L’America di Trump di nuovo grande? Ma i dazi sono un’arma spuntata

Categoria: Americhe
Creato: 24 Maggio 2025 Ultima modifica: 24 Maggio 2025
Scritto da Giorgio Paolucci Visite: 116

Trump esibisce muscoli e mascella, ma a tirare troppo la corda, a rischiare di più è proprio l’America.

Non passa giorno senza che dalla Casa Bianca non arrivi l’annuncio dell’introduzione di un qualche dazio su una delle tante merci che gli Usa importano dal mondo intero, per poi fare marcia indietro e rinviare tutto a data da destinarsi. Intanto, Trump e la cricca di miliardari al suo seguito realizzano valanga di soldi speculando sulle oscillazione delle quotazioni di borsa che ne derivano. Più che una precisa strategia di politica economica sembra di assistere a uno di quei teatrini che inscenano i venditori ambulanti nei mercatini rionali. A ben vedere, però, in questo modo di agire si scorgono ragioni che vanno ben oltre gli interessi personali dell’inquilino della Casa Bianca e del suo seguito di plurimiliardari.

Trump giustifica il suo tira e molla dicendo che intende riportare l’America agli antichi splendori dopo che la concorrenza sleale praticata dall’Europa, dalla Cina e perfino dai pinguini delle isole disabitate Heard e MacDonald l’hanno ridotta ad essere il maggior debitore al mondo. Ovviamente è una menzogna. In realtà è stata la borghesia americana che ha trovato più conveniente importare merci dall’estero piuttosto che produrle in patria visto che i dollari con cui le pagava, in quanto anche mezzo di pagamento e di riserva internazionale, per una gran parte erano in realtà assegni che non avrebbero mai fatto ritorno in patria per essere incassati: vere e proprie “cambiali senza scadenza”. Tanto conveniente che l’allora presidente Ronald Reagan, a coloro che temevano che l’accumulare debito su debito, a un certo punto avrebbe potuto costituire una seria minaccia per la stabilità dell’impero rispondeva: «Un alto deficit commerciale e un forte afflusso di capitali stranieri non sono necessariamente un segnale di debolezza, ma piuttosto un segnale di forza [...]. Vista la nostra economia in crescita possiamo permetterci di comprare i beni di chi è meno solido di noi»¹.

E così oggi gli Usa hanno accumulato tanto di quel debito che per poterlo ripagare, anche solo in parte, dovrebbero generare un incremento del prodotto interno reale a due cifre per almeno qualche secolo. La qualcosa, essendo materialmente impossibile, implica che continuando di questo passo il default del sistema economico e finanziario statunitense è inevitabile. D’altra parte, già oggi sono sempre più numerosi i corrispondenti esteri degli Usa che seppure con una certa gradualità stanno liquidando le loro posizioni in dollari comprando oro le cui quotazioni hanno ormai superato la stratosferica cifra di oltre 3.300 dollari l’oncia continuano a battere record su record.

Il timore che possa bastare un non nulla per innescare un fuggi, fuggi dal dollaro è tale che il presidente della Federal Reserve, Jerome Powell, nonostante Trump lo abbia minacciato di licenziamento, si rifiuta ripetutamente di abbassare il tasso di sconto paventando, a causa della conseguente riduzione dei rendimenti dei Treasury bond, un’ulteriore accelerazione di questa fuga dal dollaro. E poiché i numeri parlano chiaro anche Trump non ha potuto che prenderne atto e agire di conseguenza. Minaccia quindi dazi e ogni possibile sorta di ritorsione a destra e a manca per dire ai creditori: se falliscono gli Usa sono guai seri anche per voi per cui conviene anche a voi farvi carico di una parte del nostro debito comprando armi, gas e petrolio americani, nonostante - soprattutto questi ultimi – abbiano prezzi anche doppi di quelli correnti sul mercato mondiale.

È il classico ricatto del debitore nei confronti dei propri creditori fondato sulla presunzione che le perdite che subirebbero questi ultimi in caso di un suo fallimento sarebbero maggiori di quelle che subirebbero per salvarlo. Posta la questione in questi termini, è innegabile che l’agire di Trump, avendo l’obbiettivo di rallentare il più possibile il declino del dollaro e l’accumulo del debito pubblico ed estero americano, ha una sua intima coerenza: solo un pazzo fra due mali sceglierebbe il peggiore.

Ma le cose stanno davvero nei termini postulati da Trump? Certamente era così all’epoca di Reagan. Allora, però, tutto il commercio mondiale si basava sul dollaro. Chiunque avesse avuto bisogno di accedere ai mercati mondiali per acquistare, per esempio, petrolio, macchinari e quant’altro necessario per il normale funzionamento del proprio sistema economico, per procurarsi i dollari necessari per pagarli, non essendoci ancora l’euro e neanche mercati sufficientemente alternativi a quello statunitense, avrebbe dovuto esportare in America la maggiore quantità di merci possibile. In altre parole, egli era molto più dipendente dalle sue esportazioni verso gli Usa che viceversa.

