Le fauci del Capitale ben salde nella giugulare della forza lavoro

Creato: 01 Aprile 2020 Ultima modifica: 14 Aprile 2020
Scritto da Antonio Noviello Visite: 1167

dalla rivista D-M-D' N°14

op pulizieAbstract: le contraddizioni del capitalismo sono giunte a un punto tale che sembrano amplificare il divario tra la dittatura della borghesia e la possibilità del proletariato di divenire protagonista della sua storia.

Attraverso alcuni racconti di vita reale, di lavoro giornaliero fatto di soprusi, di sfruttamento massivo, di contratti non rispettati, di precariato, di instabilità totale, si cerca di osservare – da dentro – come la classe lavoratrice (che si tratti di operai di fabbrica, di addetti alle pulizie e servizi o di informatici altamente specializzati, …) sia scivolata in un baratro con poche attenuanti, se non la rivoluzione. L’unica possibilità, quella della rivoluzione, necessaria per invertire il destino di una umanità votata altrimenti al collasso economico, sociale, ambientale, umano.

Capitolo primo

Quello che si è lo decide il contratto.

Protagonista della storia: Maria Giovanna.

Età: 40 anni.

Lavoro: si occupa di pulizie tramite una cooperativa.

Carattere: forte, determinata, in grado di comprendere al primo sguardo le persone.

Breve descrizione: Maria Giovanna lavora per una cooperativa di pulizie. Non è il suo primo e unico lavoro. Ha fatto di tutto nella vita, compreso laurearsi in Psicologia. Sono anni duri, soprattutto per chi si occupa di servizi: le condizioni generali di lavoro sono peggiorate. I contratti sono sempre al ribasso, continue sono le richieste di lavoro non pagato, nessun accordo viene rispettato dai piccoli datori di lavoro. Gli appalti si vincono al massimo ribasso, il che significa lavorare per poche e malpagate ore settimanali. La concorrenza per assicurarsi quel traballante posto, nonostante tutto, è spietata.

Mi dispiace, ora sei solo.

E non puoi mentire.

Sei quello che sei.

Non si scappa mai fino in fondo.

Non s’imbroglia sé stessi.

La realtà ingloba, deforma, non lascia abbastanza spazio alla menzogna.

Chi vuole sentire, senta.

Chi vuole vivere, viva.

Sopravvivere è solo l’altra faccia della morte.

Maria Giovanna, l’addetta alle pulizie, entrava in quella toilette da pulire sempre in religioso silenzio. Nessuna concessione all’ordinario. Si appartava dentro un cono di luce. Quelle frasi scritte in alto, sulla parete proprio sopra l’orinatoio, erano frasi cadenti, non fissate al muro. Come meteoriti infinitesime le finivano sulla testa, la penetravano: imponevano riguardo. Spesso quei frammenti poetici si mescolavano beffardamente all’urina di quel cesso. Maria Giovanna, pulendo attentamente tutto, immaginava di farle lievitare come bolle, e una volta in alto, le inchiodava al muro, pronte per colpire di nuovo: essere lette.

Come un richiamo invisibile, di fronte a quelle poche righe, in Maria Giovanna si accendevano, ogni volta, inesorabili ricordi.

«Ho iniziato da piccola a lavorare. A casa ne avevamo bisogno. Ero la più grande e sulle mie spalle già incombeva il peso dell’esistenza. Stiravo le camicie per don Franco e poi tutto l’arredo sacro. Quante camice stirate! Poi morì. E io ero diventata quasi donna.»

Spruzzò della sostanza sgrassante sullo specchio del bagno. Guardandosi dentro, la sua immagine divenne quasi un abbozzo color pastello.

«Stai invecchiando, guardati: una cascata di capelli bianchi. Una volta erano così neri e ricci. Una selva impenetrabile. Ora sbiaditi, sfibrati, consunti.» Le piaceva utilizzare parole ricercate e desuete, soprattutto pensando tra sé e sé.

Diede un primo colpo di panno bagnato allo specchio, e le strisce opache diluirono ancora di più il suo volto. Guardandosi di nuovo, sospirò.

«I miei non volevano che studiassi. Era un privilegio riservato esclusivamente ai miei fratelli. Io dovevo contribuire, col mio lavoro, al loro futuro. Questo doveva essere il mio ruolo in famiglia!»

