La guerra di Israele contro i palestinesi al tempo del decadente imperialismo americano

Categoria: Asia
Creato: 29 Marzo 2025 Ultima modifica: 29 Marzo 2025
Scritto da Carmelo Germanà Visite: 153

Col solito atteggiamento criminale il governo israeliano ha rotto la tregua del 19 gennaio e ripreso a bombardare la popolazione palestinese causando centinaia di morti. Naturalmente i media e la propaganda atlantista, come sempre, hanno tiepidamente evidenziato le responsabilità di Netanyahu e del suo padrino statunitense, per dare risalto alle accuse rivolte contro Hamas. Trump e tutte le amministrazioni americane prima di lui hanno sempre difeso incondizionatamente Tel Aviv, una pedina fondamentale in Medio Oriente, da foraggiare con dollari e armi per i propri fini. A maggior ragione oggi, visti i tempi difficili per l’imperialismo americano in declino.

Dalla fondazione dello Stato di Israele nel 1948 fino a prima dell’attacco di Hamas del 7 ottobre 2023 il conflitto ha prodotto 35.000 vittime palestinesi. Il 7 ottobre dopo pochissimo tempo dall’inizio del genocidio messo in atto dal governo israeliano, perpetrato sotto gli occhi di tutti e con la complicità delle cosiddette democrazie occidentali, le cose sono andate ancora peggio rispetto all’esodo forzato del 1948: “Dopo un mese e mezzo dal suo inizio questo conflitto è già la più mortale e distruttiva delle pur numerose tragedie della storia del popolo palestinese. Con 14.854 morti a Gaza al 22 novembre, cui vanno aggiunti più di 200 morti in Cisgiordania nello stesso periodo, si supera la soglia dei 15.000 morti, da confrontare con i 13.000 stimati per l’intera Nakba, la «Catastrofe» del 1948. Anche il fatto che almeno il 40 per cento delle vittime di Gaza siano bambini non ha precedenti. E l’esodo di 1,7 milioni di civili all’interno della Striscia di Gaza supera di gran lunga le maree umane della Nakba e dei suoi circa 750.000 profughi.”¹

La strage di civili nel frattempo è andata avanti provocando oltre 50.000 vittime, ma si pensa siano molte di più dato che il macabro conteggio esclude le persone scomparse o sotto le macerie.

La nascita dello Stato sionista nell’area strategica e petrolifera del Medio Oriente, dopo alterne vicende nel periodo della guerra fredda, ha visto il cementarsi dell’alleanza tra Israele e gli Stati Uniti sulla base del reciproco interesse, sostegno nei conflitti con i paesi arabi circostanti in cambio della fedeltà assoluta al grande protettore. Ciò ha permesso a Israele di espropriare costantemente territorio palestinese nel corso del tempo sino all’attuale prospettiva di deportazione della popolazione in Giordania, Egitto o in altri paesi della regione, così come prospettato da Trump con grande soddisfazione del governo Netanyahu. Che tutto ciò possa accadere o meno è da vedere, intanto l’esercito israeliano (La Forza di difesa israeliane, IDF) continua a massacrare e a rendere la vita impossibile alla popolazione palestinese.

Un’altra questione gioca un ruolo molto importante: le risorse naturali nel territorio di Gaza e della Cisgiordania (West Bank) come l’acqua il gas e il petrolio. Con la scusa che tali ricchezze del sottosuolo potessero finanziare il terrorismo, Israele se ne è impossessato e sfruttato a proprio piacimento, una vera rapina: “… dal 1993 al 2020 Israele si è appropriata del 60% della superficie di West Bank e del 40% della striscia di Gaza (UNCTAD). All’interno di questi territori, usurpati violando un mucchio di risoluzioni dell’ONU, sono presenti risorse naturali di importanza strategica sia a livello locale che internazionale.”² Con la guerra in corso il processo di espropriazione è proseguito più rapidamente, la spogliazione ha fatto precipitare la popolazione palestinese nella miseria più nera, in un quadro già drammatico di devastazione e sterminio.

Essere il gendarme dell’imperialismo americano in Medio Oriente permette a Israele di mantenere una soverchiante superiorità militare rispetto ai vicini. Senza il supporto Usa in particolare e quello supplementare europeo i regimi israeliani che si sono avvicendati non sarebbero andati molto lontano. Comunque, l'economia di guerra sta creando molti problemi al capitalismo israeliano e sofferenza al proletariato che vede le proprie condizioni di vita peggiorare. La crescita è ai minimi, il debito pubblico è aumentato notevolmente per le spese militari, il costo della vita è cresciuto mentre i salari stagnano. Il turismo è depresso e la carenza di manodopera per la convocazione delle riserve militari e il blocco dei lavoratori palestinesi sono ulteriori fattori di crisi. Un altro fenomeno spinoso è che tanti lavoratori altamente qualificati stanno lasciando il paese a causa dell'instabilità determinatasi a tutti i livelli.

