempre sullo stesso argomento scrivi:

Questo decorso confuso e sfavorevole della lotta proletaria, coincidente coll’aumento inarrestabile della industrializzazione capitalista altamente concentrata, sia come intensità nei paesi di origine che come dilagante diffusione in tutto il mondo abitato, viene a vantaggio dell’avanzata con cui la massima forza dell’imperialismo moderno, quella americana, tende, secondo la natura e la necessità di ogni grande concentramento metropolitano di capitale, di forza di produzione, di potere, ad assoggettare al suo sfruttamento e alla sua oppressione, brutalmente spezzando ostacoli territoriali e sociali, le masse di tutto il inondo.

C’è ancora da chiedersi: proprio soltanto la massima forza dell’imperialismo moderno, quella americana, tende ad assoggettare, ecc. le masse di tutto il mondo?

In un altro passo di un altro tuo scritto recente, che non ho però sotto gli occhi, parli di una Russia pacifista di fronte ad un’America bellicista.

Il motivo conduttore è poi sempre lo stesso; soltanto per un errore della diplomazia sovietica e per un falso calcolo dei suoi uomini politici venne applicata nell’ultima guerra quella tale strategia politica che è sboccata — lasciamo andare a quella vergognosa autoliquidazione dei relitti della grande Internazionale Comunista — (non erano già forse marci fin nelle ossa e legati anima e corpo all’imperialismo?) nel rafforzamento di un potere imperialista occidentale, che troppo tardi governo e stato maggiore russi riconoscevano più minaccioso di quello tedesco, agli stessi loro fini ormai di aperto carattere nazionale.

In una parola Mosca è vista come la centrale di una errata politica, antiproduttiva anche dal punto di vista del puro interesse nazionalistico, e non come la centrale d’un imperialismo alla pari con quello americano nel porre in funzione russa il problema del dominio del mondo.

La rivoluzione anticapitalistica del proletariato non esclude, voglio sperare, il regime sovietico e non si muove secondo i criteri di una graduatoria dei Paesi capitalistici da abbattere, ma colpisce l’avversario, quando e come può, là ove questi appare più debole; ha colpito ad es. nel 1917 il capitalismo internazionale nella Russia zarista non considerata certamente matura ai fini del socialismo in confronto all’Inghilterra, alla Germania ecc., e noi ne conosciamo bene le ragioni.

Per il resto accentuerei l’analisi critica consentita dalla constatazione che l’avversione allo stalinismo di ogni secessione parte più dalla spinta della difesa della personalità umana e della indipendenza nazionale che da una esigenza di classe e dalla preoccupazione di portare materiale vivo e operante alla ricostruzione del partito internazionale del proletariato.


Alfa ad Onorio - 9 luglio 1951



Ho certamente gradito il contributo delle osservazioni tue all’appello internazionale da me proposto, e ti rispondo subito sulle cose principali.

Prendo prima la tua osservazione relativa alla pag. 3. Domandi: proprio soltanto l’America tende ad assoggettare etc.? — Ma tu stesso hai riportato l’inciso mio; secondo la natura e la necessità di ogni grande concentramento metropolitano di capitale, di forza di produzione e di potere.

Dunque non solo l’America, ma ogni concentramento. Dove e quali nei successivi momenti storici tali concentramenti? Qui il punto. Portiamo in conto: territorio e sue risorse, popolazione, sviluppo della macchina industriale, numero del proletariato moderno, possessi coloniali come materie prime, riserve umane, mercati, continuità storica del potere statale, esito delle guerre recenti, progresso nel concentramento mondiale delle forze sia produttive che di armamento. Ed allora possiamo concludere che nel 1905 o 6 grandi potenze erano sullo stesso fronte o quasi, nel 1914 poniamo si fronteggiavano Inghilterra e Germania; oggi? Esaminati tutti quei fattori si vede che l’America è il concentramento n. 1 nel senso, oltre tutto il resto, ed oltre la probabilità di vincere in ulteriori conflitti, che sicuramente può intervenire ovunque una rivoluzione anticapitalista vincesse. In questo senso storico dico che oggi la rivoluzione, che non può che essere internazionale, perde il tempo se non fa fuori lo stato di Washington. Ciò significa che ne siamo ancora lontani? Okei.

Veniamo poi alla solita richiesta; analisi e definizione della odierna società russa. Ti sarà noto che penso che su tale punto si può e deve dire poco e con circospezione. È una elaborazione compiuta dal movimento in un lungo periodo, un dato nuovo della storia, il primo caso di rivoluzione che si rincartoccia in sé e sparisce; io do il contributo che posso e non credo che vi sia il sommo sacerdote che aperto il Talmùd al versetto così e così risponda così e così. Naturalmente ne dissi a Roma di più e ne andrò dicendo di più in “Prometeo”, a tempo. Tu paragoni due cose che stanno su diversi piani: veramente preoccupa un poco tanto difetto di comprensione in tutti, poi tutti, e non faccio caso personale, si sentono spinti e predisposti a compiti di guida. L’appello ha un valore delimitativo, in certo senso negativo (come tutte le decisive proporzioni del marxismo che sono se non proprio negative almeno “alternative”) serve a stabilire confini tra noi ed altri e tu lo dovresti chiamare “politico” con aggettivo che ti piace. Lo si legge in non molti minuti, a Roma, per varie ore, si trattarono problemi da un lato di analisi scientifica (direi ricerca, esame, analisi mi piace poco se pure è termine di moda) e poi dall’altro di prassi tattica. Per forza maggiore compiutezza e dettaglio insieme.

Vengo quindi alla Russia. Vorrei che quelli che collaborano a definire l’appello formulassero positivamente le varianti che propongono. La formula di fase monopolistica e capitalismo di Stato ti pare completa? t estremamente indeterminata. La si applica tanto al regime di Mussolini che a quello britannico odierno che a quello russo. Due vie diverse per arrivare a posizioni analoghe? Giusto, è un buon concetto di propaganda, ma per carità evitiamo le confusioni. In quello che dirò, non credere che io individui in quanto hai scritto gli errori che vado ad indicare; ma tu dovresti appunto proporre di dati argomenti una tua stesura; tu ed ogni altro che faccia osservazioni, lavoro che credo utile e che è ben diverso dal “materiale per tutta l’organizzazione” con relativi: fesso è lui, fesso è quell’altro.

Non è esatto che in una fase del capitalismo sia stata protagonista la borghesia classe e che nella attuale sia protagonista lo Stato. Classe e Stato sono cose e nozioni diverse e non possono passarsi la stecca. Anche prima vi era lo Stato e anche dopo vi è la classe. Lo Stato non è il protagonista dei fatti economici ma un derivato di essi; se non la politica sorge dall’economia ma l’economia dalla politica e dal maneggio del potere, muore la interpretazione marxista della storia (chi lo pensa lo dica chiaro!) e tornano in auge le vecchie teorie, nuovissime per i fessi, che la storia nasce dal desiderio di comando dei capi, e il desiderio di comando da quello di ricchezza.

Più o meno alla stessa fessata viene chi si domanda: nella prima fase i protagonisti del duello eran borghesia e proletariato, ora prendiamo la lanterna e andiamo alla ricerca del terzo… uomo. Una terza classe? non la si trova e allora si risponde: lo Stato, come se quello che cercava il terzo uomo dicesse: eccolo, è questo paio di pantaloni. Oppure si risponde: la burocrazia: ecco la nuova classe? Che diavolo vuol dire questo? Non so se tu avesti un mio scritto su questo: la burocrazia l’hanno avuta tutti i regimi di classe: essa non può essere “una classe”. In linguaggio nostro la burocrazia è una delle “forme della produzione” mentre le classi sono forze di produzione, successivamente nella storia.

Conoscerai tra i miei testi (utilissimo che di essi si facciano critiche e si sollevino obiezioni) quello in cui dico che il capitalismo di Stato significa non un assoggettamento del capitale allo Stato, ma un ulteriore assoggettamento dello Stato al capitale.

Capitale — capitalismo — classe capitalistica o borghese — Stato capitalistico o borghese. Non facciamo pasticci. Ordine storico per ordinare le teste.

Una volta vi era già del capitale, ma non ancora il resto.

Questo capitale cominciò a concentrare forze di produzione (materie, uomini, macchine) e vi fu il capitalismo, ma lo Stato non era ancora borghese.

Poi vi fu la classe borghese, unione di tutti quelli che nel nuovo sistema produttivo capitalistico erano in alto, nello Stato in basso.

Questa classe prese il potere perché il capitalismo aveva bisogno per il suo sviluppo di forme ben diverse da quelle antiche. Si ebbe il nuovo Stato, la nuova burocrazia e via.

Marx, a prendere o lasciare, indica questo “postcapitalismo” (altra fessa parola di moda): il proletariato prende il potere e attua il socialismo.

A ciò si oppone lo Stato borghese, e la classe borghese.

Che cosa precisamente è la classe? Un insieme di persone? Detto male. È invece una “rete di interessi”. Non ti è piaciuta la mia formula intreccio, incontro di interessi? Io vi vedo un saggio passo avanti mentre vedo poco nel gioco disordinato delle parole: capitale, Stato, burocrazia.

Quando le classi erano ancora caste e poi ordini coincidevano con gruppi fissi di persone (di famiglie). Dalla rivoluzione borghese, a dispetto del cardinale diritto ereditario, non è più così. Un pari di Francia non era nessuno oltre Manica. Un capitalista lo è ovunque.

Tutte queste elementari cose — di cui non ti descrivo come un avversario, meglio ripetertelo perché sei abbastanza angoloso — sboccano nella questione russa. Ammesso che non abbiamo dati (Marx poteva compulsare tutto il materiale del British Museum, fotografia fedele del capitalismo inglese, ma noi non possiamo stabilirci a Mosca ove troveremmo carte false) sulla definizione anagrafica della classe dominante russa, non facciamo un passo avanti colla famosa “burocrazia”. Io ho già fatto molto assumendo esistere uno strato di intraprenditori senza proprietà titolare dei mezzi di produzione e forti beneficiari di profitto. Ma la burocrazia può essere anche come nei nostri paesi, uno strumento di costoro e dei loro grossi affari, come uno strumento di affari oltre frontiera.

La burocrazia governa e sbafa per sé sola? Ma che vuol dire questo? Lo Stato personalizzato in una rete di funzionari, la classe-Stato? Ohibò.

A noi, Monsieur de la Palisse. In capitalismo di Stato non vi sono che burocrati nella popolazione: anche l’operaio di officina è uno statale. Lo Stato-padrone, vecchia formula anarcoide.

Comunque in un testo come quello che volevo fare non è il caso di dire di più sull’argomento economico russo.

Ma tu mi dici: perché tutta l’artiglieria puntata verso occidente? Qualcuno può credere che in Russia la rivoluzione non si debba fare.

Accetto il rilievo: va detto qualche cosa per evitare questo grosso equivoco. Per difficile che sia il dare le leggi del processo di rivoluzione riassorbita, va detto che il processo successivo altro non può essere che la nuova rivoluzione di classe.

Mai ho detto o scritto o pensato diversamente. Ma diamo anche qui, sia pure male e con grande fretta e ad usum Onorii non “di tutta l’organizzazione” un poco di chiarimento. Hai ragione che i testi si devono fare: sotto a farli, invece che a litigare.

Né tu né io abbiamo le chiavi e le leve per scatenare la rivoluzione a Washington o a Mosca, e possiamo scegliere quale scambio dare alla storia.

La rivoluzione può cominciare dovunque, come nel 1917. Bene. Ma fu un atto di volontà o un prodotto della storia? Quali le circostanze? Regime feudale, disfatta militare, rottura tra Stato e classe borghese etc. ben noto. Ed allora dicemmo: “la rivoluzione mondiale può cominciare dovunque”.

Bada che potresti essere lo stalinisteggiante proprio tu. È Stalin che dice: la rivoluzione proletaria russa nacque crebbe e vivrà qui essa sola.

La questione va quindi vista internazionalmente. Come nell’economia è internazionale quella “rete di interessi” che è il regime borghese, così in politica è internazionale la questione del potere. Nell’uno e nell’altro senso i caratteri si vanno precisando da un secolo ad oggi.

Ora il momento storico è questo: gli stalinisti impiantano tutta la propaganda sull’attacco all’America e sulla pace. Il proletariato li segue, è finora indiscutibile. Tu riconosci o almeno concedi che sia importante fare rilevare il pericolo di opporsi ad essi per considerazioni di liberalismo di persone o popoli, e non su base classista.

Si tratta non di limitarsi a tacciare di errori nel senso nazionale russo la politica stalinista, ma di far leva sull’anticlassismo della posizione: 1944: tutte le forze con l’America, scioglimento etc. — 1951 tutto contro l’America, per dire: avete tradito allora e, giustamente dici, da molto prima di allora.