Passò a disinfettare il lavandino. Due pezzi di ceramica anni settanta: un piedistallo di sostegno, il lavabo, e sopra della rubinetteria con incrostazioni decennali: ormai dei reperti, null’altro.

«Sei quello che sei», lesse di nuovo.

«E che sono? Ho sposato un uomo. Ne ho amati pochissimi. Forse nessuno. Mi sono convinta che non ne valeva la pena. Amare? Che fregatura! È come passeggiare vestiti di nero in un tunnel autostradale di notte.»

Fece scorrere l’acqua calda e poi riempì il secchio. Aggiunse dell’acido. Passò a lavare compiutamente il vaso.

«Sono dieci anni che strofino cessi. Non mi pesa. È dignitoso. Certo, trovi sempre le stesse sorprese. Qualcuno arriva fuori tempo e lascia qualche residuo. Quasi tutti azzeccano male la mira. Questione di prostata e di pistola. Certo! Oggettivamente essere maschi ha i suoi svantaggi. E poi quella cazzo di carta igienica appallottolata e buttata a terra, dove capita. Uno strazio!»

Dopo la vigorosa lavata, l’odore dell’urina fermentata scomparve.

«Iniziai a lavorare in una fabbrica di pomodori. La mia adolescenza finì dentro un barattolo: fatica, casa, pochi sogni! Volevo scappare lontano. Non si scappa mai fino in fondo. Non ci riuscii. Il mio profondo senso della famiglia m’impediva di fottermene davvero. Di mollare. Dentro al barattolo conobbi “quello lì”. M’illusi di amarlo. Che fregatura il primo amore. L’ennesimo furbetto interessato solo all’ispezione vaginale. Ora per me fare sesso è come pulire una latrina. Ma all’epoca non l’immaginavo così. E imparai tutto in fretta, sempre a mie spese. Ci soffrii molto! La realtà ingloba, deforma, non lascia abbastanza spazio alla menzogna. Mi pietrificai del tutto. Mi scolpii, appuntendomi.»

Adesso tutto sembrava pulito e igienizzato. Restava da svuotare il cestino e dare una lavata finale al pavimento.

«Dopo il diploma serale, decisi di studiare Psicologia. Di notte, per il troppo studio, avevo le convulsioni, ma la mia furia d’imparare mi spingeva avanti. Avida, dovevo primeggiare. Non ammettevo altri sul podio. Feci gli esami senza sosta. Tutti col massimo dei voti. Quella paura tipica di chi sta per sostenere una prova, la trasformavo in aggressività. Non mi intimorivano i prof, li guardavo dritto negl’occhi. Molti tentavano di mettermi in difficoltà. Partivo all’attacco e ogni loro domanda era l’occasione per una mia rivincita con la vita.»

Strizzò il mocio e si apprestò all’ultima passata.

«Arrivò il matrimonio, poi i figli, e infine la separazione. Per tirare avanti ho fatto mille lavori, ma sarebbe meglio dire lavoretti. Una marea di contratti, mai rispettati dai miei padroni, stipendi pagati in ritardo o non pagati affatto. Che io fossi una psicologa non è mai importato a nessuno. Sembra che sia in guerra da quando sono nata. Non ho mai abbassato la testa. E ne pago fino in fondo le conseguenze, ogni giorno. È un mondo, questo, non adatto a chi cerca serenità. Tantomeno a chi richiede rispetto. Non ne parliamo poi della giustizia, e non solo di quella umana, ma anche di quella fatta nei tribunali, da leggi e giudici.»

Si sentì chiamare dalla collega, e i suoi pensieri evaporarono. Lucia le stava andando incontro lungo il corridoio, spingendo il carrello delle pulizie.

«Giovà, hai finito nel bagno?»

«Sì, cosa è rimasto da pulire?»

«Ci stanno le due stanze dell’avvocato. Una la faccio io», disse Lucia.

«Allora pulisco io quella della segretaria.»

«Facciamo subito perché dopo abbiamo quell’assemblea. Mica te ne sei scordata?»

«No, no! È importante. Bisogna decidere insieme come reagire».

«È davvero incredibile che ci chiedano di annullare un contratto firmato appena due mesi, per sostituirlo con un altro, con ore in meno di lavoro, quando poi le ore reali di fatica sono aumentate.»

