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“La corda è sempre più tesa e può rompersi (o essere rotta) in qualsiasi momento, trascinandoci in un caos ben più pericoloso di quello libico.” (Manlio Dinucci, Il Manifesto 16 aprile 2019)
Che uno scadente comico da avanspettacolo si possa autoproclamare presidente della “Republica de Venezuela” ci può anche stare. L’area caraibica è stata interessata, nel corso di una storia più che decennale da episodi di tal genere. Guaidò ne è l’ultimo sguaiato esempio. Ci sta invece un po’ meno che a schierarsi col presidente in carica, Maduro, ci sia, oltre alla Cina e Russia, la Turchia di Erdogan. Un po’ di sconcerto lo suscita in quanto oggetto di riferimento è un alleato storico degli Stati Uniti, membro tra i primi della Nato, nonché solerte cane da guardia posto ai confini meridionali dell’ex Unione Sovietica. La crisi dei missili di Cuba – ottobre 1962 – scoppiò in conseguenza del dispiegamento sull’isola caraibica, da parte dell’URSS, di missili balistici proprio in risposta a quelli dispiegati dagli States in Turchia. L’attuale contesto sembra offrirci una riedizione di quella crisi laddove l’arrivo in Venezuela di due aerei militari russi unitamente ad un centinaio di soldati è visto dall’amministrazione Trump come una sorta di attentato alla sempreverde dottrina Monroe. Una dottrina a cui opportunamente riferirsi per contrastare la crescente penetrazione russa e cinese in Venezuela. La criticità della fase attuale può ingenerare un certo comparativismo tra i due eventi anche se, per meglio decifrare questa nuova realtà, interviene un elemento che ha connotato il cinquantennio appena trascorso: i due blocchi in cui allora era diviso il mondo non esistono più.
Se nel 1962 la Turchia si sarebbe mai sognata di schierarsi con Russia e Cina, nel 2019 questo avviene in quanto, nel frattempo, le dinamiche capitalistiche ingenerate da una crisi di sistema, che tuttora perdura, hanno provocato sconquassi tali da sancire la fine del bipolarismo russo-americano, la successiva consunzione dell’unipolarismo a “stelle e strisce” nonché il prorompere di un multipolarismo che ha ridisegnato ruoli e strategie con l’entrata in scena di nuovi attori globali. Ciò comporta conseguenzialmente la messa in discussione ed il progressivo ridimensionamento di egemonie ritenute fino a poco tempo addietro incontestabili.
Il punto è che, in una logica segnata da una contrapposizione imperialistica sempre più accentuata, si cerca di difendere o di estendere – a seconda dei casi – le proprie sfere di influenza in ogni angolo del mondo e la torsione che sta caratterizzando questa fase ha a che vedere non con la “fine della storia” declamata da Francis Fukuyama bensì con l’inizio di un’altra storia in cui il cosiddetto “messianesimo profondo” americano non è più evidentemente recepito come tale.
Ben si comprende quindi una strategia – quella americana - accentuarsi su istanze e minacce assortite declinate in funzione anti-russa e anti-cinese, la cui penetrazione è vista come esplicito attentato alla primazia statunitense e che fanno scrivere a Roberto Livi:« Fin dalla decisione di estrarre dal cappello della Cia la candidatura di Guaidò era chiaro che in Venezuela l’amministrazione Trump intendeva giocare una partita ben più grande del controllo di enormi giacimenti di petrolio e altre materie prime strategiche di cui il paese è ricco. In ballo c’era la “riconquista” del subcontinente americano nonché fermare la penetrazione della Cina, intenzionata addirittura a inserire nella moderna via della seta anche l’America centrale e il canale di Panama.»[1]
Si tratta ancor più chiaramente di intervenire per riportare il paese caraibico sotto il proprio controllo e, soprattutto, sovvertire la situazione attuale che, se non opportunamente contrastata, potrebbe innescare dei processi non più facilmente circoscrivibili.
É ciò che più preoccupa e che fa muovere lo “Stato profondo” americano, espressione più o meno occulta di oligarchie economiche, finanziarie e militari. Si tratta quindi di sovvertire lo Stato venezuelano. «Uno Stato che possiede, oltre grandi riserve di preziosi minerali, le maggiori riserve petrolifere del mondo, stimate in oltre 300 miliardi di barili, sei volte superiori a quelle statunitensi. Uno Stato che, per sottrarsi alla stretta delle sanzioni che impediscono al Venezuela perfino di incassare i dollari ricavati dalla vendita di petrolio agli Stati uniti, ha deciso di quotare il prezzo di vendita del petrolio non più in dollari Usa ma in yuan cinesi.»[2]
Un fantasma, dunque, si aggira nei sogni americani: la Cina. E la Turchia, nel contesto in questione (come pure in altri) va a rappresentare elemento paradigmatico di una fase incentrata sulla estrema volatilità dei rapporti tra Stati onde da cui discende che si possono giocare più parti in commedia laddove l’esigenza primaria è quella di massimizzare, nelle varie circostanze, i vantaggi. L’ineffabile Turchia ci offre, a tal proposito, uno spaccato molto istruttivo: acquista dalla Russia i sistemi antimissile S400 e dall’America i caccia F35. Due sistemi d’arma perfettamente antitetici. Questo a significare, anzi a ribadire che ragionare oggigiorno secondo la logica dei blocchi non solo è anacronistico ma anche fuorviante. Si rischierebbe di non far passare in secondo piano, ad esempio e nel contesto in questione, il ruolo del Messico, potenza locale destinata sempre più a confliggere con l’egemonia statunitense.
