Prime lezioni d’Egitto

Categoria: Africa
Creato: 28 Febbraio 2011 Ultima modifica: 17 Settembre 2016 Visite: 3581

Gli eventi che stanno sconvolgendo gli assetti politici e istituzionali del mondo arabo e in modo particolare dell’Egitto e della Tunisia, e ultimamente anche della Libia di Gheddafi, benché tuttora in corso e i loro esiti tutt’altro che scontati, offrono comunque già alcuni dati che ci sembra interessante tentare di valutare con diversa attenzione critica rispetto a quella alquanto reticente offertaci dagli osservatori e dai media internazionali.

Il primo dato che ci sembra importante sottolineare è che queste rivolte, nonostante le notevoli diversità delle condizioni socio-economiche dei paesi coinvolti, hanno avuto come detonatore una medesima causa: il peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione e l’altissimo tasso di disoccupazione giovanile. Stando a quanto riportato dai media borghesi, questo stato delle cose sarebbe da ascrivere in larga misura alla crisi economica mondiale oltre che al dispotismo, all’arroganza e perfino all’inettitudine dei governanti locali. Pertanto basterà che la crisi passi e che i governi locali vengano sostituiti con altri meno corrotti e più democratici perché anche in questa area del mondo trionfino benessere e libertà.

Una lettura più attenta dei dati, però, segnala un quadro ben più complesso e difficilmente circoscrivibile ai confini dell’area in questione o alle contingenze determinate dalla crisi economica mondiale. Infatti, nonostante la crisi, negli ultimi anni, quasi tutti questi paesi hanno fatto registrare tassi di crescita piuttosto consistenti, sicuramente da far invidia ai paesi della Ue e agli stessi Stati Uniti. Per esempio, in Egitto, è vero che nel 2009 si è registrato un calo del Pil del 2,3 per cento, ma nei tre anni precedenti il Pil era cresciuto a un tasso del 7 per cento. In altre parole, nonostante la crisi, nel 2009 il Pil è comunque cresciuto, rispetto al 2008, del 4,7 per cento. Lo stesso è avvenuto in Tanzania dove il Pil è cresciuto del 7,4 nel 2009, in Etiopia del 9,9, in Uganda del 10,4 e in Mozambico del 6,3; nel 2010, negli stessi paesi, del 6, dell’8, del 5,3, del 6,3 e del 6,5 per cento.[1] In forza di questi risultati alcuni economisti definiscono ormai questi paesi come le Tigri Africane.

A dispetto di ciò, il peggioramento delle condizioni di vita della stragrande maggioranza della popolazione, invece, non ha conosciuto soluzione di continuità. Per esempio, il reddito pro capite del 40 per cento della popolazione egiziana è da tempo immemorabile pari a due euro al giorno mentre l’inflazione è cresciuta mediamente del 10 per cento all’anno, con punte di oltre il 20 per cento per alcuni beni alimentari. In particolar modo sono cresciuti, a causa dalle attività speculative di alcune multinazionali, i prezzi di alcuni prodotti agricoli. In soli tre mesi, nel 2008, il prezzo del riso è cresciuto del 59 per cento, quello del grano del 61 e quello del mais del 70 per cento. Contemporaneamente le otto multinazionali che controllano il Commodity Stock Excanges di Chicago (la borsa dei prodotti agricoli più importante del mondo) hanno realizzato profitti da capogiro. “La sola Cargil ha aumentato i suoi profitti dell’86 per cento portandoli a 1,03 miliardi di dollari”[2]. E profitti giganteschi hanno realizzato anche le borghesie locali che qui spesso coincidono con le satrapie che controllano i governi: si calcola che il patrimonio del solo Mubarak ammonti a circa 70 miliardi di dollari e quello di Ben Alì fra i 30 e i 50 miliardi di dollari.