«Hai sentito le altre?»

«Per la verità qualcuna ha deciso di non venire proprio. Le conosci come sono fatte queste!»

«E che me lo dici a fare? Ogni scusa pur di non inimicarsi il padroncino!»

«Dai, finiamo queste due stanze, e valutiamo come si mettono le cose all’assemblea», concluse Lucia.

Si separarono così come deciso prima.

 


Cosa sarà accaduto a quell’assemblea, di quali proposte si sarà discusso, è facile immaginarlo.

Ormai da anni, in Italia, il regno degli appalti, sia pubblici che privati, sembra investito da una prevedibile sorte, che rende perfettamente il segno di cosa sia diventato il mondo del lavoro.

Vengono chiamati “servizi essenziali”, eppure sono le attività più fruttate e gestite con maggiore ipocrisia pelosa dall’economia attuale.

Maria Giovanna, Lucia, centinaia di migliaia di Maria Giovanna e Lucia garantiscono “igiene e pulizia” in locali e strutture. Scuole, università, ospedali, ministeri, prefetture…. Non si può immaginare nessuno di questi luoghi senza una adeguata attenzione alle pulizie, alla salubrità degli ambienti. Ma tali operazioni, anche quando come nel caso delle strutture sanitarie possono apparire come attinenti al core business e quindi non esternalizzabili, sono sempre affidate in appalto.

Le ragioni sono molte, dal cosiddetto “efficientamento” delle risorse alla possibilità di chiamare (e quindi appostare i fondi necessari) nella voce di bilancio delle forniture e non delle spese per i dipendenti, a una possibilità meno visibile di intermediazione clientelare, e così via. Le ragioni sono molte, appunto, ma l’effetto che determinano è sostanzialmente uno solo: la profonda precarizzazione e ricattabilità del lavoratore.

Maria Giovanna, nell’ipotesi che stia facendo le pulizie in ente pubblico, probabilmente ha cambiato datore di lavoro solo un paio di mesi prima, ma altrettanto probabilmente esegue le stesse mansioni, negli stessi uffici, ormai da anni. Stessi uffici, stessi cestini per la carta, a volte stesse divise, stessi materiali, ma decine di datori di lavoro diversi, uno per ogni cambio appalto.

L’appalto dei servizi di pulizia è un minimo esempio delle decine di attività (beni, forniture e servizi) che vengono appaltati con una frequenza impressionante.

Chi, come Maria Giovanna, ha in quel lavoro la fonte di sostentamento della famiglia, dovrà probabilmente scegliere se accettare una riduzione oraria e quindi di salario, cui non corrisponderà affatto un minor lavoro da svolgere (e, spesso, nemmeno un minore orario di lavoro effettivo): ciò che si dovrà decidere in assemblea sarà, cioè, di svendere a meno un’ora della propria fatica contrabbandandola per un minor numero di ore necessarie a svolgere quel servizio. Una spirale che non si fermerà facilmente. Proliferano, specie nei settori poveri e umili come il pulimento, i cosiddetti “contratti pirata”, ovvero dumping contrattuale a discapito del salario e dei vacui diritti rimasti.

Se Maria Giovanna fosse stata una addetta alle pulizie dell’Università di Salerno, ad esempio, avrebbe potuto raccontarci come a luglio 2016 nel giro di una notte, in virtù di una infame eppur “legittimissima” assegnazione, ha perso il 35% del proprio orario contrattuale, il 30% della propria paga oraria moltiplicato per il nuovo orario ridotto, 29 anni di anzianità di servizio e tutti i diritti da essi derivanti, in cambio del “posto di lavoro”.

Ordinaria amministrazione. Ancora più ordinaria per il borghesissimo e putrefatto Stato italiano che ha scolpito a pietra con la sentenza n. 245201 del 7 dicembre 2016, della Sezione Lavoro della Corte di Cassazione, presieduta dal Presidente Vincenzo Di Cerbo, il legittimo licenziamento di un lavoratore per scopi di profitto.

 

Capitolo secondo

La falsa modernità di Marchionne, l’attualità della crisi automobilistica.