È già molto audace (nella lotta contro la spietata diseducazione in cui concorrono occidente ed oriente) dire “politicamente”: fatevi indietro che l’America così non la fregate, la fregheremo noi classisti, sarà fregata solo dal proletariato mondiale su base classista autonoma anche da voi.

È inutilmente bluffistico dire: prima vi mettiamo alla pari, non uno un millimetro prima dell’altro, e poi col colpo nostro vi sbirilliamo giù tutti e due colla stessa palla.

La sinistra si deve difendere dalla sciocca accusa di non vedere la storia e biascicare tesi astratte: deve provare che sono gli altri a non aver vista la storia.

Fermo restando che dopo la fase delle liberazioni nazionali ogni alleanza è spietatamente condannata si deve porre la spiegazione del restare in piedi del capitalismo in relazione non alla scoperta di ricette come il protagonismo dello Stato nell’economia, ma ai rapporti imperiali dei più grandi apparati industriali, e alla persistenza, non invasione nel territorio, non sconfitta delle guerre, degli apparati di Stato (comitati di delega degli interessi capitalistici giusta Marx, sia o non sia lo Stato gestore di aziende e botteghe) più continui e persistenti storicamente.

Indubbiamente il concentramento di potere di Mosca è anche un ostacolo che sbarra la via alla rivoluzione e lo è non solo come capitale della corruzione proletaria ma pure come forza fisica. Va detto chiaro.

Ma ha di vita solo 34 anni. Il territorio e il popolo sono miscugli di economie e tipi sociali.

Giappone e Germania sono a terra. Francia e Italia hanno subìto scosse tremende. La stessa Inghilterra è in crisi grave.

Ecco come vengo al chiodo America. Altri pochi anni e la polizia detta O.N.U. sarà efficiente a distanza di minuti in ogni punto del mondo.

Se possibile togliamo Baffone da Mosca e mettiamoci, per non sfottere nessuno, Alfa; Truman, che oggi ci sta pensando sopra, arriverà cinque minuti dopo.

Mi sono spiegato? Se così non è vuol dire che sto infessendo io pure. Mal di poco, per il mio convinto marxismo, a dialettica non volontarista. Ti farò anche quel papiello, non dubitare.


Onorio ad Alfa - 23 luglio 1951



Rispondo e a tono, come da tuo desiderio.

Prima constatazione, cui sono costretto, è il tono alquanto… asprigno del tuo scritto, che il contenuto e forse il modo delle mie osservazioni hanno involontariamente provocato. Nello scriverti sono partito dalla preoccupazione di tener conto del come i gruppi internazionali, cui l’indirizzo è rivolto, avrebbero reagito al nostro modo di porre, se non di risolvere, almeno di definire nei limiti delle possibilità subiettive e obiettive, i problemi del riannodamento internazionale dei gruppi rivoluzionari.

D’accordo col senso “politico” — sei contento così? — che ti ha guidato nel dar valore delimitativo, e in un certo senso negativo all’indirizzo, più adatto così a non respingere coloro che si vorrebbe accostare e possibilmente allacciare. Ma non sono d’accordo col tuo metodo di discussione, anche se cortese, che ha bisogno di crearsi a volte argomenti ora fittizi ed ora del tutto arbitrari, che esponi alla tua maniera e alla tua maniera combatti dando l’impressione che il tuo contraddittore porti la paternità effettiva o latente della loro formulazione. Segui pure il filo delle tue argomentazioni, ma tieni anche conto qualche volta, e obiettivamente, di quelle in realtà espresse da chi con te discute.

Seguo l’ordine della tua del 9 luglio. America Concentramento N. 1 ? Giusta la formulazione a patto però che sia intesa nel senso che il capitalismo internazionale, considerato nella sua realtà unitaria anche se diversamente graduata per effetto del suo sviluppo ineguale, ha nell’America

il suo più grande concentramento metropolitano di capitale, di forza di produzione e di potere.

Ma a che cosa si perviene allorché traduciamo tale formulazione sul piano della tattica e della strategia politica?

Si perviene alla tua constatazione che

l’America oltre tutto e oltre la probabilità di vincere in ulteriori conflitti (chi potrebbe impedirlo, dico io, e a che varrebbe?!) può sicuramente intervenire ovunque una rivoluzione anticapitalistica vincesse.

Difatti oggi avverrebbe così. E con ciò? Si dovrebbe forse per questa considerazione proclamare l’inutilità della rivoluzione in questo o in quel paese fino al giorno in cui il proletariato non fosse in grado di far fuori lo Stato di Washington?

Non scherziamo, anche se quanto scrivi va inteso storicamente.

Ripiglio il mio accenno su quest’argomento.

La rivoluzione proletaria colpisce l’antagonista di classe quando e come può, là ove questi è più debole.

È proprio necessario che io aggiunga per te che la rivoluzione, anche se scoppiasse a Roccacannuccia, è sempre un momento della rivoluzione internazionale, e ti senta perciò autorizzato a parafrasare proprio per me ciò che può aver detto Stalin?

Ciò che comunque interessa è la messa a punto della questione teorica.

Ecco come la porrei io. Secondo la dottrina uno scardinamento rivoluzionario si dovrebbe logicamente avere in quel dato concentramento di potere ecc. ecc. dello schieramento capitalistico mondiale in cui più intensa è stata l’accumulazione delle contraddizioni economiche e degli antagonismi sociali della dominazione del capitale, senza la presunzione però che questa abbia “raggiunto economicamente gli ultimi limiti obiettivi del suo sviluppo”.

A questo punto, invece di porre, come fai tu, il problema, a mio avviso unilaterale e statico, dell’intervento strangolatorio della polizia dell’O.N.U. (e non perché anche quello della polizia del Cominform non meno interessata allo strangolamento?), si dovrebbe porre l’altro storicamente più vivo che fa leva sulla capacità e potenza esplosiva e di irradiazione d’una prima realizzazione rivoluzionaria in un mondo obiettivamente maturo per il socialismo. t il solo modo per la rivoluzione socialista di porre in concreto il problema “di far fuori” anche lo Stato di Washington; in questo senso e solo in questo senso la “rivoluzione non perde tempo”. Ma lo perderebbe sicuramente, e con esso perderebbe tutte le occasioni che la crisi del capitalismo potrà offrire al proletariato, non importa in qual punto del suo schieramento, se la rivoluzione battesse il passo nell’attesa messianica e, peggio, subordinasse il compimento della sua missione su scala internazionale alla conquista del potere negli Stati Uniti.

In base all’esperienza dell’Ottobre bolscevico sappiamo che la spinta dinamica verso l’allargamento del fronte di lotta, insito ad ogni radicale vittorioso rovesciamento dei rapporti di forza, in parte effettivo, in parte potenziale, non consente di essere premisurata scientificamente. E’ una specie di riserva “atomica” che ogni rivoluzione porta in sé. La frattura psicologica si allarga? La rivoluzione straripa, travolge gli ostacoli con obbiettivo il mondo. Nel caso opposto la rivoluzione si batte per morire in piedi o si “rincartoccia” in sé, come tu dici, e sparisce. Ma la strada è questa e soltanto questa.

E veniamo all’analisi e definizione della odierna società russa. Avrai notato che su quest’argomento mi sono limitato a formulare e indirettamente quesiti e obiezioni. Scrivi:

Non è esatto che in una fase del capitalismo sia stata protagonista la borghesia classe, e che nell’attuale sia protagonista lo Stato.

Tale inesattezza l’hai forse pescata nel mio scritto, e formulata in modo così maldestro? Non sarebbe stato più corretto e assai più utile ai fini della chiarezza che tu ti fossi obbligato a considerare anche criticamente l’importanza delle obiezioni che ho sentito di doverti fare? Ti riporto quanto ho scritto sull’argomento “economia e Stato”:

La tendenza a un sempre maggior intervento dello Stato, caratteristica di questa fase della economia nei paesi industrialmente più progrediti, trova nella economia sovietica la sua manifestazione più organica ecc. ecc.

Più oltre:

Sulla generale linea di sviluppo del capitalismo monopolistico la Russia ha potuto bruciare più d’una tappa grazie alla Rivoluzione d’ottobre che ha consentito l’accentramento più assoluto della economia nell’ambito dello Stato e grazie alla controrivoluzione stalinista che si è servita di questo enorme potenziale economico così accentrato per ingigantire il potere dello Stato e dare l’avvio alla esperienza estrema del capitalismo. Il protagonista di questa fase della storia è dunque lo Stato la cui economia (l’economia cioè dello Stato sovietico) riproduce i modi e i caratteri, su scala forse allargata, propri della produzione e della distribuzione capitalistica (salario, mercato, plusvalore, accumulazione ecc.).

Perdonami la lunghezza della citazione ma mi premeva documentarti che nessuno ha confuso e tanto meno capovolto i termini “economia e Stato” e del tutto inutile il tuo richiamo allo Stato non protagonista dei fatti economici.

Meglio sarebbe stato invece confutarmi.

Estremamente indeterminata la formula di fase monopolistica e capitalismo di Stato? Ma non è mia ed è prima d’ogni altro di Lenin il quale affermava che il capitalismo di Stato, compatibile col sistema della dittatura del proletariato, aveva come compito di fare da intermediario tra il potere sovietico e la campagna e stabilire la loro alleanza. È sempre Lenin che considerava il capitalismo di Stato come forma dominante della economia sovietica.

Questo nel 1921; nel 1925 diamo la parola a Sokolnikov, voce non sospetta per conoscenza e sincerità:

il nostro commercio estero è condotto come una intrapresa di capitalismo di Stato; le nostre società di commercio interno sono ugualmente intraprese di capitalismo di Stato e la Banca di Stato è allo stesso modo una intrapresa di Stato. Egualmente il nostro sistema monetario è tutto impregnato dei princìpi dell’economia capitalistica.

E dal 1925 in poi? In “Vers le capitalisme ou vers le socialisme?” Trotskij scrive testualmente:

Di fronte all’economia mondiale capitalistica lo Stato sovietico si comporta come un proprietario privato gigantesco.

Inoltre l’industria dello Stato riunita in un solo trust viene poi efficacemente definita “il trust dei trusts”. Si trattava di sapere allora, l’opuscolo citato risale al 1925, se “con lo sviluppo delle forze di produzione le tendenze capitalistiche sarebbero aumentate a scapito della tendenza socialista”. La storia ulteriore ha provato la prevalenza decisiva della tendenza basata sulla economia mercantile, che è appunto dire capitalista.

Se a questo punto la rivoluzione si rincartoccia, ciò non vuol dire che l’economia trustificata nell’ambito dello Stato, e con la quale lo Stato fa corpo, debba decentrarsi e ritornare cioè al capitalismo individuale e al suo regime di concorrenza. Gli strumenti creati dalla evoluzione tecnologica della economia nazionalizzata e che dovevano operare per una più rapida realizzazione del socialismo, sono serviti, di fatto, per operare la spinta in avanti del capitalismo.

Che cosa intendo dire con lo Stato che fa corpo con l’economia trustificata? Intendo riferirmi alla tendenza dell’imperialismo a formare lo Stato che Lenin chiama dei rentiers, lo Stato degli usurai la cui borghesia vive esportando capitali e tagliando coupons. Tale fenomeno, visibilissimo nella economia americana per il noto predominio del capitale finanziario, è comune alla stessa economia russa anche se operante nei limiti d’una più ristretta zona d’influenza.

Il mondo si divide in un piccolo gruppo di Stati usurai e una immensa massa di Stati debitori.

Stato gestore? Stato imprenditore? Stato soggetto della economia? Non si tratta di questo, ma di considerare certi fenomeni propri di questa fase della economia quali il ruolo del capitale finanziario, una delle leve di comando manovrate prevalentemente dallo Stato, la politica della sua esportazione come strumento di dominio mondiale, la organizzazione a carattere di permanenza di una parte dell’economia nella fase di economia di guerra col mantenimento di due eserciti permanenti, quello dei funzionari e l’altro dei militari, tutti fenomeni che vanno a confluire nello Stato, la sola organizzazione unitaria e potentemente accentrata, che possa e sappia risolvere le contraddizioni economiche e i contrasti sociali, in tal modo acuiti, sul piano della forza, della violenza e della guerra. Ce n’è abbastanza, mi pare, per vedere nello Stato imperialista qualcosa di più della sua funzione di Comitato di delega degli interessi capitalistici.

E, come per ogni fenomeno del capitalismo, anche per questo la linea della interpretazione marxista va dalla economia allo Stato e non inversamente.

Che poi il capitalismo resti in piedi e permangano gli apparati di Stato storicamente più continui e persistenti, è constatazione questa aperta all’esame critico dei marxisti. Sotto chi ha filo abbastanza per tessere…

E siamo così alla classe dirigente in Russia. Io mi chiedevo e continuo a chiedermi: quale è la nuova classe in Russia che attraverso lo Stato esercita la propria dittatura? Per mio conto mi limitavo alla constatazione reale e storicamente inconfutabile che

la strapotenza dello Stato sovietico non può non aver risolto in concreto il problema d’una sua classe dirigente omogenea e forte per la coscienza che ha del proprio essere di classe e della funzione storica che è chiamata a compiere.