L’Egitto come la Cina

L’Egitto, ci informa M. Dinucci su il Manifesto del 3 febbraio scorso, non è solo petrolio e gas naturale, controllati dalle grandi imprese multinazionali del settore, Bp, Shell, Eni ecc. ecc. ma è “anche un importante esportatore di prodotti finiti, che rappresentano circa il 40 per cento del suo export, grazie a un costo del lavoro tra i più bassi del mondo. Ma anche questo settore è dominato, anche indirettamente, dalle multinazionali ( General Motors, Volkswagen e altre). In altre parole, in Egitto, come in tutte le Tigri Africane e in tutti i paesi cosiddetti emergenti, negli ultimi trent’anni si è imposto lo stesso modello economico, basato essenzialmente sulla produzione ed esportazione di merci da parte di imprese che fanno capo in larga misura a grandi multinazionali estere, che ha fatto della Cina la cosiddetta fabbrica del mondo.[3]

Esiste, cioè, una correlazione strettissima fra bassi salari, crescita della povertà, polarizzazione della ricchezza in poche mani e i processi di mondializzazione e finanziarizzazione dell’economia così come sono andati articolandosi negli ultimi trent’anni.

Un fenomeno, peraltro, che non si ferma ai confini di queste aree, ma interessa anche le grandi metropoli capitalistiche visto che anche qui i salari reali sono da almeno vent’anni in costante discesa.[4]

Disoccupazione e Proletarizzazione dei ceti medi

Come attestano le statistiche ufficiali dei più importanti Istituti di ricerche economiche internazionali, anche la crescita della disoccupazione, che colpisce ampi strati della piccola e media borghesia e soprattutto i giovani con media ed alta scolarizzazione, non è una specificità di questi paesi. L’introduzione della microelettronica nei processi produttivi, infatti, ha reso possibile il trasferimento al sistema delle macchine di molte delle mansioni che un tempo erano appannaggio proprio di questi strati sociali e la soppressione dei relativi posti di lavoro.

Il resto lo ha fatto la crescita del debito pubblico causata dalle politiche di salvataggio del sistema bancario internazionale travolto dalla crisi mondiale e che ha costretto gli Stati a tagliare la spesa pubblica e moltissimi posti di lavoro, soprattutto di tipo impiegatizio.

Oggi, per tutto il mondo si aggira un esercito industriale di riserva come non si era mai visto nella storia del capitalismo moderno. Sta accadendo qualcosa di molto simile a quanto avvenuto in Inghilterra negli ultimi trent’anni del secolo XV e nei primi decenni del XVI durante la cosiddetta fase dell’accumulazione originaria del capitale. Allora, per assicurare alla nascente grande industria un esercito industriale di riserva che consentisse di contenere il prezzo della forza lavoro (salario) al di sotto del suo valore, furono, nell’accezione più ampia del termine, violentemente trasformati in proletari eslege gli ultimi servi della gleba rimasti e la quasi totalità dei liberi contadini; oggi la stessa sorte tocca a una buona parte dei figli della piccola e media borghesia su scala mondiale. [5]

Sono ormai almeno due generazioni di giovani che, pur possedendo titoli di studio anche di buon livello, non hanno mai trovato un’occupazione stabile e mai la troveranno. Va loro già bene  trovare un lavoro sottopagato e in condizioni di semischiavitù. Privati di ogni possibile futuro, e con esso, anche della possibilità di dare un senso alla propria vita, non sono ormai che semplici cose merci, venditori del proprio tempo e della propria vita.

Forse da qui quel nooo! tragico e senza rimedio del giovane tunisino Mohamed Bouazizi che a soli 28 anni si è tolto la vita dandosi fuoco. Appunto, come una torcia, come una cosa. E anche il fatto che siano stati proprio gli studenti, i giovani diplomati e laureati disoccupati ad iniziare spontaneamente queste rivolte a cui solo in un secondo momento, laddove è accaduto, si sono uniti gli operai delle fabbriche.

Alle luce di queste considerazioni, non ci sembra, dunque, di forzare le conclusioni affermando che

l’arroganza, la corruzione, la sfacciata ricchezza delle oligarchie e il dispotismo dei governi locali sono stati solo la classica scintilla che ha innescato l’incendio che covava sotto il disposto combinato della globalizzazione e finanziarizzazione dell’economia con introduzione della microelettronica nei processi produttivi e la nuova organizzazione e divisione internazionale del lavoro.