Prima di perire, il dottor Sergio Marchionne avalla l’operazione CR7.[1] Una operazione da 450 milioni di euro, tutta speculativa e legata alla sfera parassitaria del capitale. Su una coscia di Cristiano Ronaldo sono stati scommessi futuri super profitti, ritorni d’immagine, diritti televisivi, pubblicità di prodotti e tutto quello che il magico circo pallonaro propone. E subito dopo l’arrivo del campione portoghese, il destino baro e meschino si è portato via l’amministratore e dirigente FCA.

Il dottor Marchionne si è legato agli Agnelli nel 2003, e da allora è rimasto fedele fino alla morte. È stata la crisi epocale del 2007 a generare quello che si ricorderà come la ristrutturazione più grande del colosso torinese. Il suo capolavoro è lo schiacciamento verso il basso delle condizioni lavorative operaie: di quelli che rimarranno, perché tra stabilimenti chiusi, come quello di Termini Imerese, e di poli confino per lavoratori poco inclini ad accettare le nuove direttive, come quello di Pomigliano; la forza lavoro subisce una potatura da pelo e contropelo. La chiave di volta è la riorganizzazione della catena di montaggio sui principi più spinti del WCM, del World Class Manufacturing.

I cardini teorici del WCM passano attraverso la riduzione del tempo necessario di lavoro, ossia di quella parte della giornata lavorativa destinata alla rigenerazione del valore della forza lavoro (volgarmente salario), e alla massimizzazione del tempo di pluslavoro, ossia la restante parte della giornata lavorativa destinata al profitto degli Agnelli. Questo avviene eliminando i tempi morti di produzione, riorganizzando tutto il ciclo della distribuzione, azzerando il concetto di magazzino, ossia il just in time: si produce quello che occorre, appena arriva l’ordine. Ma soprattutto rimodulando la catena di montaggio, in modo tale da mettere l’operaio nella posizione più comoda possibile, roteando l’auto da comporre nella posizione meno stancante, riducendo al minimo gli interventi necessari e soprattutto con il minor impiego d’energia e di utilizzo di movimenti usuranti. Un capolavoro di teoria ergonomica, ERGO-UAS, appunto. Il risultato di questa rivoluzione è il recupero per ogni singolo lavoratore, per ogni tipologia d’operazione, anche della più banale, di almeno mezz’ora di tempo per giornata lavorativa. Su questo, per la rivista D-M-D’ si è già prodotto nei dettagli un’analisi approfondita, per cui rimandiamo all’articolo: La falsa modernità di Marchione, l’attualità di Karl Marx.[2]

Nel pieno della crisi, nel 2008, Marchionne riesce a stringere patti con Obama per il rilancio della Chrysler. Il risultato è che FIAT diventa FIAT-Chrysler Auto, conquista una fetta consistente di mercato americano, riduce enormemente le attività in Italia, e vengono applicati cicli produttivi WCM, il tutto con l’avallo del maggior sindacato di settore a stelle e strisce, l’UAW. Il costo sarà tutto a carico dei contribuenti. Agli operai invece si applica il nuovo ritmo infernale di produzione, non c’è scampo. Anche per i lavoratori di Pomigliano non c’è scampo, infatti nel 2011 sono costretti a votare, e non saranno gli unici, il piano del dottor Marchionne che prevede, come detto prima, reparti confino per i lavoratori poco inclini ad accettare i nuovi dettami di produzione, ritmi infernali, e taglio del personale. I sindacati persi in guerre don Chisciottesche non fanno altro che firmare i cosiddetti piani di rilancio. Rimangono le piroette di Landini, e la collaborazione sostanziale al piano delle tre principali organizzazioni metalmeccaniche. Lo stesso avviene per gli altri stabilimenti ancora attivi.

Sulla catena di montaggio lavorare diventa asfissiante. Gli errori devono essere nulli, per cui il controllo dei responsabili diventa ossessivo. I gruppi di lavoro sono divisi in team di 6 operai e un leader del gruppo. I tempi porosi sono letteralmente azzerati, il lavoratore non può nemmeno soffiarsi il naso. È cronaca tristissima – per noi non è cronaca ma sintomo di un modo di produzione e quindi, di rapporti di classe – di chi costretto dai ritmi produttivi, a non potersi muovere per andare in bagno, e quindi finisce per urinarsi addosso! Come accaduto, appunto, nello stabilimento di Atessa in provincia di Chieti, dove è stato negato a un turnista il permesso a recarsi in bagno per i propri bisogni fisiologici.[3] Ogni operaio non può assentarsi dalla catena di montaggio deliberatamente, seppur per i propri bisogni, ma deve trovare il sostituto temporaneo e dopo chiedere il permesso (proprio così!) al proprio responsabile di team.