Quanto tu vai sostenendo sul ruolo della burocrazia non può che trovarmi consenziente; ma la tua formula di “ibrida coalizione e fluida associazione ecc.” esclude allo Stato attuale la esistenza d’una classe storicamente definita e si intona perfettamente con l’altra tua formula d’una economia che tende al capitalismo.

Se tende al capitalismo, vuol dire che in Russia c’è una economia che non è ancora capitalismo, per cui la classe dirigente che la esprime tende essa stessa a divenire capitalista, e non è ancora capitalista.

Che l’economia contadina tenda per gran parte al capitalismo, d’accordo; ma che tenda al capitalismo l’economia trustificata nello Stato, assolutamente no. Su questa realtà economica caratteristicamente capitalistica si articola inevitabilmente la classe dirigente che le è propria.

È qui, mi pare, la chiave di volta per la interpretazione di tutto il tuo pensiero sul problema russo, da qui la minore urgenza, per te, della rivoluzione socialista in questo paese in confronto agli Stati Uniti. Giunti a questo punto non credo che i termini della nostra conversazione manchino di chiarezza, anche se siamo andati oltre la preoccupazione dell’indirizzo internazionale.


Onorio ad Alfa - 6 ottobre 1951



Ripiglio la conversazione al punto in cui è stata lasciata dalla tua lettera del 31 luglio, e abbozzo alcune note riassuntive a mo’ di conclusione.

Il mio appunto critico si era particolarmente indirizzato su quel tuo perder tempo della rivoluzione se non avesse prima provveduto a far fuori il più importante centro capitalistico, universalmente individuato oggi nello Stato di Washington.

Qui convieni con me, né poteva essere altrimenti, che non si intendeva vietare tentativi rivoluzionari o fare una graduatoria di tentativi. Per noi marxisti non si tratta invero di “vietare” ma di riconoscere che l’esplosione rivoluzionaria in qualunque punto dello schieramento capitalistico possa avvenire, esprimerà — qui il punto — una sua capacità e potenza esplosiva e di irradiazione su cui la strategia della rivoluzione socialista punta per investire dall’esterno e cercare di “far fuori” lo Stato di Washington. Anche tutto ciò va inteso storicamente, ma non sottinteso, per evitare di discuterne la validità sia in sede teorica che in quella politica. Ne convince l’aver messo in linea un argomento politico che vorrebbe essere di propedeutica rivoluzionaria verso quei proletari che dovrebbero giudicare per contro-rivoluzionarie le forze politiche della Russia sovietica che sono state alleate di quelle americane nella fase più decisiva del loro cammino alla egemonia; argomento su cui non si può non essere d’accordo ma che messo lì sa di mero accorgimento polemico per evitare di centrare il problema della intima capacità espansiva nel mondo di ogni episodio di rivoluzione vittoriosa, dovunque questa vittoria rivoluzionaria si fosse affermata.

Così, per incidens, ricordo d’avere letto sulla nostra “Battaglia” qualche cosa che vorrebbe essere in posizione originale tra le nostre due tesi che in fondo hanno cessato di divergere dal momento che tu accetti che la rivoluzione può scoppiare là dove il fronte del capitalismo appare più debole all’assalto del proletariato. La tesi sostenuta dallo scrittore di “Battaglia” è un saggio assai significativo del modo con cui vien posto il problema della rivoluzione: la polemica politica di partito al posto d’un esame dialettico.

Si pone la rivoluzione antistalinista come “conditio sine qua non” perché sia reso possibile di far fuori lo Stato di Washington. Ma non si chiede se questa rivoluzione in quanto opera del proletariato, risolve il problema fondamentale di classe che è quello della distruzione dello Stato capitalista che consente il passaggio dell’economia capitalista sul piano della produzione e della distribuzione socialista. Questo non è detto perché chi lo ha scritto crede ad una rivoluzione evirata dei presupposti deterministici essenziali nella concezione marxista.

Siamo ad un ritorno di fiamma dei motivi di pura marca idealista e volontarista che credevamo definitivamente sorpassati almeno nel seno di questa nostra sparuta avanguardia.

La rivoluzione antistalinista per il fatto stesso che è realizzata dal proletariato avrà tutti i caratteri dell’anticapitalismo oppure si ridurrà alle proporzioni di un banale episodio di rivoluzione di palazzo e di cambio di guardia.

E poiché siamo ad una applicazione del metodo dialettico ripiglio il filo della nostra conversazione per dire quel che penso anche sul tuo “modo” di dialetticizzare la storia.

Il gioco contraddittorio dei tuoi “sì” e “no” non mi pare si liberi del tutto dalle maglie della dialettica formale; gli esempi storici che citi se hanno valore dimostrativo nei riguardi del tuo assunto, non soddisfano in pieno l’esigenza d’una valutazione dialettica del moto rivoluzionario della nascente borghesia. I dati che desumi dall’esperienza inglese sembrano formalmente esatti, ma chi pensa e crede ad una specie di sincronicità non soltanto temporale tra il moto delle cose del sottosuolo e il moto delle forze sociali e politiche della sovrastruttura, pensa e crede secondo i precetti d’un determinismo meccanicista che ripugna al materialismo storico inteso come lo intendeva Marx più “storico” che “materialismo”.

Ti ricordo con Bukharin che

ogni contraddizione tra le forze produttive e l’economia si appiana rapidamente, esercita rapidamente la sua influenza sulla sovrastruttura, poi la sovrastruttura a sua volta sull’economia e le forze produttive, e il circolo ricomincia senza posa.

Non si tratta insomma di cogliere soltanto la contraddizione tra una progredita economia inglese a carattere capitalista e una relativa politica di partiti e di governo in funzione anticonvenzione e antinapoleone.

Il dipanarsi della rivoluzione industriale inglese aveva posto il problema d’una organizzazione sociale politica e d’un costume borghese come esigenza rivoluzionaria il cui affermarsi e progredire andava misurato sul metro della quantità delle forze economiche politiche e sociali dell’antico regime da vincere e sulla loro materiale capacità di resistenza.

Ti sei chiesto se la rivoluzione industriale inglese era stata poi soltanto inglese?

È poi accettabile quanto tu affermi che “tutte” le forze di sovrastruttura inglese fossero in questo periodo in funzione controrivoluzionaria? Che lo fossero in buona parte e prevalenti nella politica estera per la necessità della lotta per il predominio sul continente che la Francia minacciava è spiegabilissimo, ma che lo fossero in “toto” no. In ogni caso la lotta sul piano politico tra le forze dell’antico regime dure a morire e le nuove forze liberali espresse dalla rivoluzione industriale non significava che il moto borghese dovesse dialetticamente realizzarsi. Il movimento illuministico trovò la sua prima formulazione in Inghilterra dopo la rivoluzione del 1688 e si concluse con l’assalto alla Bastiglia che fu del resto una risposta, la prima di una serie di risposte rivoluzionarie, alla istanza posta internazionalmente dal nascente capitalismo.

Comunque la linea di sviluppo storico del moto liberale è facilmente individuabile e cesseremmo di capire nel suo complesso e nelle sue contraddizioni l’affacciarsi dell’Inghilterra nel mondo della moderna borghesia, se sottovalutassimo questo vasto e progressivo conflitto tra le nuove ed ingrandenti forze del moto liberale e l’antico regime, tra i difensori dell’ “habeas corpus” e i ritorni dell’assolutismo, tra il mondo dei forti residui medioevali e dell’età delle lotte religiose, dei privilegi politici delle proprietà fondiarie e il mondo dell’industria e del commercio che doveva dare i motivi e le forze per la veemente lotta dei libero-scambisti. Questo è il mondo reale della sovrastruttura che dialetticamente riflette quel momento dell’economia capitalistica inglese anche quando, per la maggiore grandezza e complessità dei suoi interessi politici e commerciali nel mondo, la politica del governo era forzatamente in funzione controrivoluzionaria nei confronti della Francia della Convenzione e di Napoleone.

Ed è su questa linea di interpretazione dialettica che si perverrà alla conoscenza delle ragioni reali che erano alla base dei primi moti operai di violenta, rabbiosa azione contro la macchina ritenuta generatrice di disoccupazione e al sorgere delle prime unioni operaie a cui farà seguito un gran numero di scioperi.

C’è, in una parola, una economia capitalistica in progressiva dilatazione e affermazione a cui corrisponde una classe dirigente borghese la cui politica è liberale e reazionaria insieme, progressiva e perciò stesso sagacemente conservatrice.

Chi non sa che in ogni società nell’ondeggiamento tra il regressivo e il progressivo il gravitare verso la tradizione è ovunque e in ogni epoca prevalente?

Qualche osservazione ancora sul tuo modo di applicare la dialettica all’esperienza della Russia sovietica. Tu scrivi:

Ripiegamento economico sociale del 1921 e rinunzia a certe forme socialiste (il punto strettamente economico dopo). Tutti noi sinistri approvammo le giustificazioni di strategia rivoluzionaria internazionale: un passo indietro per riprendere lena: risposta: no — sì — sì. Cioè l’economia sociale interna rincula, la lotta rivoluzionaria va avanti.

Le risposte che dai “no” — “sì” — “sì” possono aver senso se riferentisi alla condizione tutta soggettiva della nostra lotta politica di allora, ma se dovessimo rispondere oggi agli stessi quesiti, non c’è dubbio che risponderemmo no a tutti e tre; non è vero cioè che l’economia sociale interna della Russia rinculava e la lotta rivoluzionaria andava avanti. Ora sappiamo che l’economia di allora ha continuato a rinculare e la lotta rivoluzionaria non è andata più avanti dalla morte di Lenin in poi né nella patria del… socialismo né altrove.

La verità è che noi della sinistra fino al 1926 ci siamo mostrati contrari alla politica di partito ma non ci siamo sufficientemente preoccupati di legare le ragioni del declino della rivoluzione proletaria nel mondo al sempre minore socialismo e alla sua scomparsa nelle organizzazioni economiche e sociali della prima rivoluzione proletaria. La colpa è semmai soltanto nostra che abbiamo preferito farci assertori d’una dialettica delle parole al posto d’una dialettica delle cose.

Non c’è automatismo in tutto ciò, d’accordo, c’è soltanto svolgimento involutivo sul piano della sovrastruttura verso la prassi borghese, riflesso d’un ritorno al modo di produzione proprio del capitalismo. È adombrata perciò di idealismo l’ipotesi da te formulata che:

come l’economia inglese 1793 era quanto di più avanzato e la politica quanto di più reazionario, così potrebbe accadere che un paese con evoluti caratteri socialisti della economia sociale facesse una politica di partito e di guerra borghese.

Se si tratta d’una possibilità al presente, logica vuole che il tuo riferimento sia diretto all’esperienza russa, se si trattasse invece di possibilità al futuro, l’ipotesi cesserebbe d’interessarci perché sfugge all’analisi marxista.

Constato infine volentieri come le nostre argomentazioni inizialmente divergenti sulla valutazione del capitalismo di Stato siano andate raccordandosi come era naturale che ciò avvenisse. Soltanto che la vecchia funzione dello Stato più carabiniere che interessato all’economia ha maggior rilievo nella tua visione del mondo borghese, mentre nella mia lo Stato potenzia al massimo l’esercizio della forza a particolare protezione della economia in esso accentrata contro le forze concorrenti e di urto ingigantite anch’esse su scala nazionale e internazionale.

Poichè consideriamo insieme il capitalismo di Stato “tutto sano nel reparto capitalismo”, tiriamo le conclusioni anche sul processo in Russia. Le tiro da parte mia con le tue parole che a loro volta parafrasano quanto sono andato scrivendoti sull’argomento dell’economia russa in quanto capitalismo di Stato:

Ora da allora sulle spalle del proletariato, si è accumulato ed invertito, diffondendo industrialismo e potenziale capitalista. sempre nella stessa forma: capitalismo. Di Stato, aggiungiamo? Sia pure.
Dovunque esso sia e dovunque sia la forma economica di mercato il capitale è una forza sociale. È una forza di classe ed ha a disposizione lo Stato politico.

Termini esatti fino al 1900, epoca in cui si suole aprire la fase dell’espansione imperialista, termini che rimangono veri e attuali anche se per sé soli incompleti quando l’evoluzione del capitalismo attribuisce allo Stato la funzione di sottrarre le punte terminali di tale evoluzione all’iniziativa privata. Varrebbe la pena documentarsi sull’attuale svolgimento di determinati settori dell’economia americana per vedere plasticamente vivo questo fenomeno, che osservatori borghesi già puntualizzano nella realizzazione a carattere di capitalismo di Stato demandata alla possente personalità del Kaiser. Non è che io vada oltre nel parlare di economia di Stato, gli è che i fatti dell’economia sono più innanzi di noi, che alla loro dinamica preferiamo a volte gli schemi fissi d’una cultura economica, che là ove cessa di combaciare con la storia cessa anche di essere marxista. Faremmo torto alla nostra capacità d’intendere rivoluzionaria-mente e alla nostra “cultura” se anche in questo fossimo dei ritardatari.