Il forsennato incremento dello sfruttamento della forza-lavoro, la crescente miseria della maggior parte della popolazione mondiale nonché la crescente disoccupazione, soprattutto giovanile, e i violenti processi di proletarizzazione di ampie fasce di piccola e media borghesia, anche intellettuale, hanno creato una polveriera pronta ad esplodere in qualsiasi momento e, potenzialmente, in qualsiasi parte del mondo.

Questo è il dato oggettivo che accomuna, oggi, soprattutto i proletari dei paesi periferici ma che presto potrebbe coinvolgere quelli di tutto il mondo.

I limiti politici della rivolta e i suoi insegnamenti

Sarebbe però da ciechi non cogliere la gigantesca contraddizione fra questa estrema, oggettiva semplificazione degli antagonismi di classe che la mondializzazione sta determinando e la perdurante scarsa consapevolezza dei vecchi e soprattutto di questi nuovi proletari -perché tali sono - della loro appartenenza a una medesima classe di sfruttati nonché dell’impossibilità del superamento di questa loro condizione permanendo il modo di produzione capitalistico. Come spiegare, altrimenti, il prevalere in tutte queste rivolte di istanze politiche chiaramente democratico-borghesi, se non con il fatto che gli attori che le animano, al di là della loro condizione oggettiva, sono ancora profondamente intrisi dell’ideologia della classe dominante e lontani anni luce dal percepire la realtà della loro condizione? O del fatto che, come in Egitto, le rivendicazioni anche della parte più combattiva della classe operaia come i 15 mila manovali impiegati presso il canale di Suez e i 20 mila della Compagnia tessile di Mahalla non vanno oltre la richiesta di un incremento salariale e di una migliore retribuzione dello straordinario?

La stessa facilità con cui le grandi potenze imperialistiche, preoccupate delle conseguenze che lo sfaldamento di questi regimi potrebbe determinare sugli equilibri geopolitici della regione, hanno potuto fare proprie molte delle rivendicazioni alla base delle rivolte e perfino sostenerle contro i fantocci che loro stesse avevano insediato al potere, misura l’intrinseca debolezza di queste ultime e l’assenza in esse di una qualsiasi connotazione di classe. Né potrebbe essere diversamente vista la mancanza, sia su scala locale che internazionale, di un qualsiasi riferimento politico che sia autentica espressione degli interessi autonomi del proletariato e della loro inconciliabilità con quelli della classe dominante e sappia dirigerlo in direzione della costruzione di una società socialista quale vera ed unica alternativa al disastro a cui sta conducendo il capitalismo.

La lezione che se ne ricava è, dunque, la conferma che i movimenti spontanei delle masse proletarie, anche i più radicali, sono destinati ineluttabilmente a ricadere sotto le possenti e variegate ali protettrici della borghesia. Altresì, che non vi è un nesso meccanico fra l’erompere delle contraddizioni del sistema capitalistico e la produzione di un’autentica e diffusa coscienza rivoluzionaria: questa presuppone la presenza attiva ed operante di un grande partito comunista internazionale e internazionalista. Che non nasce per partenogenesi dalla lotta di classe, ma richiede la costruzione di un vero e proprio laboratorio politico di elaborazione e sistematizzazione scientifica dei dati inerenti alla reale situazione del proletariato su scala mondiale. Solo così esso potrà acquisire coscienza dei suoi reali bisogni e del suo compito storico: la rivoluzione comunista.

Se questa lezione sarà raccolta dalle sparute avanguardie e dai singoli militanti comunisti sopravvissuti alle grandi sconfitte del passato e alle macerie dello stalinismo sparsi per il mondo, il giovane Mohamed Bouazizi e tutti coloro che hanno raccolto il suo disperato nooo! non avranno sacrificato invano la loro vita.

Giorgio Paolucci



[1] Dati tratti da: Il mondo salvato dalle Tigri Africane – F. Rampini – La Repubblica – Affari & Finanza del 31.01.2011.

[2] V. Agnoletto - Crisi e Maghreb, l’attualità del Wsfil Manifesto del 16/2/2011.

[3]Vedi su questo stesso sito l’articolo Il ricatto del dollaro e in particolare il paragrafo Cina/Usa, un connubio emblematico.

[4] Ib. La crisi non è uguale per tutti.

[5] Vedi K. Marx – Il Capitale – Libro primo - capitolo 24°.