Con gli accordi del 2011, si abbandonano anche le vecchie divise blu operaie, il taglio con la storia recente richiede anche un cambio cromatico. Le nuove tute da lavoro sono di color grigio-bianco e vengono adottate contemporaneamente in tutti gli stabilimenti. Anche a Melfi. Racconta un’operaia: “Noi facciamo i metalmeccanici, stiamo tutto il giorno in posizioni assurde – spiega Pina dopo aver da poco concluso il suo turno di notte – perché lavoriamo dentro le macchine, facciamo un lavoro con il corpo piegato dentro le scocche. Diventa facile sporcarsi quando hai il ciclo mestruale. E così scatta un senso di umiliazione. Tutti in fabbrica lo vengono a sapere, qualcuno dei colleghi maschi fa anche il commento stupido tra le auto in fila. Tutto per colpa del pantalone chiaro”. La risposta dell’amministrazione è stata di un’ironia mortale: “Da gennaio – è scritto nel comunicato datato 2 ottobre – in arrivo una culotte da indossare sotto la tuta, per le donne alle prese con indisposizione mestruale”.[4]

Un’indagine della FIM-CISL fatta nel 2015 negli stabilimenti italiani FCA stabilisce che il 63.4% dei lavoratori considera “i propri tempi di lavoro notevolmente stressanti”.[5] Ma un’altra indagine più recente, del 2018, fatta in questo caso dalla FIOM-CGIL[6], estrapola – tramite questionari – ulteriori conferme. Alle domande ha risposto il 20% della forza lavoro, circa 9600 lavoratori, tra iscritti e non iscritti ai sindacati, distribuiti nei 54 stabilimenti del gruppo in Italia. Il 60% degli intervistati dichiaranetto peggioramento delle condizioni di lavoro negli ultimi anni”, le motivazioni sono da ricercare nei ritmi di lavoro e dei suoi carichi insostenibili. La stessa percentuale di lavoratori considera il salario e/o bonus ricevuti del tutto insoddisfacenti rispetto alla prestazione lavorativa giornaliera richiesta e fornita.

operi eso melfiNel sito di Melfi alcuni lavoratori hanno in dotazione un esoscheletro robotizzato. Si tratta, in effetti, di una struttura complessa che viene indossata dall’operaio, utile – secondo l’azienda – a sollevare pesi fino a 15 kg e a mantenere integra la schiena e le spalle. Non c’è dubbio alcuno che l’esperimento rientri in quella che è la filosofia del WCM e dell’ERGO-UAS, la quale mistifica la coercizione totale del lavoratore ai ritmi della catena di montaggio passandola come una scelta a sua salvaguardia ed integrità. In effetti, invece, sembra proprio che l’esoscheletro robotizzato ingoi e inglobi il povero operaio di turno!

Un ritratto impietoso di come sia percepita la rivoluzione del dottor Marchionne.

Intanto la domanda globale di auto è diminuita. E la FCA, già per i primi tre mesi del 2019, è stata costretta a fermare gli impianti ripetutamente. Ad esempio, sono previsti tagli di personale pari a 1500 unità produttive in Canada, il 25% in meno di minivan Chrysler Pacifica e Dodge Grand Caravan per la perdurante contrazione del mercato. In provincia di Avellino invece, nella fabbrica FCA di Pratola Serra dal 2008 sono state fatte più di 1500 giornate di cassaintegrazione, e poca speranza per i restanti operai ancora in azienda.

Dopo un’analisi congiunta di costruttori automobilistici, Toyota, Daimler, General Motor si è scatenato il panico per le previsioni 2019: contrazione di mercato tra il 3 e il 5% almeno. E i primi mesi confermano questa tendenza. Intanto l’economia cinese perde colpi esponenzialmente e questo trascina verso il baratro tutti i settori dell’economia mondiale, soprattutto quelle delle auto. L’attuale guerra commerciale è una iattura ulteriore.

 

Capitolo terzo

L’informatico e la classe operaia.

Scheda protagonista storia.

Nome: Amedeo.

Età: 45 anni.

Lavoro: informatico. Altamente specializzato.