Oggi, per tutta una serie di ragioni, non è più così. Non avendo più un settore manifatturiero degno di questo nome, sono gli Usa che senza le importazioni cinesi, collasserebbero nel volgere di poco tempo. Perfino l’industria bellica americana, una delle poche sopravvissute alla politica del debito facile, non può fare a meno delle importazioni cinesi. La costruzione di missili, droni e di gran parte dei sistemi d’arma prevede, infatti, l’impiego di magneti di cui ben il 90% è, però prodotto in Cina e così per le batterie prodotte dalla Tesla del famigerato Elon Musk e i cappellini Maga di cui lo stesso Trump fa continuamente sfoggio. Per non dire, poi, delle cosiddette Terre Rare fondamentali per la produzione di una gran quantità di merci, dai veicoli elettrici, le turbine eoliche, per finire ai super-conduttori senza i quali sarebbero impossibili tutte quelle applicazioni che utilizzano l’intelligenza artificiale.

«Pechino produce circa il 60% dei metalli delle terre rare del mondo e circa il 90% delle terre rare raffinate presenti sul mercato… Ha saputo costruire un sistema integrato di estrazione e raffinazione senza eguali, dotato di processi ormai completamente automatizzati»².E per di più, ha di molto diversificato i mercati di riferimento sia per le sue importazioni che per le sue esportazioni. Importa petrolio e gas dalla Russia e dall’Arabia Saudita; materie prime da mezza Africa e persino dal Brasile potendo dare in cambio anziché dollari come un tempo tutte le merci di cui questi paesi hanno bisogno. Vale per la Cina ma anche per tutti gli altri paesi del gruppo dei Brics con in testa la Russia che ha ormai più alleati di quanti ne avesse prima dell’invasione dell’Ucraina, nonostante la valanga di sanzioni varate nei suoi confronti.

È vero invece che grazie alla tecnica del fracking gli Usa sono diventati il primo produttore mondiale di gas e petrolio. Nondimeno, esportarli come vorrebbe fare Trump per ridurre il forte disavanzo della bilancia commerciale americana, è impresa molto più ardua di quanto si possa supporre basandosi solo sul volume delle quantità prodotte. Allo scopo di incrementarne le esportazioni e farne diminuire il prezzo Trump aveva promesso in campagna elettorale che avrebbe rimosso tutti i vincoli ambientali che limitavano le trivellazioni. Una volta eletto ha mantenuto la promessa e la produzione è aumentata. Ma hanno aumentato la loro produzione anche i paesi che fanno parte dell’Opec+ e le quotazioni sono scese come auspicato anche da Trump. Da Carlo di Foggia del Fatto quotidiano apprendiamo infatti che: «Il greggio Brent, riferimento per le quotazioni, è sceso a circa 60 dollari al barile, il livello più basso da quattro anni (-30% rispetto ai picchi di luglio). In termini nominali – ha notato Javier Blas di Bloomberg – è al livello di 20 anni fa ma, al netto dell’inflazione, è più economico rispetto a quello della metà degli anni 80. Uno choc»³.

Uno choc soprattutto per i produttori americani che, utilizzando la tecnica del fracking, con prezzi inferiori ai 70 dollari al barile vedono assottigliarsi i loro profitti fino ad annullarsi. E così, continua Di Foggia: «Martedì [6 maggio 2025- n.d.r.] due colossi del settore hanno annunciato un taglio alle nuove trivellazioni. Diamond back Energy, uno dei più grossi del bacino del Permiano nel Texas occidentale, il più grande giacimento Usa, ha detto che le ridurrà del 15% e annunciato che, con questi prezzi, gli impianti diminuiranno del 10% entro giugno e la produzione americana scenderà già da questo trimestre. Un ruolo ce l’hanno anche i dazi, che colpiscono i fornitori dei macchinari»Ora, per quanto Trump esibisca a ogni piè sospinto muscoli e mascella, non può non tenere in debito conto che, stando così le cose tirare troppo la corda è rischioso soprattutto per l’America. Da qui il tira e molla dei dazi ma anche tanta instabilità e con il rischio che la guerra imperialista permanente diventi davvero mondiale.

 

[1] Citazione tratta da: Giovanna Pancheri – La Rinascita Americana – Ed. Sem – pag. 23

[2] L. Lamperti - Alla Cina lo scettro delle terre rare – Ha la metà della produzione mondiale – La Stampa del 30.09.2024

[3] C. Di Foggia - Petrolio, Riad innesca la guerra dei prezzi e schianta i colossi Usa – Il Fatto Quotidiano del 12.05.2025

[4] Ibid