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9 Novembre 1989 - 9 Novembre 2009
Il crollo del muro di Berlino e del socialismo che non c’era
Si è celebrato in questi giorni il ventennale del crollo del muro di Berlino e, come è solito fare in queste circostanze, numerosi sono stati i peana, innalzati al cielo, per festeggiare tale ricorrenza e lanciare idealmente un ponte con il fiorire di scritti che in quegli anni hanno rappresentato un po’ la “summa” del pensiero liberale, scritti che avevano come unico scopo la ulteriore demonizzazione del “comunismo” esaltando, per contrappasso, la graziosa aurora di una nuova era che stava per spalancarsi esprimendo, al contempo, una volta esauritasi la lunga stagione della guerra fredda, tutte le proprie potenzialità liberatrici di cui avrebbe beneficiato l’umanità intera.
Quasi una nuova percezione della felicità trovava modo di incidere non poco nella valutazione di un nuovo mondo che stava per essere edificato.
Progetti senza dubbio ambiziosi che, tuttavia, non tenevano conto di un fondamentale ed elementare
dato di fatto: il voler cogliere la ghiotta occasione, fornita dalla storia, di screditare ulteriormente il “comunismo”, considerato come fallita alternativa al “capitalismo”, offuscava a questi sublimi epigoni del “pensiero liberale” la capacità di cogliere appieno ed in profondità le ragioni vere che avevano provocato il crollo del muro di Berlino, evento anticipatore di un altro crollo, di ben più ampie dimensioni, che avrebbe di lì a poco riguardato l’Unione sovietica unitamente a tutti quei paesi che avevano costituito l’ossatura del cosiddetto Comecon.
Queste ragioni risiedevano interamente nelle contraddizioni insite in un sistema basato sull’accumulazione capitalistica.
Era di questo che, in effetti, si doveva parlare. Era a ciò che ci si doveva riferire per rappresentare i veri motivi di una implosione che aveva riguardato una gran parte dell’Europa laddove ad essere “reale” non era stato di certo il socialismo bensì il capitalismo e nella sua accezione di capitalismo di stato.
Comprendere appieno tutto ciò presupponeva dover riandare nel periodo successivo alla rivoluzione d’Ottobre, comprendere gli sviluppi che avevano portato alla introduzione della NEP (Nuova Politica Economica) intesa da Lenin come il classico passo indietro verso il capitalismo, misura transitoria, in attesa di una rivoluzione europea che avrebbe consentito alla Russia sovietica di poter procedere fattivamente nella realizzazione delle conquiste socialiste. Venendo meno, su scala internazionale, gli eventi rivoluzionari, la NEP da necessità contingente si trasforma nello strumento più efficace per il potenziamento di una struttura economica a capitalismo di stato. Gli avvenimenti legati al secondo conflitto mondiale e segnatamente quelli riferentisi alla conferenza di Yalta consentono alla Russia sovietica, potenza imperialistica a tutto tondo, di poter dettare condizioni agli altri briganti imperialisti per cui riesce a far ricadere tutta l’Europa dell’est nella sua zona d’influenza.
Polonia, Cecoslovacchia, Ungheria, Germania orientale e altri ancora diventano suoi paesi satelliti al governo dei quali troviamo esponenti dei vari partiti stalinisti, ligi e fedeli alle direttive di Mosca.
Anche la struttura economico/produttiva di questi paesi viene plasmata secondo gli intendimenti/interessi della potenza imperialistica di riferimento per cui anche in questi paesi, con tutte le particolarità legate alle singole situazioni, si reitera l’inganno di un capitalismo di stato gabellato per socialismo con tanto di aggettivazione “reale”.
Parliamo di capitalismo di stato a ragion veduta in quanto le categorie economiche lì operanti sono quelle prettamente capitalistiche: danaro, merce, rapporto capitale/lavoro, salario, plusvalore.