Carattere: completamente dedito al lavoro. Molto incline a considerare centrale l’interesse dell’azienda.

Breve descrizione: Amedeo inizia a lavorare nel comparto della Information Technology. Lui è super specializzato, oltre la laurea, possiede vari titoli, master conseguiti in prestigiose università. La sua ottima conoscenza dell’inglese gli permette di lavorare spesso all’estero e di venire a contatto con i team di aziende e gruppi di ricerca più avanzati. Si forma in multinazionali, e brucia le tappe della sua scalata sociale. Ottimi stipendi e ruoli importanti gli fanno maturare una falsa coscienza da classe dominante, nonostante lui fosse un salariato, seppur lautamente pagato. Poi dopo la crisi del 2007, tutto cambia, e anche per Amedeo si apre lo spettro dell’incertezza lavorativa, costellata da mesi e mesi di disoccupazione, e da contratti a termine. Il baratro del proletariato gli si spalanca avanti.

Incontro Amedeo in un bar vicino Piazza Garibaldi a Napoli. Sono le sei di sera di una primavera di alti e bassi climatici, proprio come i suoi contratti. Ha appena finito l’ennesima giornata di lavoro, e si presenta in orario all’appuntamento: «Oggi ho fatto molto prima. Di solito finisco dopo le otto», di sera.

Ci sediamo. Alla cameriera chiediamo un paio di birre ben ghiacciate.

Dallo sguardo si percepisce che Amedeo non ha molta voglia di parlare. Si distrae facilmente, seguendo con lo sguardo le ragazze che gli passano avanti.

Arrivano le birre. Facciamo un brindisi – non si sa bene a cosa – con le bottiglie e subito gli piazzo la prima domanda.

«Come sta andando questo lavoro?»

Lui reagisce con una smorfia poi racconta.

«Nulla di eccezionale! Ma dopo un lungo periodo di disoccupazione, non posso andare troppo per il sottile.»

«Ma come è stato possibile rimanere tanto tempo disoccupato, con un profilo altamente specializzato e pieno di titoli, come il tuo?»

«Ci siamo laureati insieme. Ti ricordi? Poi ho iniziato con quel master negli Stati Uniti a Seattle, in Microsoft.»

«In effetti, da allora ci perdemmo di vista. Cosa è successo poi?», chiedo.

«Ho lavorato per due anni in America. Poi son tornato in Italia. Negli Stati Uniti mi specializzo ed ottengo importanti certificazioni. Faccio mia la mentalità della competizione, del ricambio, della ricerca, senza troppi scrupoli, del guadagno facile. Ci riesco, scalo molte posizioni. Occupo posti decisionali e licenzio molta di quella gente sindacalizzata, considerandoli fannulloni. In America, come in Italia ora, era facile mandare a casa un lavoratore, bastava una lettera d’addio.»

Sorride amaro.

«Poi rientri a Roma. Giusto?»

«Sì, a Roma, in Poste.»

«E non è più l’America…», osservo.

«Non lo è. Ma si lavora uguale: tanto, e a ritmi forsennati. La paga è più bassa ma sto a casa.»

In sincrono beviamo un sorso di birra, il silenzio dura qualche secondo.

Poi.

«Proprio dall’altra parte dell’oceano arriva la crisi più potente: quella del 2007. Vanno in ginocchio tutti i settori produttivi», cerco di riavviare il discorso.

«Infatti. Non si capisce più nulla. Tutte le certezze, soprattutto del nostro mondo, vengono meno.»

«E cosa vi succede?»

«Prima finiamo in cassa integrazione. Dopo un anno, arriva la lettera di licenziamento. Si spalanca il baratro. Non riesco più a trovare un lavoro con un contratto decente. Alterno periodi di disoccupazione, a contratti a progetto. Ormai il nostro settore si è molto degradato: le competenze richieste sono notevolmente diminuite. Sempre più spesso per il software e per i progetti circolanti bastano ragazzi smanettoni, che si accontentano di paghe bassissime e non fanno storie sugli orari. L’informatica in Italia è un settore morto: pochissimi investimenti e scarsissimo valore aggiunto.»

«Le paghe hanno subito un crollo?», chiedo.