Non si tratta di discutere più o meno acutamente intorno ad un assunto teorico, ma di mettere in evidenza e precisare le caratteristiche di questa fase dello sviluppo capitalistico che pone il problema d’una particolare visione tattica e strategica ad un partito che sia di rivoluzionari e non di… frati trappisti.

Per la Russia, che non si sottrae a questa realtà, c’è di particolare secondo la tua opinione questo tendere della sua economia verso il capitalismo, vi tendono, tu dici, i nove decimi della pre-borghese società russa, come vi tende ora quel decimo di economia, che aveva tentato di divenire socialista, e che ora procede all’indietro.

Riconosciamo che la tendenza dei nove decimi è sul binario giusto, ma quella del decimo, anche nella supposizione che fosse pervenuta al socialismo, diciamo pure inferiore, non può ora tendere al capitalismo perché, a mio parere, non può strutturalmente tornare all’imprenditore privato, ma rimane funzionante con le sue caratteristiche di economia accentrata, nell’ambito dello Stato il quale ci appare oggi come lo “sbocco naturale del capitalismo secondo la teoria marxista della concentrazione”.

In questo preciso mondo va ricercata la ragione d’una politica di partito e di Stato che pute, e non in un nesso dialettico che non regge dal punto di vista storico e tanto meno dal punto di vista della lotta rivoluzionaria.

Non voglio chiudere queste note col sottacere la mia impressione su quanto hai sostenuto, o meglio sul modo come tu l’hai sostenuto. Che dirti? Allorché rileggo i tuoi scritti a distanza di tempo, quello strano senso di meraviglia e di insoddisfazione proprio della prima lettura, è tuttora presente e forse più precisato. C’è nei tuoi scritti un motivo centrale allo stato di nebulosa che non osa scoprirsi per intero, e attorno tutta una frangia di scintillio polemico dove non è difficile scorgere la tendenza ad attenuazioni e accomodamenti che sconcerta.

Il motivo centrale è dato dalla tua persuasione che l’economia sovietica nella sua marcia all’indietro verso il capitalismo non abbia ancora portato a compimento questa sua curva d’involuzione: in parole povere non è tornata tutta al capitalismo.

Da questa persuasione appena accennata discende tutto il resto, e la formulazione di un ipotetico paese con evoluti caratteri sociali che fa una politica di partito e di guerra borghese, e l’affannosa ricerca nella storia inglese e francese di esempi a mo’ di riprova valida, e infine la tesi del concentramento capitalista n. 1 Stati Uniti d’America verso cui deve puntare lo sforzo rivoluzionario, mentre il concentramento russo solo in un secondo tempo e in via del tutto subordinata dovrebbe entrare nelle… grazie della Rivoluzione Proletaria.

Perché insisto tanto su questo particolare aspetto della tua interpretazione? Per le conseguenze che se ne possono trarre sul piano più specificatamente politico. In verità quel nostro metter gli U.S.A. e la Russia sulla stessa bilancia, tu non l’accetti, e non da oggi.

Non è possibile al partito rivoluzionario non praticare una politica di equidistanza, soprattutto se in periodo di guerra guerreggiata, tra un paese a massimo sviluppo capitalistico come gli U.S.A. e la Russia ad economia che tu fai tendere al capitalismo; potrebbe divenire la premessa teorica per nuove esperienze intermediste; in ogni modo verrebbe a turbare profondamente i termini della visione strategica del partito della rivoluzione nel corso della prossima guerra imperialista.

Se questo apprezzamento riassuntivo fosse però ispirato dal demone della polemica, vorrei poter prenderne atto con piacere.

Et de hoc, satis.


Damen a Bordiga sulla questione sindacale



Da una lettera-documento

Mi sembrava superfluo precisare ancora una volta la mia posizione di fronte al problema “sindacato-partito” nei moltissimi punti in cui la nostra identità di vedute è perfetta, in confronto ai pochi, anzi ai pochissimi punti, in cui la diversa valutazione nasce più che da un dissenso di principio, da una esperienza diversamente sentita perché diversamente vissuta.

Procediamo per ordine. Il nostro accordo è completo:

  1. nel respingere la parola d’ordine espressa o sottintesa e comunque praticata del boicottaggio dei sindacati, organi di aziende e agitazioni operaie;
  2. nella partecipazione, quando una nostra affermazione è materialmente possibile, ad elezioni per le C.I. con lista nostra e senza occupazione dei seggi eventualmente conquistati;
  3. nel considerare base di lavoro i gruppi di fabbrica, movendo dal partito ai luoghi di lavoro e non inversamente;
  4. nel considerare sempre valida la posizione della Sinistra che nei confronti della questione sindacale si è sempre dichiarata partecipazionista e non boicottista né scissionista.

L’accordo non appare più completo quando tale partecipazionismo si trasporta dalla fabbrica al sindacato nel quale siamo praticamente assenti e perciò materialmente impossibilitati di esercitarvi una qualsiasi influenza.

Inoltre ci differenziamo nettamente nel porre il problema della riconquista degli attuali sindacati. Tu scrivi:

Se l’offensiva capitalista è fronteggiata da un partito comunista forte; se si strappa il proletariato alla tattica (sindacalista) C.L.N. di fronte a quelli; se lo si strappa all’influenza dell’attuale politica russa, nel momento X e paese X possono risorgere i sindacati classisti ex novo o dalla conquista, magari a legnate, degli attuali. Ciò non è storicamente da escludere. Certamente quei sindacati si formerebbero in una situazione di avanzata o di conquista del potere.

Io penso che l’attuale sindacato corporativo (fascista, socialdemocratico o comunista non conta) per la sua funzione di organo indispensabile alla vivificazione del sistema capitalistico sia destinato a vivere fino in fondo le vicissitudini economiche, sociali e politiche del capitalismo morente e sarà spezzato con lo stato imperialista solo dall’assalto del proletariato rivoluzionario. In simile fase di avanzata o di conquista del potere il raggruppamento delle forze del proletariato non attenderà il ripetersi della prassi tradizionale del sindacato, ma avverrà attraverso nuovi organismi di massa (consigli di fabbrica, soviet od altro come in Russia e in Germania) strutturalmente e politicamente più idonei del sindacato a sentire in concreto, sotto la guida del partito rivoluzionario, i problemi del potere.

Concludendo, l’ipotesi di sottrarre il proletariato all’influenza russa pone semmai l’altra del suo cadere immediato e certo sotto l’influenza americana, sballottamento a carattere pendolare che va verificandosi a seconda della possibilità di attrazione dei due poli opposti dello schieramento imperialista.

Questo è il periodo storico forse della pluralità dei sindacati a varia colorazione politica, ma in nessun caso è o sarà quello del sindacato di classe.

Allo stato attuale i sindacati ci interessano non perché li consideriamo organismi proletari sotto la dittatura borghese, come tu pensi, ma per le masse che vi sono dentro, le quali, se da un lato sono incapaci di muoversi per forza propria sul piano di classe, sono dall’altra costantemente soggette a farsi rimorchiare sul piano delle competizioni imperialiste. Qui deve esercitarsi la nostra azione critica di rieducazione classista e di orientamento politico, accompagnata da una nostra politica sindacale da svilupparsi sui posti di lavoro dove la reazione della burocrazia sindacale appare, ad onta di tutto, meno efficace e determinante per il più libero gioco della espressione politica dei partiti.

In questo senso la necessità di un raggruppamento non importa se inizialmente modesto di proletari sul piano della più assoluta autonomia, penso debba sempre essere al centro delle preoccupazioni del partito. Sotto questa luce particolare deve essere vista l’esperienza non lontana e fortemente significativa della nostra frazione sindacale.


Postilla sulla crisi interna



Ti accludo la comunicazione mandata al C.E. che pone il problema della crisi al vertice del partito nei suoi termini reali. Non consentiamo esperimenti la cui giustificazione teorica ha provocato la mia uscita dal C.E. e poi quella del compagno Bottaioli; la questione che ci divideva e ci divide è sempre quella della difesa della linea politica prevalente a Firenze, votazione o no. Ora se il centro continua ad essere di altro avviso e ritiene che si possa ulteriormente ingannare la organizzazione, mi pare sia giunto il momento di porre il problema concreto della difesa attiva di tale linea politica applicandola dove materialmente sarà possibile, consenziente o no il C.E. e che grosso modo può essere così sintetizzata:

  1. Respingere apertamente ogni atteggiamento che indichi nella uscita dai sindacati e nel boicottaggio di questi organismi e delle agitazioni la politica attuale del partito.
  2. Partecipare alle battaglie politiche per la Comm. In. con fisionomia propria e propria lista in quei posti di lavoro in cui una manifestazione delle nostre forze sia materialmente possibile e senza l’accettazione dei seggi eventualmente conquistati.
  3. Respingere senza ipocrisia la politica che minimizza i compiti presenti e futuri del partito e restringe la cerchia delle sue attività possibili in obbedienza a preoccupazioni che non si conciliano in nessun modo con una milizia rivoluzionaria.
  4. Riattivare la vita organizzativa e politica del partito partendo dal presupposto che questo si abilita alla lotta rivoluzionaria non sfuggendo alle responsabilità di questa lotta ma affrontando, adeguatamente alle possibilità obiettive, situazioni e forze politiche nemiche quali sono state dialetticamente espresse dalla dinamica del conflitto di classe.

.

14 marzo 1951


Al congresso di Bologna ebbero paura di dire no



…alla politica possibilistica dell’Internazionale

Oggi è possibile, diremmo quasi doveroso, un esame retrospettivo, anche se parziale, del congresso di Bologna (1919) per chiederci se su questo congresso o su parte di esso, certo la parte più battagliera, esiste l’enorme responsabilità di avere ritardato la formazione del partito, errore che si ritiene pesi tuttora sul movimento proletario.

Il solo ritardo di qualche anno (ma si trattò degli anni delle svolte improvvise e decisive) aveva fatto sì che la creazione del Partito Comunista si inserisse in un momento in cui erano venute a mancare le condizioni obiettive per prendere la direzione dell’offensiva rivoluzionaria ed urgente l’impegno tattico di difendere le conquiste del proletariato dall’assalto delle forze della reazione fascista. Questo sarà l’argomento da approfondire quando sarà affrontato l’esame della situazione post-Livorno che vedrà tale reazione in fase crescente.

Intanto prendiamo in fugace esame critico il problema dell’astensionismo che è stato al centro del dibattito al Congresso di Bologna.

Astensionismo o elezionismo antiparlamentarista?

Il dibattito su questo problema è sempre aperto. O si accetta l’astensionismo integrale ritenendo come anacronistico il criterio di regolare la politica dello Stato e dei partiti sulla base delle soluzioni maggioritarie secondo una tradizione che viene definita democratica, cioè della conta dei voti e si aderisce in tal modo al principio dell’astensionismo aprioristico proprio di certo astrattismo anarchico e di tutte le correnti portate ad esaminare idealisticamente il mondo che le circonda, oppure non c’è che rifarsi alle posizioni tradizionali dell’astensionismo tattico difeso da Lenin e inserito nelle tesi programmatiche del II Congresso della III Internazionale.

Il partito rivoluzionario passa al sabotaggio delle elezioni quando il proletariato si trova in fase offensiva e con davanti a sè la prospettiva della conquista immediata del potere. In questa fase non c’è posto per la utilizzazione tattica del dispositivo elezionistico e muoversi su questo terreno finirebbe per dar vita ad una politica di dispersione, sempre pericolosa, e potrebbe portare a soluzioni di compromesso a carattere “costituentistico” quali quelle che in Russia hanno diviso il partito bolscevico di fronte al problema del potere e in Germania hanno portato alla disastrosa esperienza dei governi di Turingia e di Sassonia.

In una fase diversa della lotta operaia, quando non esistono le condizioni obiettive della conquista rivoluzionaria del potere, Lenin e l’Internazionale ponevano la tattica parlamentare come un espediente secondarioma inevitabile nella strategia del movimento operaio. Tattica astensionista dunque, contro ogni partecipazione elettorale e per il boicottaggio del Parlamento, nella fase cruciale del conflitto di classe quando tutta l’organizzazione del partito non deve essere sviata dallo sforzo immane di un’azione offensiva per la conquista del potere. In ogni altro caso viene adottato il criterio di valutare volta per volta la possibilità o meno della utilizzazione del dispositivo elezionistico per affrontare una battaglia elettorale. L’errore commesso a Bologna dagli astensionisti fu quello di aver posto l’accento non sulla necessità della scissione e della costruzione del partito ma sul problema dell’astensione. L’errore è tutto qui: avere immobilizzato la frazione, formata di autentici quadri, dietro il presupposto del tutto teorico dell’astensionismo e non essersene serviti come base essenziale della polarizzazione delle forze verso l’obiettivo del partito di classe.