Si è giocato a bella posta sull’equivoco “statalizzazione e socializzazione dei mezzi di produzione” tralasciando di considerare che la prima segna sì l’intervento dello stato nell’economia senza che questo comporti automaticamente la socializzazione dei mezzi di produzione laddove quest’ultima ha un significato ben preciso: “ proprietà sociale, collettiva quindi non proprietà, il che significa gestire in comune i beni e le risorse senza che nessuno, a livello individuale, possa rivendicarne il possesso, nemmeno lo Stato.” ( Crisi del comunismo o del capitalismo di Stato? Prometeo n.13, novembre 1989).
La differenza vera sulla quale imbastire il processo di differenziazione è semmai quella che attiene l’economia capitalistica di piano e l’economia di mercato con la prima che vede nello Stato il possessore ed il controllore dei mezzi di produzione e del capitale finanziario nonché l’organo che determina a priori l’entità del capitale investito nei vari segmenti produttivi garantendone un sufficiente indice di profittabilità con l’imporre un dato costo della forza-lavoro e quindi un dato monte salari nonché una politica dei prezzi compatibili con le esigenze di valorizzazione dei capitale.
Ciò stride evidentemente con quanto, seppure teoricamente, dovrebbe rappresentare un’economia pianificata di tipo socialista laddove non dovrebbero verificarsi squilibri tra mezzi e fini, tra forze produttive e bisogni in quanto, essendo la produzione ancorata al solo soddisfacimento di questi ultimi, e non alla realizzazione di un profitto, viene meno lo sfruttamento della forza-lavoro, l’accumulazione capitalistica e con essa tutte le contraddizioni da cui le crisi traggono origine.
Questo è quanto avverrebbe con una pianificazione socialista; questo è quanto non avveniva con la pianificazione propria dei paesi del Comecon, cioè con una pianificazione capitalistica che, evidentemente, non poteva sottrarsi a tutti quegli squilibri, a tutte quelle contraddizioni che sono ascrivibili a qualsiasi piano economico di un qualsivoglia gruppo monopolistico.
Considerare “socialismo” tutto questo può apparire un azzardo, presuppone uno sforzo di fantasia notevole stante il fatto, torniamo a ripetere, che il contesto entro il quale si muovono date categorie economiche - il capitale, il rapporto con la forza-lavoro, il rapporto produzione-prezzi-consumo – è quello di una produzione organizzata in funzione del mercato, sulla estorsione di plusvalore, sulla valorizzazione del capitale.
E’ questo il meccanismo che va in crisi a partire da metà degli anni ’70 laddove, nei paesi del patto di Varsavia, si assiste ad un rallentamento dei tassi di crescita che passano da un 6% del 1976 fino ad annullarsi nel 1982.
Cosa ha giocato perché si verificasse tutto ciò?
Indubbiamente la crisi dei primi anni ’70 ha avuto modo di manifestarsi un po’ dappertutto ma ha avuto effetti devastanti, fino a sancirne il crollo, proprio in questi paesi a capitalismo di stato che si caratterizzavano per un insufficiente apparato finanziario, l’arretratezza del sistema con un apparato industriale oramai obsoleto, il ritardo tecnologico che ha penalizzato l’introduzione generalizzata della microelettronica nei processi produttivi, la caduta verticale della produttività, la concorrenza tra le diverse satrapie (concentrazioni oligopolistiche. In gergo capitalistico: lobbies) che, nella produzione di uno stesso prodotto (frigoriferi, lavatrici ecc.) cercavano, tramite il partito, di ottenere il controllo di segmenti di mercato sempre più grandi.
In un meccanismo siffatto sono, dunque, presenti tutti i motivi di crisi e, conseguentemente, della caduta del saggio di profitto in quanto vengono meno i tradizionali meccanismi di valorizzazione del capitale. E’ stata la mistificazione stalinista che spacciando tutto ciò per socialismo ha reso possibile camuffare uno dei momenti più significativi della più generale crisi del sistema capitalistico, che tuttora si trascina seminando miseria e barbarie in tutto il mondo, come il fallimento del socialismo. Il crollo di quel muro testimonia invece che è proprio il mondo del capitale che non va. Ne occorre un altro senza muri, senza confini e soprattutto senza sfruttamento dell’uomo da parte dell’uomo.
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