Il Messico, infatti, oltre ad essere stata l’unica tra le grandi nazioni dell’emisfero occidentale ad avere respinto l’autoproclamazione di Guaidò, ponendosi quindi in contrasto coi paesi americani aderenti al “Gruppo di Lima”, è il paese che ha avanzato la proposta di un piano di sviluppo nel cosiddetto “Triangolo del Nord del Centroamerica” – Guatemala, Honduras, El Salvador – incentrato su quattro direttrici: emigrazione, sviluppo economico, commercio e sicurezza, con un costo di 30 miliardi di dollari volto a creare una fattiva “zona di prosperità”. La particolarità e la delicatezza del quadro risiedono nel fatto che il presidente americano potrebbe non voler aderire ad un progetto che va nella direzione opposta a quella inscritta nei suoi programmi (vedi muri, campi profughi ed altre piacevolezze), da cui discende che l’alternativa a cui ricorrere non potrebbe che essere la Cina.
E l’ex Impero Celeste si va distinguendo per un attivismo a tutto tondo che gli consente di guadagnare terreno ed influenza in Centroamerica, ossia proprio laddove gli Usa, per un mal riposto e pseudo diritto quasi divino, ritengono di poter/dover esercitare una primazia sancita dal famoso precetto elaborato da John Quincy Adams e pronunciato da James Monroe nel 1823.
Un Centroamerica che Pechino ritiene oltretutto strategico in quanto area geografica che assicura un accesso agevole ai due oceani, Atlantico e Pacifico, e che, proprio tenendo conto di questa particolare valenza, progetta di includere nella “Nuova via della seta”, non senza averla nel frattempo dotata del nuovo canale intraoceanico del Nicaragua oltre a crearvi una “Zona Economica Especial” dove verranno fabbricati prodotti cinesi.
Da questo sguardo d’insieme e da queste brevi notazioni è facile arguire quali siano gli effettivi motivi che inducono gli Stati uniti a perseguire un regime change in Venezuela. A tal uopo qualsiasi opzione – da parte di Washington - è da tempo sul tavolo anche se l’obiettivo principale della strategia americana sono le Forze armate bolivariane, ora blandite ora minacciate, e dalle quali si aspettano una defenestrazione di Maduro e relativo passaggio di campo a centottanta gradi.
Ma è mai pensabile che una componente militare, il cosiddetto “Stato profondo” venezuelano, una sorta di Stato nello Stato, con ufficiali al vertice di istituzioni e imprese pubbliche nonché presenti nello stesso governo Maduro, di un Maduro che ha ceduto alle Forze armate il controllo di grandi organismi e industrie pubbliche, venendosi a configurare come vera borghesia di Stato, possa tranquillamente accettare il fatto che «le grandi riserve di petrolio del paese saranno di nuovo sotto il controllo delle multinazionali (come ha messo in chiaro il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa, John Bolton.»[3]?
E’ gioco facile per il regime bolivariano davanti ad una tale prospettiva soffiare sul sentimento antiamericano che costituisce l’efficace collante ideologico di un’ampia base sociale che ha beneficiato - negli anni di Chavez ed in una congiuntura contrassegnata dall’alto prezzo del petrolio - di una parziale redistribuzione della rendita energetica che è servita primariamente a ridurre la povertà di quasi il 30% ed, inoltre, a portare avanti programmi di sviluppo interno nonché alla realizzazione di rilevanti infrastrutture (ferrovie, scuole, ospedali, università, metropolitane).
La successiva caduta verticale del prezzo del petrolio è andata a scaricarsi sulla presidenza Maduro facendo venir meno gli equilibri sui quali si basava la precedente amministrazione Chavez che si sono ulteriormente deteriorati stante l’avanzare di un ciclo economico recessivo al quale molto ha contribuito una certa connotazione dell’economia venezuelana: l’estrattivismo. Anche se l’economia in questione è essenzialmente ma non esclusivamente basata sull’esportazione di petrolio, tenuto conto infatti che nel paese caraibico esistono anche le filiere produttive. Solo che tali filiere produttive sono in massima parte nelle mani di multinazionali o di privati. Quegli stessi privati che costituiscono l’altra fazione della borghesia venezuelana, tutta presa ad alimentare un conflitto sociale e politico che ha come obiettivo finale il controllo della rendita petrolifera. In ciò potendo contare sull’appoggio tutt’altro che distaccato di Washington a cui interessa, per ovvie ragioni, “normalizzare” l’intero contesto centro-sudamericano.