Eppure non è mancato chi intendesse fare della frazione astensionista il primo nucleo formativo del partito di classe, ponendo obiettivamente il problema della scissione. Verdaro, studioso dei problemi del movimento operaio e uno degli esponenti dell’astensionismo, nel fare il cappello alle Tesi del materiale relativo al congresso di Livorno, scriveva:

La frazione astensionista del Partito Socialista Italiano si propone dunque di seguire il processo della sua trasformazione in partito per operare la scissione nel seno del Partito Socialista e per fondare la Sezione Italiana dell’Internazionale Comunista.

L’affermazione era particolarmente significativa perché poneva con evidenza questi compiti alla frazione, allora di estrema attualità: i quadri della frazione astensionista come centro di polarizzazione del nuovo partito e la scissione; compiti maturati nella convinzione che il Partito Socialista non poteva essere trasformato in nessun modo in un partito rivoluzionario.

Se la frazione astensionista avesse operato in tal senso e si fosse posta come centro di convergenza e di guida di quanti in quegli anni veramente ruggenti avvertivano, anche se non sempre chiaramente, la necessità del coagulo delle forze rivoluzionarie, lo svolgimento della storia italiana avrebbe potuto avere un indirizzo e un corso ben diversi da quelli che poi si sono verificati.

La tattica astensionista, inserita in una situazione incandescente e a spinta rivoluzionaria, sarebbe risultata infinitamente più concreta e feconda di sviluppi d’ogni partecipazionismo elettorale, se un esagerato patriottismo di frazioni non avesse viziato l’esatta valutazione del ruolo del partito rivoluzionario, ciò che diede agli avversari l’appiglio polemico di appaiare la frazione astensionista italiana al movimento dei “tribunisti” olandesi di Gorter e di Pannekoek.

Prima e dopo Bologna non si poteva essere che astensionisti e in tal senso doveva essere orientata una politica autenticamente rivoluzionaria. Ma chi era chiamato a far sua questa politica? Quale lo strumento più idoneo ad eseguirla se tutto era in funzione della esistenza e conservazione del Partito Socialista, un partito questo, dominato dal gruppo parlamentare e dilaniato all’interno dall’insanabile conflitto tra le forze della riforma e quelle della rivoluzione?

Nella ipotesi che la condotta della frazione astensionista fosse stata conseguente alle premesse enunciate da Verdaro, che erano poi le premesse di tutta la frazione (scissione e la frazione costituita come primo centro di enucleazione delle forze del nuovo partito) è legittimo presumere che non sarebbe mancata a tale iniziativa la conseguente, inevitabile convergenza di considerevoli forze di sinistra, anche se non astensioniste, che andavano dagli “ordinovisti” di Gramsci agli strati politicamente più consapevoli della generica sinistra “massimalista”.

Che una tale visione critica faccia centro e metta in evidenza la gravità dell’errore, è avvertita anche da Bordiga, cui l’errore viene attribuito, quando in un suo scritto accenna debolmente ad una scusante che, per essere stata posta sul piano del compromesso, non attenua ma approfondisce le responsabilità dell’errore, quella d’aver proposto ai massimalisti l’abbandono della pregiudiziale astensionista, che avrebbe comportato la totale castrazione della frazione, in cambio del piatto di lenticchie del “taglio” dalla destra opportunista (Soviet, 30-3-1919).

La prospettiva era dunque quella di realizzare un partito senza riformisti e non quella di un partito nuovo eretto sulla base della frazione astensionista.

Il congresso di Bologna non darà il crisma né all’una né all’altra prospettiva.

Quali le ragioni che hanno portato i dirigenti della frazione astensionista a venir meno ai compiti che ad essa erano stati assegnati?

Chi degli astensionisti ha mai riconosciuto che la prospettiva posta come obiettivo immediato fosse errata, prospettiva che impegnava teoricamente tutta la frazione? Non risulta. Nessuno degli esponenti ha mai affrontato questo problema; dalle stesse pubblicazioni bordighiste, così accuratamente acritiche, non c’è molto da apprendere in tal senso.

Tuttavia la situazione obiettiva poneva l’urgenza di una guida rivoluzionaria, ed era particolarmente favorevole ad una tale iniziativa; allo stato potenziale esistevano inoltre forze rilevanti del Partito Socialista spiritualmente disposte ad assecondare l’impresa.

Ma nessuno osò e, alla luce delle esperienze posteriori, è possibile individuare le ragioni del perché non si è osato.

L’errore di fondo è poi sempre lo stesso, quello cioè di vedere i problemi soprattutto dal punto di vista quantitativo, per cui furono portati a sottovalutare il ruolo della frazione dal punto di vista della sua realtà e possibilità in quanto organizzazione; a minimizzare la sua influenza tra le masse e nel contempo a ingigantire le conseguenze della ubriacatura elettoralistica e parlamentare; il timore, in una parola, di non riuscire anche se nelle masse era profondamente operante la suggestione della Rivoluzione d’Ottobre, delle personalità di Lenin e Trotsky e soprattutto era vivo e generalizzato il convincimento che nessuna seria conquista rivoluzionaria poteva passare attraverso la via della legalità e l’utilizzazione del parlamento democratico. Tutto ciò può essere attribuito a difetto d’uomini, a certe loro carenze di intuizione e di ardimento rivoluzionario, ma non spiega tutto.

La ragione vera, invece, va ricercata nell’indirizzo politico degli organi direttivi della III Internazionale che di fronte all’opera di selezione, di scissioni e di adesioni avevano adottato il criterio tattico del massimo risultato quantitativo e della minore discriminazione politica, favorendo, quando non imponendo, il taglio più a destra possibile.

Sappiamo che di fronte a tale indirizzo politico bisognava o supinamente accettare o coraggiosamente rompere o lasciare ad altri la responsabilità per passare ad una aperta opposizione; nel caso specifico della frazione astensionista bisognava rompere col partito socialista, intelligentemente svuotato delle sue forze politicamente sane, e mettere tempestivamente l’Internazionale di fronte al fatto compiuto in modo da costringerla a scegliere tra la frazione, eretta a funzione di partito, come unica garanzia della lotta rivoluzionaria nel nostro paese, e il Partito Socialista perduto definitivamente a questo compito storico.

E quando non si opera su questo piano con la dovuta risolutezza e tempestività, non si perviene alla costruzione del partito nel momento storico in cui esso è necessario, oppure, quando verrà realizzato, come a Livorno, sarà troppo tardi e dovrà mettersi alla guida d’un proletariato non all’assalto del potere, ma in piena ritirata.


Difendiamo la Sinistra Italiana



Una volta tanto bisogna pure fare il controllo dei dati della propria contabilità politica per rivedere criticamente la propria condotta in confronto agli avvenimenti e anche in confronto di coloro che la pretendono a depositari di non si sa quale coerenza ai princìpi ed ai metodi che ci dovrebbero essere comuni.

Innanzitutto la nostra cura è andata ad una adesione non formale all’ideologia marxista e alla sua giusta applicazione senza la pretesa di aver dato mano ad una opera di restaurazione di questa dottrina. Tuttavia abbiamo tenuto a non confonderci né con chi traduce il pensiero di Marx e di Lenin in termini di idealismo e volontarismo, né con chi questa concezione formula in termini di economismo e di determinismo meccanicista secondo i canoni del positivismo e non della dialettica rivoluzionaria. Proprio per questa premessa erronea e infeconda, non ha mai avuto diritto di cittadinanza nella “sinistra italiana” l’assunto teorico che considera il partito tutto e le masse proletarie niente; che attribuisce al partito non solo la funzione di avanguardia e di guida, su cui siamo tutti d’accordo, ma quella di operare la rottura rivoluzionaria e di esercitare il potere della dittatura nella prima fase della gestione socialista non col proletariato ma per il proletariato perché ritenuto incapace a questo compito.

Per questi compagni la rivoluzione d’Ottobre è una specie bastarda di rivoluzione socialista in funzione antifeudale; è socialista solo per quel tanto che ha avuto come base un proletariato armato ed un programma so-cialista. Si tratterebbe in una parola di una rivoluzione fatta dal partito bolscevico in quanto tale non in quanto espressione di classe del proletariato russo.

Ma se si riconosce la presenza d’un proletariato armato, è proprio e solo questo proletariato che dà il contenuto sociale alla rivoluzione e sostanzia di fatto l’opera del suo partito. Non è quindi merito del solo partito bolscevico se la rivoluzione d’Ottobre si è realizzata in quanto rivoluzione socialista, ma ciò è dovuto, e bisogna dirlo con chiarezza, al proletariato russo, in quanto classe storicamente rivoluzionaria, sotto la guida del partito di Lenin. Ed è ovvio che lì dove è il proletariato, quale che sia l’ampiezza e la potenza del suo sviluppo di classe, lì è anche la sua matrice storica, il capitalismo, anche se si tratta di oasi di capitalismo disperse nel mare magnum di un’economia arretrata e prevalentemente agricola, ma tuttavia capitalismo, già tragico protagonista d’una politica imperialista che aveva vissuto il primo grande scontro col nascente capitalismo giapponese ed aveva vissuto giornate di terrore di classe davanti allo spettro della rivoluzione proletaria nel 1905.

Si trattava per il partito bolscevico di realizzare la politica, allora possibile, del proletariato russo in unione al contadiname povero, felice momento d’uno sviluppo che doveva essere necessariamente russo e internazionale insieme, in funzione quindi d’una rivoluzione socialista internazionale che era riuscita a rompere l’anello più debole dello schieramento del capitalismo imperialista, ed aveva chiara la coscienza che la vittoria si sarebbe avuta nella misura in cui si fosse riusciti a fare dell’episodio russo la fase iniziale di un allargamento del fronte rivoluzionario che avrebbe consentito di regolare lo sviluppo della costruzione socialista in Russia al passo d’una rivoluzione montante dei maggiori paesi europei ad economia più avanzata, quali l’Inghilterra, la Germania e la Francia.

La Sinistra italiana si è sempre battuta sulla base di questi principi tanto nell’ambito del partito come in quello della III Internazionale. A queste recenti contorsioni teoriche sui problemi del partito e della rivoluzione noi non sapremmo attribuire che il valore di un dilettantistico esibizionismo di scuola.

Tutto questo spiega perché, in seguito al crollo della Internazionale Comunista, questi compagni, quale che sia stato il posto di responsabilità avuto nei quadri della organizzazione del partito, hanno sostenuto che non c’era più niente da fare per tutto un ciclo storico e si sono ritirati sotto le tende sostituendo i compiti, anche personali, della milizia rivoluzionaria con una facile coerenza intellettuale e una più facile adesione “sedentaria” ai principi della lotta di classe che pur continuava senza di loro e contro le loro stesse teorie e dentro il fascismo prima e poi nell’ibridume politico della democrazia subentrata al fascismo.

Proprio a tale mentalità si deve se al momento del deflusso della lotta operaia in Italia, questi compagni hanno teorizzato la tattica di tirare i remi in barca, lo scioglimento del partito e il ritorno ai compiti della frazione rompendo così di fatto l’organizzazione internazionalista, la sola che aveva dimostrato di battersi contro lo stalinismo. Nell’interesse di chi?

Per noi il partito si forgia giorno per giorno, attraverso la lenta e faticosa formazione dei quadri che non sono mai selezionati abbastanza ora al fuoco della lotta, ora delle repressioni violente e ora delle disillusioni, soprattutto quando il tradimento ti colpisce alle spalle ad opera dei tuoi stessi compagni.

Non è vero, non è mai stato vero che il partito sorge solo nella fase storica dell’assalto rivoluzionario ma al contrario esso ha bisogno di militare per tutta una fase storica prima di raggiungere la sua pienezza di organo abilitato alla guida e all’azione rivoluzionaria.

Va osservato a questo proposito la ridevole confusione abbattutasi tra questi compagni al susseguirsi dei moti spontanei delle masse operaie verificatisi soprattutto nei paesi del blocco sovietico, confusione che ha raggiunto il parossismo di fronte agli avvenimenti ungheresi che hanno considerato chi, ad es. il gruppetto della emigrazione in Francia, come azione provocatoria del capitalismo americano; chi ha invece visto nell’intervento armato russo la difesa di istituzioni e di conquiste, se non comuniste, comunque capitalisticamente progressive che andavano salvate di fronte all’attacco del capitalismo occidentale; e chi infine, ha visto negli avvenimenti la realizzazione di un fronte nazionale antirusso ivi comprese le forze armate dei “consigli operai”. La teoria possibilista, che distingue tra reazione e reazione; tra Thiers e Stalin; tra Stalin e Kruscev; tra la reazione esercitata da un capitalismo parassitario e quella esercitata da un capitalismo progressivo, non poteva dare frutti diversi.