«Un crollo verticale!! E le ore non pagate sono aumentate a dismisura. Sui contratti ci sta scritto otto ore di lavoro al giorno, ma poi in realtà sono sempre dieci, dodici. Spesso, quando ci sono problemi coi clienti, si rimane tutta la notte attaccati ai monitor. La settimana scorsa ho lavorato per ventiquattro ore continuate. Considera che in generale, mi porto sempre a casa il lavoro. In definitiva non stacco mai con la mia catena di montaggio!»

«Poi ti è arrivato improvvisamente il licenziamento!», osservo rincarando la dose.

«Infatti. Grazie ai contratti attuali, appena calano le commesse, ti chiamano dalla segreteria e ti danno il ben servito. Sono lontani i tempi del boom dell’informatica. Oggi mi sento più vicino a un operaio che a quei tecnici super coccolati di inizio millennio!»

Gli occhi di Amedeo sono pieni di delusione. Il precipitare delle sue condizioni lavorative e il progressivo proletarizzarsi, non fa che aumentare la sua angoscia esistenziale.

Ci congediamo. Metto a posto il mio registratore. Mi dileguo attraverso le affollate vie della stazione.

 

Capitolo quarto

Le poche certezze accumulate

Non è stato un grande ardire quello del dottor Di Cerbo Vincenzo certificare in Cassazione, il primato del profitto rispetto ai paraventi normativi – tutti caduti – a difesa del lavoratore contro un licenziamento, sia esso con giusta causa che senza.

Sappiamo bene che non è una leggina di uno stato qualsiasi, come quello italiano, a fare la differenza. Ma almeno le forze a difesa del Capitale, tra cui lo Stato e i suoi servitori, sono senza fraintendimenti di sorta limpidamente schierati sul fronte, e bombardano senza tregua tutto quello che impedisce l’armonioso fluire del profitto. I residui del secolo scorso, come lo Statuto dei Lavoratori, oggi più di ieri, non hanno più senso. L’attività di Maria Giovanna, lei laureata in Psicologia e costretta a pulire cessi insieme a Lucia, con contratti che hanno la durata di uno yogurt, si regolamenta con la banale accettazione di clausole scritte ad hoc dal neo datore di lavoro. Si firmano in bianco pagine da riempire al momento debito. Si accetta tutto: il Moloch della disoccupazione, della famiglia da tirare avanti, dell’incertezza totale, azzera qualsiasi flebile resistenza. Resistere poi, a che cosa? E per quale motivo? Chi dovrebbe resistere? Certo dovrebbero farlo Maria Giovanna, Lucia, le loro colleghe, ad esempio. Opporsi di firmare contratti di quel tipo, pretendere il rispetto di quelli accettati in precedenza. Ma basta? Un mondo come quello dei servizi fatto di appalti al massimo ribasso, di un’infinità di varianti, di lavoratori come tanti casi particolari, di una ricattabilità totale e sistematica della forza lavoro, rende la conflittualità praticamente impossibile, ma soprattutto desertifica qualsiasi tentativo, anche solo di mero recupero di una briciola di potere d’acquisto.

Cosa è diventata in pochissimi anni la fabbrica di Marchionne se non un definitivo campo di concentramento? Pina lo spiega senza equivoci, si è talmente saldati alla catena di montaggio e il profitto si è talmente fatto incerto, anche per i padroni, che andare in bagno per un bisognino fisiologico costituisce una grave turbativa alla produzione, al mondo WCM. Dopotutto anche le mansioni, e quindi le capacità richieste agli operai si sono notevolmente semplificate: il robot guida i movimenti passo-passo, pensa per noi, prende decisioni e gestisce i ritmi; non c’è scampo. Appunto: è il povero metalmeccanico ad essere montato sul robot, la sua forza lavoro ridotta ad essere la merce meno pregiata di tutte, di quella merce cioè sempre disponibile, a basso costo, dopotutto con l’unico e importante pregio che la rende insostituibile: essere fonte unica di plusvalore.

Anche per gli addetti iper-specializzati, come Amedeo, coloro che hanno investito tutto nella continua formazione e nella acquisizione di conoscenze necessarie al mondo capitalista, nella speranza con questo di avere un lavoro stabile, pesa l’impatto dell’automatizzazione dei processi informatici che hanno seguito di pari passo quelli industriali. La produzione di software si è – in breve tempo – completamente meccanizzata. Molte delle attività informatiche sono diventate di mero controllo dei processi. Anche in questo settore, la disponibilità di risorse umane con poca esperienza e a bassissimo costo, come i ragazzini smanettoni (i nerd), va a tutto vantaggio dei capitalisti.