Al dunque, al governo bolivariano non resta che rinsaldare ulteriormente i rapporti con gli alleati storici finendo con l’inasprire, con ciò, le frizioni imperialistiche per discernere meglio le quali, tuttavia, dobbiamo tornare sempre “ab ovo”: ossia è la crisi strutturale entro cui si dibatte ormai da tempo il sistema di produzione capitalistico ad alimentare dinamiche sempre meno circoscrivibili caratterizzate, nella fase attuale da un ricorso sistematico alla guerra quale unico modo per risolvere i vari contenziosi e, più ancora nel dettaglio, da un conflitto tra varie potenze in un continuo rimescolamento delle alleanze, degli schieramenti. Più in sintesi: la crisi di accumulazione capitalistica, che perdura da inizio anni ’70, costringe, giocoforza, i vari attori globali a muoversi secondo direttrici che appaiono, giorno dopo giorno, sempre più inquietanti e che fa sì che una crisi regionale si converta ben presto in una lotta tra potenze mondiali.
A ingenerare preoccupazione è soprattutto l’attivismo di Pechino che si è avvalsa del Venezuela quale testa di ponte per lo sbarco in America Latina facendo leva su di un partenariato economico sottoscritto con Chavez già nel 2001 incentrato dapprima sul settore energetico per poi estendersi all’approvvigionamento delle armi ma, in particolar modo, sui giacimenti venezuelani di ferro, oro, bauxite, coltan e altro ancora. Una cooperazione, quella sino-venezuelana che si è estesa anche ai settori ad alto contenuto tecnologico, al campo delle telecomunicazioni ed a quello delle infrastrutture.
Ben si comprende quindi come la posta in gioco sia molto alta e come gli Stati uniti faranno di tutto per non consentire una agevole penetrazione cinese nel subcontinente sudamericano.
Colpire la Cina, una potenza che sta mettendo in crisi la leadership americana un po’ dovunque e marginalizzare una Russia che si fa forte di una alleanza politico/militare e commerciale con Caracas per ampliare adeguatamente i propri interessi geostrategici e protesa – in tal senso – a ripristinare lo status di Mosca al livello di potenza mondiale. Rientrano in questa strategia, ad esempio, gli accordi col paese sudamericano per far parte delle cordate azionarie delle sue società petrolifere. Ma, di particolare rilievo, è quanto riportato, il 6 marzo scorso, da Il Manifesto, ed ossia:
«che il presidente Maduro abbia ordinato la scorsa settimana il trasferimento della compagnia petrolifera di Stato, Pdvsa (Petroleos de Venezuela S.A.) da Lisbona a Mosca. Il dirottamento degli uffici a Mosca potrebbe anche preludere allo spostamento del baricentro delle stesse proprietà dei giacimenti venezuelani in mano russa.»[4] Ma c’è dell’altro, stando alle dichiarazioni dell’ambasciatore russo a Caracas, Vladimir Zaemsky, in relazione alle minacce americane ed in particolare riferimento agli interessi russi in loco: “Per quanto riguarda gli investimenti russi in Venezuela, ci sono dei rischi. Se verranno fatti tentativi per privare le società russe degli investimenti nell’economia del paese, risponderemo a questo nel modo più duro.»[5]
Ben si comprende allora come le preoccupazioni di Dinucci siano più che sostanziate e, al pari, come il dilemma peloso – avanzato dagli esegeti di certo unipolarismo che non è più nelle cose – se “Caracas val bene una messa” possa indurre Cina e Russia a riconsiderare la propria strategia. Caracas potrà anche non valere la classica messa – il che è tutto da dimostrare – ma ciò che si sta rappresentando oggi in Venezuela è destinato ineludibilmente ad essere riprodotto a Teheran, a Kiev, a Pyongyang ed in tanti altri contesti per la semplice ragione che ad una decadente società borghese, per cercare di ovviare alle contraddizioni proprie del capitalismo e, quindi, per cercare di ovviare alle relative e insanabili contraddizioni altro non resta che ricorrere sistematicamente alla guerra permanente portata in ogni dove.
[1] R. Livi: L’Armata rossa ai confini sud degli States, nell’interesse di Trump Il Manifesto 31 marzo 2019
[2] M. Dinucci: Venezuela, golpe dello Stato profondo – Il Manifesto 29 gennaio 2019
[3] R: Livi: Caracas, bottino di un premio più grande – Il Manifesto 8 febbraio 2019
[4] Y. Colombo: Greggio e risorse: Caracas trasloca a Mosca – Il Manifesto 6 marzo 2019
[5] Ib.