Si trattava invece di una esperienza che andava sottoposta al vaglio della critica marxista per individuarne gli aspetti positivi di classe incontestabilmente prevalenti e per rilevarne nel tempo stesso quelli negativi soprattutto per chi vorrebbe trasferire agli organismi di fabbrica, privi di tradizione politica, senza una visione unitaria dei compiti fondamentali della classe e soprattutto senza alcuna garanzia di continuità organizzativa, di direzione e di lotta, i compiti che sono propri del partito della classe operaia..

Bisognava dire, e noi lo abbiamo detto e ripetuto, che i “consigli” sono, sì, la più alta espressione organica della lotta operaia e della sua coscienza rivoluzionaria, ma che senza la presenza del partito di classe si potrà pervenire all’insurrezione, in nessun caso alla rivoluzione socialista.

In una parola noi respingiamo l’idea che fa del partito una entità astratta, non legata a possibilità obiettive, non resa viva, non verificata con la realtà mutevole della lotta, non tradotta cioè in termini di vita operaia secondo gli obiettivi della lotta rivoluzionaria. Un tale partito sarebbe soltanto di comodo, un circolo di cultura che si sposta come un qualsiasi carro di Tespi in cui l’uno disserta e i compagni, ridotti a semplici iloti della cultura, annuiscono.

No, la concezione di un tale partito non è quella di Lenin che ha speso tutta una vita sui libri e nella lotta e nell’esilio per preparare quel materiale umano senza il quale il proletariato internazionale non avrebbe avuto le giornate di Ottobre; e se la rivoluzione bolscevica è un dato incontestabile della storia lo si deve al fatto che quel partito era legato alla classe operaia e questa al suo partito come in un tutto inscindibile, in una fase resa obiettivamente favorevole alla soluzione rivoluzionaria dal crollo di uno dei pilastri della guerra e dell’imperialismo.

Non è forse qui, in questi problemi, la netta linea di demarcazione tra leninismo e blanquismo?

È superfluo dire che il nostro posto, il posto del nostro partito è sempre stato e rimane dalla parte di Lenin.


 

Il partito



Conseguenti al principio della tradizione storica del partito di classe, ci siamo posti i problemi inerenti alla sua esistenza persuasi che il porseli, questi problemi, non significa averli risolti, ma soltanto incominciare a risolverli.

Pregiudizialmente dunque il problema centrale che è stato ed è alla base delle nostre maggiori preoccupazioni è quello della esistenza del partito, il che può anche significare, come infatti praticamente significa, esistenza dei quadri del partito, e di renderlo adeguato ai compiti che gli provengono dal mutare delle situazioni quale che sia la sua consistenza numerica, la capacità attuale di penetrazione e il raggio della sua attività e nella direzione delle masse operaie e sul fronte della lotta anticapitalista.

Quel che conta è trovare costantemente la conferma della esattezza delle nostre idee e della nostra critica nello svolgersi degli avvenimenti, seguire da vicino la corrosione che la dialettica di classe opera sul corpo dei partiti di massa, che si richiamano comunque al socialismo per favorire tale corrosione con una spietata e tagliente critica marxistica, ma anche e soprattutto per annodare al partito, senza accorgimenti tattici e soluzioni amministrative, cioè senza venire a compromessi, tutti coloro che dimostrano di essere disposti a battersi contro il capitalismo e i partiti che lo sostengono partendo dal postulato della dottrina elaborata da Marx-Engels e da Lenin.

In questo senso noi non abbiamo la psicologia di chi ha paura di sporcarsi le mani; non temiamo, anzi cerchiamo noi stessi il dialogo con chi dice d’essere interessato, come elemento di classe, ai problemi del socialismo e della rivoluzione e vuol essere partecipe all’opera della faticosa ricostruzione del partito della classe operaia e non esprimiamo particolari ripugnanze e irosità verso quei compagni che, dopo aver condotto a termine una loro lunga, forse troppo lunga esperienza negativa, nello stalinismo, hanno finalmente rotto o intendono rompere col partito di Togliatti, se in essi è chiara la coscienza di far loro l’ideologia, la tattica e la disciplina del partito di Lenin.

Si vanno riaffacciando oggi, anche se in una situazione sotto certi aspetti diversa, gli stessi problemi di fondo, le stesse preoccupazioni verso uomini e correnti che si presentarono nella fase preparatoria del Convegno di Imola e del Congresso di Livorno da cui doveva uscire il Partito Comunista d’Italia.

Allora la frazione astensionista del partito socialista era indubbiamente, data la forte caratterizzazione impressa alla sua piattaforma teorica e la efficiente ramificazione dei suoi gruppi su scala nazionale, l’organizzazione più viva e operante in opposizione alla linea politica della Direzione del partito e poteva già considerarsi, in embrione, un partito nel partito. Tuttavia Bordiga, nel momento più acuto della crisi del primo dopoguerra e quando più forte si era fatta la suggestione della esperienza del primo stato proletario uscito dalla Rivoluzione d’ottobre, se da un lato aveva sentito piùd’ogni altro la necessità della presenza d’un partito concretamente rivoluzionario, dall’altro aveva chiara la coscienza dei limiti della possibilità di affermazione della frazione astensionistica come partito della classe operaia. Anche se si fosse avuta la scissione al congresso di Bologna (1919), la frazione astensionista come tale non avrebbe obiettivamente potuto dar corpo ad un partito adeguato alla situazione e ai compiti della rivoluzione incombente. Se alla frazione astensionista fosse stata attribuita questa possibilità di affermazione, il non aver scissionato a Bologna, sarebbe stato errore di tali proporzioni da compromettere per sempre e l’impostazione teorica della frazione e la sua organizzazione e il nome del suo maggiore animatore.

Ecco perché Imola è stato praticamente il convegno del compromesso, una anticipazione pratica del “blocco storico” gramsciano in funzione delle forze di sinistra nel partito socialista, un centro, insomma, di convergenze di correnti di formazione diversa e tra loro in contrasto in molti problemi anche d’importanza fondamentale. Questa convergenza di forze, per la verità, non ebbe come centro la frazione astensionista anche se questa rappresentava il nucleo di maggior rilievo, ma il pensiero di Lenin e il fascino della Rivoluzione d’ottobre e le esigenze organizzative dell’Internazionale Comunista.

Del resto tutto ciò avveniva non in contrasto col pensiero della frazione astensionista, ma in perfetta armonia coi suoi stessi deliberati; si ricordi in proposito la mozione conclusiva della Conferenza Nazionale della frazione tenutasi a Firenze (8-9 maggio 1920), accapo 3, che dava mandato al C.C. “di convocare immediatamente, dopo il congresso internazionale, il congresso costituente del Partito Comunista, invitando ad aderirvi tutti i gruppi che sono sul terreno del programma comunista dentro e fuori del Partito Socialista Italiano”. Soltanto che Imola e Livorno daranno poco dopo a tale direttiva tattica una traduzione teorico-organizzativa assai peggiorata.

Ecco i gruppi e le correnti che aderiranno in condizioni di parità al Congresso di Imola e formeranno l’ossatura del partito di Livorno.

  1. La frazione astensionista di cui abbiamo fatto cenno più sopra e che merita una trattazione a parte per quel che ha rappresentato di positivo in questa fase di preparazione del partito e per quel che ha rappresentato di negativo per il suo eclettismo tanto nella formulazione come nell’applicazione sul piano della politica attiva delle sue tesi sull’astensionismo. Nella fase pre-Livorno, non dissimile sotto questo rapporto dalla fase attuale, il problema essenziale era quello della formazione del partito rivoluzionario e non quello dell’astensionismo, e non era storicamente possibile costituire tale partito su una base programmatica in cui l’ideologia astensionista avesse una parte preminente.
  2. Il gruppo dell’“Ordine Nuovo”. Per la natura della sua composizione sociale e soprattutto intellettuale questo gruppo appariva come una anticipazione della tendenza, che poi si farà strada, che attribuisce agli intellettuali il ruolo primordiale o in connessione a quello giocato dagli operai tanto nell’ambito della fabbrica come nel più vasto quadro dell’azione rivoluzionaria.

Influenzato dal neoidealismo allora prevalente nel mondo della cultura borghese, il gruppo tendeva al marxismo, ma ad un marxismo filtrato nel setaccio dell’idealismo in contrasto con gli schemi tradizionali del socialismo e della stessa sinistra socialista.

Infatti mentre la frazione di sinistra pensava che la rivoluzione è subordinata alla esistenza del partito e mira alla conquista dei suoi organi dirigenti per imprimere loro una volontà e una direzione rivoluzionaria seguendo in ciò la linea tradizionale del partito di classe, gli ordinovisti credevano meno a questo ruolo fondamentale del partito e spostavano la loro attenzione verso la fabbrica capitalista che consideravano

come forma necessaria della classe operaia, come organismo politico, come “territorio nazionale” dell’antagonismo operaio.

Per questi compagni, a differenza del partito e del sindacato, il Consiglio

si sviluppa non aritmeticamente ma morfologicamente, e tende, nelle sue forme superiori, a dare il rilievo proletario dell’apparecchio di produzione e di scambio creato dal capitalismo ai fini del profitto.

L’urgere di questa nuova fioritura di poteri (l’organizzazione dei consigli) che sale irresistibilmente dalle grandi masse lavoratrici, determinerà l’urto violento delle due classi e l’affermarsi della dittatura proletaria. Se non si gettano le basi del processo rivoluzionario nell’intimità della vita proletaria, la rivoluzione rimarrà uno sterile appello alla volontà…

Il contrasto tra le due correnti si precisa perciò nell’idea centrale: partito e Consigli; il partito trova il suo ambiente storico nella struttura territoriale e negli organismi politico-amministrativi dati dallo sviluppo del capitalismo, mentre i Consigli incarnano lo slancio vitale, il ritmo di progresso della società comunista; nel partito si condensa la forma più alta della coscienza del proletariato, la sua dottrina e la teoria della sua rivoluzione di classe, mentre nei Consigli la solidarietà operaia

è incarnata anche nel più trascurabile dei momenti della produzione industriale…; è un tutto organico, un sistema omogeneo e compatto che afferma la sua sovranità, attua il suo potere e la sua libertà di storia.

Si può quindi concludere che queste due correnti, le maggiori che formarono il Partito Comunista, potevano avere in comune la visione dello sbocco finale dell’azione rivoluzionaria ma erano quanto mai lontane nei motivi originari, nei metodi e nel modo stesso di sentire il marxismo, facendo gli uni professione di ortodossia e di integralismo, inclinando gli altri verso concezioni sindacaliste rivoluzionarie alla De Leon a cui si riallacciano oggi le tendenze operaiste.

La cerchia della confusione teorica e tattica dei gruppi che confluirono al convegno di Imola si allargherebbe ulteriormente se prendessimo in esame correnti minori e adesioni individuali, dalla mozione-passerella di Graziadei-Marabini, al massimalismo elettoralistico dei molti deputati presenti o di aspiranti tali e alla adesione di giovani combattenti rivoluzionari saldamente ancorati al marxismo tuttavia non inquadrabili in nessuna particolare scuola o tendenza.

Bisognerà ritornare all’esperienza di Imola nel riporre il problema della ricostruzione del partito là dove l’opportunismo parlamentare, la corruzione del carrierismo e il prevalere di interessi di classe avversa ne hanno spento il vigore della lotta, ne hanno offuscato gli obiettivi dopo averne corrotto il patrimonio ideale. Partendo da questa conoscenza critica si capirà il perché dei limiti, delle insufficienze e delle contraddizioni che accompagnarono la formazione del Partito Comunista d’Italia.

Potranno essere evitati tali aspetti negativi nelle nuove esperienze?

Noi rimaniamo del parere che più che agli accorgimenti organizzativi, e alle disposizioni statutarie, oltre che al dissolvimento dei gruppi, in quanto gruppi, si debba porre l’accento sul dissolvimento delle loro ideologie per quel tanto che hanno in sé di estraneo al marxismo per trovare l’unità non solo negli aspetti del tutto formali dell’organizzazione (scioglimento dei gruppi, adesioni individuali, candidatura ecc.), ma su l’adesione incondizionata e integrale ad una piattaforma teorico-pratica da cui scaturisca quella disciplina consapevole che cementa le forze, ne attenua progressivamente i contrasti e garantisce la continuità della lotta rivoluzionaria. E siamo stati fin qui conseguenti a questa impostazione critica maturata in noi anche e soprattutto dall’esperienza vissuta nella fase di formazione del partito di Livorno.


Partito centralizzato, si - Centralismo sul partito, no



Va innanzitutto affrontato il problema del centralismo che i “programmisti” non sono mai riusciti a definire in modo “organico”, legato perciò all’interpretazione di una data esperienza, non relegata in astrazioni del tutto formali e scolastiche.