La crisi del 2007 ha accelerato la trasformazione delle fasi di produzione, di circolazione e di valorizzazione della merce. Nessun settore è rimasto indenne. Questa rivoluzione è stata fondamentale per il Capitale: oltre a rendere più efficiente la produzione, ha permesso di accentrare e di semplificare i processi di distribuzione (circolazione) e quindi di portare la merce laddove è richiesta nel minor tempo possibile, e a costi bassissimi; Amazon è diventato un colosso proprio in questo contesto. La robotizzazione di tutte le umane attività, non solo quelle industriali, ma anche e soprattutto quelle a supporto della valorizzazione dell’oggetto prodotto, ha spalancato a larghi strati di proletariato le porte dell’esercito di riserva; processo questo, fortemente velocizzato dalla globalizzazione e modularizzazione della produzione. Questa è guerra di classe, ben condotta a livello planetario dalla borghesia transnazionale. La fondamentale guerra ideologica combattuta per abbattere qualsiasi intoppo al profitto, e la spinta ai massimi livelli con contratti di lavoro precario, in tutti i campi, ha sterilizzato e polverizzato intere generazioni di nuovi proletari. Giovani convivono stabilmente con lo status di sottoccupati, spesso disoccupati. Percentuali sempre maggiori di ragazzi in difficoltà perenne si spingono all’isolamento, e all’apatia sociale, il tutto favorito dalla plateale contraddizione della perenne connessione virtuale col mondo. Un fenomeno questo chiamato Hikikomori[7]: “è una patologia diagnosticabile in persone che hanno trascorso almeno sei mesi in una condizione di isolamento sociale, di ritiro dalle attività scolastiche e/o lavorative, senza alcuna relazione al di fuori della famiglia. Il periodo medio di isolamento sociale è di circa 39 mesi, ma può variare da pochi mesi a parecchi anni. […] Il fenomeno si può paragonare ad una epidemia”. Questo fenomeno sancisce l’ennesimo punto a favore della borghesia: problemi sociali scaricati sulle deboli spalle dei singoli, li rende psicologicamente impotenti e non in grado di reagire. Non è in definita una deriva di pochi, ma un’organica conseguenza dell’organizzazione sociale attuale e della sua profonda ineguaglianza. Un capitalismo marcio che genera mostri in tutti i campi dell’umano sentire.

Risulta evidente che la reazione a questa deriva barbarica è al momento inadeguata. E ove minimamente visibile, è talmente incanalata in richieste contingenti di micro-miglioramenti che non si eleva affatto, nemmeno come pensiero, al superamento del sistema attuale. Non è facile, intanto perché le contraddizioni si sono fatte globali, e la borghesia esercita la sua dittatura nel miglior modo possibile. Parallelamente non è affatto visibile all’orizzonte quella organizzazione di classe, come un reale partito comunista mondiale potrebbe esserlo, atta a liberare l’umanità dalla schiavitù del capitalismo. Intanto..le fauci del Capitale risultano ben attaccate alla giugulare del proletariato.

[1] https://www.ilbianconero.com/a/via-libera-a-ronaldo-grazie-marchionne-le-prime-pagine-dei-quoti-79773

[2] http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/lavorolottaclasse/168-falsomarchionne

[3] http://espresso.repubblica.it/attualita/2017/02/09/news/non-puoi-andare-al-bagno-cosi-alla-sevel-di-atessa-gruppo-fiat-chrysler-automobiles-un-operaio-si-urina-addosso-1.295154

[4] https://bari.repubblica.it/cronaca/2015/10/09/news/tute_blu-124672378/

[5] Fonte: ricerca Fim Cisl 2014

[6] http://files.rassegna.it/userdata/sites/rassegnait/attach/2018/06/testocomstampadefinitivo_8542.pdf

[7] L’ Istituto Onorato Damen, sull’argomento, ha pubblicato l’articolo di Mario Lupoli: Hikikomori e altri orrori: il vuoto incombente di un presente senza futuro.

(http://www.istitutoonoratodamen.it/joomla34/index.php/politicasocieta/456-hikikomori)