Tuttavia la questione palestinese è solamente un tassello dell’intrigato scacchiere internazionale nel quale si muovono le potenze capitalistiche e in particolare l’inquieto imperialismo americano. Con Trump la politica estera americana sta virando ancora più decisamente rispetto ai predecessori, l’ascesa al rango di grande potenza industriale e finanziaria della Cina e il peso crescente dell’accumulazione e centralizzazione capitalistica a Oriente è un grande campanello d'allarme per l’imperialismo statunitense. La crisi capitalistica, soprattutto in Occidente, si manifesta da tempo con una bassa crescita economica intervallata da periodi di recessione. La caduta del saggio di profitto ha accelerato le contraddizioni capitalistiche e lo scontro interimperialistico. Il gioco americano di fare pagare al resto del mondo il proprio enorme debito pubblico e privato attraverso il signoraggio del dollaro, ovvero emettendo titoli di stato e stampando moneta in cambio di merce reale, vede una crescente resistenza da parte delle potenze concorrenti.

L’appropriazione parassitaria di plusvalore attraverso il dominio del dollaro trova ostacoli crescenti in quanto la produzione di merci, quindi di valore, vede al vertice la Cina e l’oriente, di conseguenza i nuovi rapporti di forza economici devono necessariamente riequilibrarsi alla nuova realtà. Il dollaro pur restando ancora la valuta principale negli scambi internazionali e come riserva delle banche centrali ha subito un ridimensionamento importante negli ultimi decenni. Lo scontro interimperialistico infuria su tutti i fronti, per non farsi strangolare il processo di dedollarizzazione è una necessità ineludibile e inarrestabile per gli antagonisti degli Stati Uniti.

Nell’ambito di questa congiuntura storica di crisi del capitalismo si situa la presidenza Trump. A parte la caricatura che si fa del bizzarro presidente degli Stati Uniti la questione, come abbiamo visto, è più profonda e il personaggio meno fesso di quanto si vorrebbe far credere: “Nè i simpatizzanti né i detrattori riescono ad analizzare Trump per quello che realmente è: un altro vivace burattino nelle mani del processo capitalistico. Donald Trump non è altro che la personificazione del debito americano verso l’estero, un enorme rosso che ha ormai superato la cifra record di 23 mila miliardi di dollari... Lo stesso problema, si badi, aveva già lambito Biden e le precedenti amministrazioni, quando gli Stati Uniti si videro costretti ad allentare la morsa su vaste aree di occupazione militare, economica ed estrattiva, dall’Iraq all’Afghanistan. Con Trump, tuttavia, l’impossibilità di espansione imperiale fondata sul debito è divenuta un fatto incontrovertibile.”³

Il Patto di Abramo del 2020 voluto da Washington tra Emirati Arabi Uniti, Bahrein e soprattutto Arabia Saudita e Israele doveva essere il tentativo di normalizzare l’area mediorientale in funzione anti-cinese. A rafforzare tale proposito era in progetto la costruzione del corridoio economico India-Medio Oriente-Europa (IMEC), sostanzialmente una infrastruttura energetica, alternativo alla Nuova Via della Seta, entrambi i piani vedono nell’Arabia Saudita un hub strategico. Non a caso all’accordo stipulato nel settembre 2023 è seguito l’attacco di Hamas del 7 ottobre a scompaginare i propositi dell’imperialismo americano. Il ridimensionamento dei vari fronti di guerra, i dazi, l’arroganza dell’attuale amministrazione statunitense sono sintomi di un impero che pur in decadenza resta forte e disposto a tutto pur di mantenere il primato.

Nel contesto drammatico mediorientale il proletariato palestinese è il vaso di coccio stretto nella morsa dei vari predoni imperialisti. L’area petrolifera più importante al mondo, malgrado i progressi nella ricerca di fonti energetiche alternative, rimane e rimarrà ancora per molto tempo strategicamente cruciale. Non soltanto qui si concentrano gli interessi delle varie borghesie imperialiste ma anche gli intrighi di quelle locali. Le borghesie dei vari paesi arabi solamente per ragioni di opportunità hanno fatto finta di difendere la causa palestinese, ma nella sostanza poco importava loro della sofferenza della popolazione. La borghesia palestinese, come è nella logica di qualsiasi borghesia nazionale o aspirante tale, ha storicamente interesse a ricavare un proprio fazzoletto di terra per potere sviluppare i propri affari economici e affermarsi in quanto classe dominante. Le due fazioni, Fatah e Hamas, hanno governato nei rispettivi territori di competenza col pugno di ferro contro la propria gente. Una borghesia palestinese reazionaria, specialmente i miliziani di Hamas che per le loro macchinazioni di potere il 7 ottobre non hanno esitato a massacrare giovani inermi e lavoratori israeliani.

L’unica via di uscita per il proletariato palestinese è lottare congiuntamente al proletariato arabo e internazionale contro il capitale. Nessun sostegno va dato a qualunque borghesia: palestinese, israeliana, regionale, e ancor meno imperialista. Alla barbarie del capitale bisogna contrapporre l’internazionalismo proletario e l’anticapitalismo per superare questa putrescente società classista.

[1] Jean-Pierre Filiu, Perché la Palestina è perduta ma Israele non ha vinto, Giulio Einaudi Editore. Torino 2025, pag. 285

[2] https://www.marxismo-oggi.it/saggi-e-contributi/saggi/590-le-caratteristiche-economiche-della-questione-palestinese

[3] https://www.econopoly.ilsole24ore.com/2025/03/10/momento-lenin-trump-cina-europa-riarmo