Così argomentano questi “sinistri” andati a male: Nell’internazionale di Lenin, non essendoci “partiti comunisti puri” l’utilizzazione del meccanismo democratico era indissolubilmente legata a quella data esperienza, in quel particolare momento storico ed è ovvio, quindi, che una internazionale diversa dalla terza, formata da “partiti comunisti puri” dovrebbe essere caratterizzata dall’utilizzazione di un meccanismo interno diverso da quello del centralismo democratico che cessò di essere operante con la scomparsa di Lenin. Quel che è accaduto poi, nell’era staliniana, non rientra nella nostra analisi perché si tratta di un’esperienza che aveva rotto ogni legame con la classe operaia e con gli obiettivi della rivoluzione.

Ma ipotizzare, come fanno i “programmisti”, una organizzazione allo stato di purezza chimica di una internazionale “di partiti comunisti puri” contrapposta a quella di Lenin fatta di “partiti non puri”, è giocare col paradosso metafisico, è formulare i problemi del succedersi degli accadimenti della storia non secondo i canoni del materialismo dialettico, ma secondo un calcolo meccanicistico del tutto formale, con tendenza a perdersi nella nebbia del più vieto idealismo.

Stiano pur certi questi compagni che non vi saranno internazionali di partiti comunisti puri, ma solo internazionali che rifletteranno nel loro seno il bene o il male, la contraddizione e gli assurdi di una società divisa in classi e le classi esse stesse lacerate nel loro interno dalle diverse stratificazioni d’interessi, di condizioni sociali, di cultura, ecc. L’ipotesi di partiti comunisti allo stato puro e d’una loro organizzazione mondiale altrettanto pura, anche quando è semplice aspirazione, esula da ogni seria indagine che si richiami al marxismo e somiglia stranamente a certa mistica che ebbe i suoi saturnali nel ventennale fascista.

L’internazionale di Lenin ha certo riprodotto nei suoi partiti le carenze e le immaturità proprie della fase storica che ha fatto seguito al crollo della II Internazionale e alla crisi che allora dilaniava il mondo capitalistico. Ogni organizzazione del proletariato, per conseguenza, riprodurrà, certo in una fase più avanzata e su scala inversamente proporzionale, i caratteri del periodo storico nel quale si esprime. Ed è certo che gli aspetti negativi presenti nella III Internazionale saranno di fatto presenti, anche se diversamente articolati, nelle future organizzazioni internazionali, come ampiamente è dimostrato dalle condizioni obiettive in cui si muovono i vari raggruppamenti della sinistra comunista che rivendicano il diritto di portare il loro apporto alla ricostruzione del partito del proletariato internazionale. Tra questi raggruppamenti, quello che più soffre di insofferenze e di crisi e dove più profondamente opera la dinamica del centralismo democratico, è proprio quello bordighista di “Programma” per l’esplodere ciclico delle sue interne contraddizioni. A proposito di una terza internazionale che oggi, per comodità polemica, i “programmisti” vorrebbero far passare come composta da partiti non puri, in evidente contraddizione con le posizioni attuali, ecco come giudicava Bordiga l’Internazionale di Lenin:

Dopo la restaurazione della teoria proletaria, l’opera della Terza Internazionale grandeggia nella applicazione concreta della divisione dagli opportunisti di tutti i paesi, nella messa al bando dalle file dell’avanguardia operaia mondiale di riformisti, socialdemocratici, con-centristi di ogni categoria. La palingenesi si svolge in tutti i vecchi partiti, e si costituiscono le basi dei nuovi partiti rivoluzionari del proletariato. Lenin guida con mano ferrea la difficile operazione fugando incertezze e debolezze possibili.

Il lato forte di questi bordighisti è proprio l’inconseguenza!

E non è proprio questo raggruppamento, con la sua struttura di élite aristocratica e intellettualistica, con un marxismo elaborato nei filtri o nei lambicchi di gabinetto più che nella tempesta del conflitto di classe a provare l’esattezza di quanto andiamo affermando?

E allora come risolvere con correttezza leninista il bisticcio delle due facce del centralismo?

Nella fase della dominazione imperialista e delle rivoluzioni proletarie non è concepibile l’esistenza d’una organizzazione del partito rivoluzionario che non si articoli sulla base di una struttura fortemente centralizzata; è il segno, questo, forse più spettacolare che la distingue da quella dei partiti parlamentari. Se il centralismo rappresenta dunque una esigenza imperativamente imposta dal conflitto di classe, gli attributi di “democratico” ed “organico” definiscono termini del tutto soggettivi di una distinzione polemica che non ha mai inciso nella sostanza della centralizzazione. Chi infatti, sa dirci con assoluta precisione fin dove gli organi preposti alla centralizzazione si avvalgano degli strumenti della democrazia (controllo e partecipazione attiva e operante della base) e fin dove invece si avvalgono degli strumenti dei centri di potere per una politica caporalesca affidata alla persona fisica del capo e per esso al Comitato Centrale?

Per i bordighisti di “Programma” il problema è posto in termini tali quali sono usciti dalla pratica controrivoluzionaria dello stalinismo.

Ecco come hanno tentato, finalmente, di precisare quell’araba fenice teorica che va sotto il nome di centralismo organico. Lo riproduciamo con le stesse parole in cui è stato formulato.

Ma bisogna chiarire una volta per tutte il rapporto che deve esistere tra il Centro e la base perché il partito sia strutturato ed operi secondo l’insegnamento leninista. Ma se tra la base del partito ed il centro vige un costante rapporto dialettico, è ovviamente sulla base di tale rapporto che il Centro elabora la sua azione tattica nel quadro della piattaforma teorico-politica che il partito si è data. Lenin non ha mai indicato né in sede di semplice elaborazione teorica, né in sede di azione politico-organizzativa che si possa agire diversamente. Ed allora che cosa significa la formula organizzativa d’un Comitato Centrale o d’un capo che faccia affidamento su se stesso, sulle proprie capacità in quanto legato ad una “rosa” di possibili mosse già previste (sono nostre le sottolineature) in corrispondenza di non meno previste eventualità, e la “cosiddetta base può essere utilmente tenuta ad eseguire i movimenti indicati dal Centro?”.

Significa semplicemente quello che ha significato la politica del Comitato Centrale nel periodo di Stalin, resa possibile dall’avvenuta eliminazione delle forze di classe del proletariato dall’esercizio della sua dittatura, la rottura profonda ed irrimediabile tra la base del partito e il suo Centro di direzione e il conseguente scivolamento verso l’aperta ricostruzione del capitalismo; significa infine che il Comitato Centrale del partito comunista russo e lo stesso Stalin erano legati ad una “rosa” di possibili mosse che avevano perfettamente previste in corrispondenza di eventualità che si sarebbero, con altrettanta esattezza, realizzate nei termini e nella realtà che tutti conosciamo.

Questa che denunciamo è la riprova classica delle conseguenze, in ogni caso disastrose, che si determinano in un partito che si riteneva rivoluzionario quando il suo organo centrale, come organismo a sé, opera all’infuori dei legami e del controllo con la base dell’organizzazione.

Ma una riprova più vicina alla nostra esperienza, viene offerta proprio da chi teorizza o lascia teorizzare questa risibile divisione di compiti tra una base politica tenuta ad eseguire i movimenti indicati dal Centro e un Centro a cui verrebbe demandata una facoltà divinatoria di previsioni ed offre dati veramente non molto incoraggianti. E si tratta, in fatto di preparazione e di lunga milizia, cli compagni altamente qualificati e che riscuoteranno rispetto e fiducia da parte di tutto il partito.

Ma il centro del P.C.d’I., attraverso la dichiarazione di Bordiga fatta al Comintern, non era forse legato a questa rosa di possibili mosse che negavano la prospettiva della salita al potere del fascismo nel momento stesso in cui era in atto la marcia su Roma? E tale madornale errore di prospettiva non era forse “in corrispondenza della non meno prevista eventualità”, quella di portare allo sbaraglio il partito con la tattica dell’offensiva per l’offensiva?

E chi ha elaborato in base ad un’analisi “scientifica” dell’economia russa la definizione della rivoluzione d’Ottobre come rivoluzione antifeudale dopo averla esaltata come socialista? Non aveva affermato Bordiga (Lenin nel cammino della rivoluzione): “La rivoluzione sarà fatta in Russia dalla classe operaia e per se stessa”? E inoltre: “Il potere dei Soviet ha vinto; la dittatura del proletariato teorizzata da Marx, fa il suo ingresso tremendo nella realtà della storia”?

Come giudicare chi, esponente più di rilievo del partito e “della sinistra comunista” non accetta di “militare” nel Partito Comunista Internazionalista all’atto della sua formazione, perché riteneva un errore la lotta frontale contro il partito nazionalcomunista con la scusa che gli operai erano nel partito di Togliatti e poi, a scissione avvenuta, accetta di entrarvi a condizione che il troncone rimastogli fedele venga politicamente castrato e ridotto ad una setta di ripetitori di formulette, non sempre digerite?

Quale è stato il suo apporto alla elaborazione di un esame critico della natura della seconda guerra mondiale e del ruolo giocato dalla Russia come una delle maggiori componenti dello schieramento imperialista, egli che respingeva contro di noi la definizione di capitalismo di Stato relativa alla Russia per teorizzare una forma spuria di “industrialismo di Stato”?

Gli interrogativi potrebbero continuare, ma riteniamo debbano bastare per capire quanto sia mal fondata, precaria e obiettivamente deleteria la pretesa di affidare a Comitati Centrali e a questa o quella personalità, quale che sia la loro statura, doti divinatorie e compiti di indiscriminata elaborazione teorica e funzioni cli guida all’infuori e al di sopra del partito considerato nella sua complessità unitaria.

Lenin, il più personale e il più autoritario, quello per intenderci delle “tesi di Aprile” o quello della disperata determinazione di “andare ai marinai” scavalcando gli organi centrali del parti to bolscevico anchilosati su posizioni di incomprensione e di compromesso,. non era il Lenin del centralismo organico e neppure democratico, ma il capo della rivoluzione montante, il solo che avesse capito e fatte sue le istanze della classe operaia e questo perché aveva i piedi ben saldi sul terreno di classe, perché pensava e operava nella classe e per la classe ed aveva vivissimo il senso della storia che insegna che la rivoluzione ama essere violentata e disprezza i pavidi che non osano e rimandano sempre al giorno dopo.

In questo costante nesso dialettico tra la base e il vertice del partito, in questa giusta integrazione di libertà e autorità, sta la soluzione del problema che tanto e forse troppo ha dato materia all’intenzione e all’opera dei guastatori di professione.

Il partito rivoluzionario che non è una astrazione e che è chiamato ad affrontare i problemi della sua lotta nel clima storico nel quale dominano indisturbate autorità e violenza, non può essere strutturato che nel pieno della più ferrea unità per divenire sempre di più uno strumento vivo di combattimento. Serra perciò le fila secondo la spinta generale impressa dalla controrivoluzione. Il partito rivoluzionario non scimmiotta in ciò i partiti della borghesia ma obbedisce alla necessità di adeguare la sua struttura organizzativa alla condizione obiettiva della lotta rivoluzionaria.

È principio tattico elementare quello che il partito rivoluzionario, nel suo muoversi, debba tener conto delle caratteristiche del terreno in cui opera e disporre di quadri adeguatamente preparati a questo compito.

Sul centralismo non crediamo debbano esistere dissensi, questi incominciano quando esso viene inteso sotto il profilo “democratico” o sotto il profilo “organico”. L’uso o peggio, l’abuso “organico” può condurre a forme di degenerazione autoritaria rompendo il nesso dialettico che deve intercorrere tra vertice e base.

L’esperienza di Lenin è pertanto sempre valida e vitale per aver saputo fondere in una visione di insieme i termini apparentemente contraddittori del centralismo tanto “democratico” che “organico”.


Circoli e partito rivoluzionario



Dopo aver precisato il pensiero tradizionale del partito sul problema del centralismo, che solo l’abitudine al sofisma e alla pedanteria formale o alla mistificazione ha posto al centro di un dibattito che non ha né capo né coda e ha ridotto a quisquilia da salotto il problema se tale centralismo dovrà essere “democratico e organico”, noi riteniamo che il centralismo come è stato inteso e praticato da Lenin sia la forma più idonea alla funzionalità d’un partito rivoluzionario chiamato a risolvere il grave compito di organizzazione e di guida dell’evento più irrazionale e violento, più ricco di imprevisti, di incognite e di inesorabilità quale quello della conquista rivoluzionaria del potere capitalista, il più esperto e inesorabile organizzatore di violenza, ora legale e ora organizzata e armata, che la storia ricordi.

Ma un partito rivoluzionario, che non potrà essere formato nella sua stragrande maggioranza che da quadri operai selezionati dalla lotta di classe, sarà un potente strumento d’azione rivoluzionaria nella misura che la sua ferrea unità vedrà risolto il problema di una permanente interdipendenza tra vertici e base della organizzazione, nella misura cioè che sarà vivo e operante, nella coscienza collettiva del partito, il nesso costante tra libertà e disciplina.

