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MIO PADRE ONORATO
Sono nata il 10/11/1926 poichè mio padre entrò nelle patrie galere il 9 /11/26 e ne uscì sette anni dopo, lo conobbi quando avevo 7 anni.
Era allegro, scherzoso, spesso sarcastico quando bisognava esserlo.
Ebbe sette giorni di “permesso” durante le vacanze carcerarie e venne a casa. Al suo seguito sei poliziotti, che si davano il cambio due per volta. Dormivano con noi, uno di essi, obeso e maturo, russava come un grosso animale e noi passavamo la notte in bianco. Un giorno andammo al cinema e all’uscita li seminammo. Ci divertimmo un mondo quella settimana, passeggiavamo praticamente tutti i pomeriggi.
Tra i poliziotti c’era un giovane calabrese che si era arruolato in polizia perché non aveva lavoro ma avrebbe voluto continuare gli studi: era sveglio e curioso; quasi si scusava con mio padre per quello che faceva. In cambio mio padre gli parlava di filosofia, di storia, della situazione che vivevamo: roba da rispedirlo in galera con il foglio di via.
Noi due felici per la vacanza inaspettata (era morta una vecchia zia, sorella di mia nonna), andavamo in giro per le vie di Milano come due coetanei con Onorato che canticchiava a voce alta ritornelli di sua invenzione ( le chicchere e le tazzere , le tazzere e le chicchere) e camminavamo per ore con i segugi che a un certo punto ci chiedevano per favore di fermarci perché loro non ne potevano più.
Ah, la goduria di farla ai “pulè”!
Un giorno, in tempi di vacche magre, mia madre gli raccomandò di non offrire il caffè ai compagni che si riunivano a casa perché non aveva i soldi per comprarlo. Al loro arrivo mio padre esordì : ”Cecca, metti sù il caffè, un buon caffè fa la vita felice”.
Eravamo a Cantù in Brianza, verso la fine della guerra ma ancora (dopo la permanenza in campo di concentramento per tutta la durata del conflitto) in domicilio coatto. Avevamo bisogno di patate e formaggio che si vendevano alla borsa nera nel paese vicino. L’unico mezzo di trasporto era la bicicletta usata verso sera per eludere i controlli, ma mio padre non sapeva andare in bicicletta. Io e mio padre e un gruppetto di compagni, ci avviammo a piedi fuori città perché egli temeva di poter dare spettacolo.
Lo issammo sulla bicicletta e lo spingemmo perché prendesse velocità. Poi, lui in mezzo e noi a fare un cordone “sanitario”ai lati e dietro. Ogni tanto quando c’era qualcuno sulla strada gridava: pista! A pieni polmoni e così arrivammo, sempre fuori dal paese, per farlo scendere senza essere visti. Al ritorno stessa storia: il drappello con Onorato, patate e formaggio giunse alla meta.
Ricordo quando mise nello spezzatino (era stato un miracolo aver trovato quel pezzo di carne) della soda caustica al posto del sale e dovemmo buttare via tutto.
O quella volta che doveva tenere una conferenza a Parma, e non avendo preso il caffè a letto come faceva tutti i giorni, ( mia madre non aveva fatto in tempo a prepararlo), si alzò tardi, perse il treno, prese il primo che partiva in quel momento e si ritrovò a Genova.
Mi ricordo i sui occhi luccicanti di piacere il giorno in cui portai la pagella (ero al liceo) con la media del nove e un quattro in ginnastica perché avevo sempre rifiutato di indossare la divisa fascista.
Era sempre luccicante il suo sguardo, ma un po’ preoccupato quando mi vide tornare a casa perché nel bel mezzo di una parata ginnica “obbligatoria” , ruppi le fila davanti al palco delle autorità dopo aver buttato a terra il giavellotto. Nonostante la preoccupazione di un eventuale rappresaglia, era contento come una pasqua e gongolava di piacere.
Si mantenne così, sempre ironico, scherzoso, con la voglia di fare, di ributtarsi in politica e ricominciare la sua battaglia.
Dora Damen