E veniamo all’altro aspetto del dibattito, aperto in modo così maldestro e inconsiderato da “Programma”, quello dei “circoli” in cui oggi sembra rinchiudersi e quasi smarrirsi tanta e così caotica disseminazione della sinistra antistalinista. Usiamo l’attributo “antistalinista” e non quello “rivoluzionario” per l’ovvia considerazione che l’antistalinista non sempre è rivoluzionario: anzi lo è solo in qualche caso.

A che cosa e a chi si vuole dunque alludere con la denominazione di circoli? Quali sono in realtà? Quali le analogie o meno con la fase storica caratterizzata appunto dai circoli del periodo della vecchia “Iskra”?

Vi sono oggi le condizioni obiettive perché tali circoli, nella ipotesi che essi esistano, possano giocare un ruolo di componente, anche se non determinante nella ricostruzione del partito rivoluzionario?

Ritorniamo sempre volentieri, soprattutto per quel che di fresco e di sempre nuovo sprigiona, alle vicende che precedettero il II Congresso negli anni della preparazione (1890-1900) quando era necessario portare a compimento l’opera della delimitazione ideologica, politica e organizzativa delle varie organizzazioni in cui era allora diviso il fronte delle forze che tendevano alla loro unificazione in partito sul piano elaborato dalla vecchia “Iskra”.

Anche per Lenin era la tendenza storica del partito che poneva sul primo piano (si tenga presente che ciò avveniva a due, tre anni dal 1905, l’anno della prima rivoluzione) la convergenza dei molti gruppi nei quali fosse possibile individuare, se non una piattaforma comune, almeno un minimo denominatore comune che servisse da necessario cemento. Ecco come Lenin precisa il compito essenziale assegnato al Congresso:

quello di creare un vero partito fondato sui princìpi ideologici e organizzativi che erano stati formulati ed elaborati dall’ “Iskra”. Che il congresso dovesse lavorare appunto in questa direzione, era già stato stabilito dai tre anni di attività dell’ “Iskra” e dal fatto che essa era statà riconosciuta dalla maggioranza dei comitati. Il programma e la tendenza dell’ “Iskra” dovevano diventare il programma e la tendenza del partito; i piani dell’ “Iskra” circa le questioni organizzative dovevano venire sanzionati dallo statuto d’organizzazione del partito. Ma è ovvio che questo risultato non poteva venire raggiunto senza lotta: la rappresentanza completa assicurò al congresso anche la presenza di quelle organizzazioni che avevano lottato decisamente contro l’ “Iskra (il Bund e il “Raboceie Dielo”), e di quelle che, riconoscendo a parole nella “Iskra” l’organo dirigente, perseguivano in realtà i loro propri piani e si distinguevano per la loro instabilità nel campo dei princìpi (il gruppo del “Junzi Raboci” e dei delegati di alcuni comitati che vi aderivano). In tali condizioni il congresso non poteva non diventare un’arena di lotte per la vittoria della tendenza iskrista.

E nell’affrontare questo difficile problema della unificazione di forze tutt’altro che omogenee, Lenin sapeva che sul piano dell’ “Iskra” la delimitazione riguardava non solo i gruppi estranei ma gli stessi che rappresentavano l’ “Iskra”, che lo svolgimento del II Congresso avrebbe messo in evidenza.

Il dibattito o meglio lo scontro di tutte le tendenze avverrà non a caso, su qualche articolo dello Statuto non certo per un diverso modo di porre e di risolvere i problemi, di semplice organizzazione, in apparenza del tutto formali, ma in realtà per una loro caratterizzazione ideologico-politica che mirava a selezionare, o meglio a mettere nella impossibilità di coabitazione nella stessa organizzazione forze che tendevano all’unità, forse in buona fede ma incapaci di concepire e di volere, in concreto, il partito come strumento insostituibile della classe e della guida rivoluzionaria.

Che tutto ciò avvenisse nel clima storico della II Internazionale, in cui prevalevano le istanze democratico-parlamentari, la lotta legalitaria e la pratica del compromesso non fa meraviglia, ma quel che può meravigliare è che non sia chiaro come nella esperienza di Lenin, della vecchia “Iskra”, la soluzione dell’assunto organizzativo del partito imponeva un accorgimento di particolare, profonda intuizione politica dello sviluppo rivoluzionario nel contesto di una realtà obiettivamente conservatrice.

Lo scontro tra il Lenin della milizia attiva e i Plekhanov, i Martov e gli Axelrod che auspicavano all’unità del tutto formale del partito perché in esso fosse permanente e operante la caratterizzazione dei “circoli” dei quali bisognava tener conto, essi affermavano, come di “grandezze storiche”, faceva già prevedere come la delimitazione avrebbe operato sul corpo dei circoli come una forza centrifuga nei confronti della organizzazione del partito; la Rivoluzione d’ottobre vedrà infatti queste forze dalla parte opposta della barricata di classe.

 

L’esperienza italiana della fase che precede la formazione del partito non è meno significativa per gli insegnamenti che da essa è stato possibile trarre. Al convegno di Imola, più che al congresso di Livorno, il superamento dei gruppi genericamente caratterizzati a sinistra se ha comportato una non minore asprezza polemica e di attriti interni, tuttavia l’intesa unitaria si è realizzata con una facilità inversamente proporzionale alla sincerità.

Vero è che a ciò ha contribuito in misura determinante la suggestione della rivoluzione di Ottobre; va tuttavia tenuto presente che ad Imola nessun gruppo ha giocato, né poteva giocare, il ruolo che aveva avuto l’ “Iskra” davanti al II congresso. Né gli ordinovisti, né gli astensionisti, né i massimalisti filocomunisti hanno mai sostenuto che il “loro programma e la loro tendenza dovevano diventare il programma e la tendenza del partito di Livorno” tanto li sovrastava la politica del centro dell’Internazionale. È mancata così nel 1921, la presenza di una piattaforma che fosse centro valido di polarizzazione quale era stata l’ “Iskra” negli anni 1890-1900.

Nota comica e pietosa insieme del convegno, l’intervento del rappresentante degli astensionisti che dichiarava solennemente lo scioglimento della frazione e della sua maggiore istanza, quella dell’astensionismo, per tacitare i sospetti e le ire mal contenute dei deputati massimalisti ed espresse durante i lavori dalla viva eloquenza di Luigi Salvatori. Sempre ad Imola, nota altrettanto comica e pietosa è il sacrificio dell’ordinovismo fatto sull’altare del partito che stava per sorgere.

Tutto ciò è avvenuto in una situazione montante delle possibilità reali della rivoluzione; ma che cosa accadrà a situazione mutata e nel deflusso dell’ondata rivoluzionaria, venuta ad infrangersi contro il muro della controrivoluzione? Accadrà quel che è infatti accaduto dal 1924 in poi quando ai Gramsci e ai Togliatti sono rispuntate le corna antiche, i vizi originari dell’idealismo e del concretismo fusi nella esperienza torinese dell’“Ordine nuovo”, armi spuntate che si voleva fossero più idonee ad esprimere idee e metodi più consoni alle mutate condizioni della lotta operaia, quando si è voluto sostituire, con una politica di compromesso e di obiettivi contingenti, le prospettive della rivoluzione ininterrotta e della fine catastrofica del conflitto di classe, quando in una parola, bisognava diventare legalitari nella e per la costituzione repubblicana solo perché l’apparente, transitorio consolidamento del capitalismo aveva ricreato l’illusione d’una democrazia “immarcescibile” non soggetta cioè all’usura del tempo e delle mutevoli e contraddittorie vicende del capitale.

 

Alla luce della duplice esperienza possiamo ora affrontare l’esame della situazione odierna nella quale la frantumazione in gruppi della generica sinistra comunista è originata da cause profondamente diverse da quelle esaminate fin qui anche se il problema di fondo rimane sempre lo stesso, la ricostruzione di un partito adeguato alle esigenze della lotta rivoluzionaria.

Ma intendiamoci innanzitutto sulla vera natura di tali gruppi delimitandone, più che la consistenza numerica, certe note caratteristiche ideologico-politiche.

È sconcertante come tutti si richiamino alla necessità del partito e come ognuno pretenda di essere in “nuce” il partito.

In questo senso si può dire che per statura d’uomini, per preveggenza politica e senso di responsabilità, quel che offre oggi la situazione delle minoranze rivoluzionarie sia assai al di sotto dell’esperienza della vecchia “Iskra” e dello stesso convegno di Imola.

Se non si può accettare il criterio discriminatorio tra i gruppi della sinistra comunista, tuttavia sarebbe ingiustificato e politicamente miope, non tener conto dei dati obiettivi che conferiscono legittimità storica alla elaborazione teorica d’una linea costante e conseguente di opposizione ad ogni politica di compromesso e di capitolazione e alla costruzione di una base organizzativa di quadri selezionati passati alla storia del movimento operaio come “sinistra comunista”, dal cui seno è nato il Partito Comunista Internazionalista nel suo insieme, dopo essere stata opposizione di sinistra nel Partito Socialista fino al Congresso di Livorno, maggioranza nel Partito Comunista d’Italia fino alla bolscevizzazione del partito, tornata quindi alla opposizione fino allo scoppio della seconda guerra mondiale e organizzatasi in frazione in Francia e Belgio nel 1927 in stretto permanente collegamento con il Centro interno che avrebbe deciso, nel 1945, la sua trasformazione in partito su di una linea di classe che in tutti questi anni non si è mai piegata né spezzata di fronte al duplice attacco delle forze tradizionali dell’avversario di classe e delle nuove forze reazionarie dello stalinismo. Ed è qui, in questo solco non sempre agevole a lavorarvi dentro, ma pur sempre fertile, che bisogna ricercare idee, motivi e nuove energie di uomini e di esperienze per prendere in mano decisamente, e con il prestigio dovuto e la necessaria autorità morale e politica, l’opera immane della costruzione del partito rivoluzionario.

Oltre i comunisti internazionalisti, cui questo compito spetta non per diritto naturale o divino, né per diritto di primogenitura e neppure per essere considerati i “primi inter pares”, esistono altri raggruppamenti. venuti fuori di recente dalla crisi interna del P.C.I., di cui non discutiamo né la buona fede né la capacità, ma questi non sono attributi sufficienti per militanti rivoluzionari se essi stessi non si dimostrano altrettanto capaci di affrontare e di portare fino in fondo un riesame critico della loro condotta politica di fronte ai maggiori problemi, quali la natura di classe dello Stato sovietico e il carattere della sua organizzazione economica e politica; la natura della guerra in generale e delle guerre coloniali in particolare, nella fase storica del dominio imperialista e del capitale finanziario, e infine l’accettazione o meno della strategia rivoluzionaria che vuole che in Russia, in Cina e nei paesi retti a regime di democrazia, alleati diretti o indiretti di questi due centri di potere, si ponga in totalità il problema della riconquista del potere che spezzi le strutture della economia mercantile capitalistica su cui è eretto il potere del Capitalismo di Stato.

Il frazionamento di queste forze è da attribuirsi quasi esclusivamente a quel processo di decomposizione cadaverica del primo Stato operaio generatore d’un nuovo opportunismo quale quello che considera il Capitalismo di Stato, in Russia, come la fase d’obbligo della costruzione del socialismo o, meglio, come la fase necessaria del socialismo inferiore.

Chi non tiene conto di questo quadro non può capire che cosa ci possa essere di comune tra la esperienza della vecchia “Iskra” di Lenin che aveva per sfondo storico la seconda Internazionale e la presente situazione nella quale il problema storico del partito rivoluzionario trova i suoi limiti maggiori, a volte invalicabili, proprio in quel terreno del proletariato che è fortemente se-dimentato di stalinismo da cui trae alimento quella mala fungaia che si chiama ora trotskismo, ora bordighismo, ora maoismo che pretende, ognuno, impersonare la ideologia della rivoluzione ma in realtà tende a ridurre questo patrimonio politico di tutto il proletariato, alla propria statura intellettuale, alla propria vanità quando non al proprio tornaconto personale.

C’è dunque una non lieve differenza tra i gruppi che si richiamano all’internazionalismo in quanto minoranza storica e tendono a confluire in una organizzazione unitaria e quelli che, pur dichiarandosi comunisti internazionalisti, provengono in genere dalla crisi cronica del P.C.I. I primi sono attestati su posizioni di rottura di classe con la ideologia e con la politica del P.C.I. che ha imperversato e imperversa tuttora nel nostro paese, mentre i secocndi, trotskisti, maoisti, azionisti nella edizione filocinese, devono dimostrare in sede di contributo teorico e in sede di attività politica, d’avere rotto ogni legame con l’opportunismo.

E sono in realtà i primi, i gruppi della minoranza storica, che interessano la nostra analisi.

<< (part2)