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Dalla rivista D-M-D' N°15 - Numero speciale
«Ciò che è noto, non è conosciuto. Nel processo della conoscenza, il modo più comune di ingannare sé e gli altri è di presupporre qualcosa come noto e di accettarlo come tale» (G.W.F. Hegel).
Essere consapevoli, con Lenin, che «senza teoria rivoluzionaria non vi è movimento rivoluzionario» (Che Fare?, 1902), significa per le avanguardie comuniste una precisa assunzione di responsabilità.
Quando, negli anni di affermazione della fase più elevata del capitalismo (l’imperialismo), i rivoluzionari proclamavano l’alternativa tra socialismo e barbarie, quest’ultima appariva come il terribile futuro che il modo di produzione capitalistico preparava, per il suo stesso modo di funzionare, all’umanità. Il socialismo, a partire dalle stesse contraddizioni capitalistiche, si presentava però come prevenzione della barbarie e come promessa di una società finalmente umana.
Oggi, dopo quasi 50 anni dall’inizio della crisi strutturale del terzo ciclo d’accumulazione del capitale, la barbarie, più che potenzialità minacciosa, scatena la sua forza in tutto il pianeta, in un accrescimento smisurato.
Tali sono le tensioni che ribollono nel seno del modo di produzione vigente, che l’ombra della comune rovina delle classi in lotta, in assenza di una risposta dei lavoratori, prende sempre più i caratteri della catastrofe. Guerra permanente, brutale sfruttamento, violento dominio, devastazione delle condizioni della vita sulla Terra, forme radicali di alienazione, sono la disumana quotidianità dei lavoratori.
Molte vecchie formule della Terza Internazionale hanno dimostrato da tempo di non saper rispondere ai problemi che pone oggi la società capitalistica.
I suoi schemi interpretativi, così come buona parte di quelli della Sinistra comunista del Novecento, oggi non sono più sufficienti o adeguati.
Si badi bene: le griglie ermeneutiche in cui incasellare gli eventi della realtà storico-sociale, non sono la teoria. La teoria è una forma della praxis umana, che, certo, produce anche coordinate che consentono di collocare e comprendere i fenomeni, ma non vi si esaurisce.
Il problema è soprattutto quando si confondono le coordinate con schemi irrigiditi e si declassa la teoria a un rapporto tra soggetto e oggetto, col quale il primo si appropria del secondo.
Non si richiamerà mai abbastanza la I tesi su Feuerbach, con la quale Marx spiega che:
«Il difetto principale di ogni materialismo fino ad oggi, compreso quello di Feuerbach, è che l’oggetto [Gegenstand, ciò che sta di fronte], il reale, il sensibile è concepito solo sotto la forma di oggetto [Objekt, ciò che è proiettato fuori dal soggetto] o di intuizione; ma non come attività umana sensibile, come attività pratica, non soggettivamente. E’ accaduto quindi che il lato attivo è stato sviluppato dall’idealismo in contrasto col materialismo, ma solo in modo astratto, poiché naturalmente l’idealismo ignora l’attività reale, sensibile come tale. Feuerbach vuole oggetti sensibili realmente distinti dagli oggetti del pensiero; ma egli non concepisce l’attività umana stessa come attività oggettiva. Perciò nell’Essenza del cristianesimo egli considera come schiettamente umano solo il modo di procedere teorico, mentre la pratica è concepita e fissata da lui soltanto nella sua raffigurazione sordidamente giudaica. Pertanto egli non concepisce l’importanza dell’attività “rivoluzionaria”, dell’attività pratico-critica».
Le ricadute nella metafisica materialistica o nell’idealismo sono tanto facili quanto comuni.
Il risultato è l’impossibilità di praticare l’umana attività critico-pratica, e in ciò conoscente-trasformativa, in cui soggetto e oggetto si co-istituiscono in un rapporto dialettico.
Abbiamo d’altronde di recente letto, su una pubblicazione dell’area che deriva dalla Sinistra comunista italiana, un’interpretazione della XI tesi su Feuerbach («I filosofi hanno solo interpretato il mondo in modi diversi; si tratta di trasformarlo») molto indicativa.
Marx si scaglierebbe qui contro la filosofia che interpreta la realtà (spesso male). Ma si vede che gli autori del testo in questione non concepiscono nemmeno la prospettiva del superamento/inveramento (dubitiamo frequentino i dialettici territori dell’Aufhebung) della filosofia in un’attività umana non più scissa ed evirata, dove comprensione e trasformazione rappresentano un unico processo.
Senza rendersi conto che, intendendola così, appiattiscono la XI tesi sulle trite e ritrite letture falsificanti dei pensatori borghesi, fanno quasi di Marx il sostenitore di un volgare pragmatismo, che ha a che fare con la praxis tanto quanto Materialismo dialettico e materialismo storico di Stalin ha a che fare con l’Ideologia tedesca di Marx ed Engels: niente, insomma.
La questione che vogliamo sottolineare non è di asineria, ma tutta politica.
Fermarsi alla superficie (persino dei testi!), ripiegarsi su se stessi per ripetere posizioni dei decenni passati, come litanie, ma anche fermarsi a leggere la realtà con i vecchi schemi, è non solo poco utile ma terribilmente fuorviante. Di più: i mutamenti della società capitalistica, pur nella sua continuità essenziale, sono tali, che riprendere meramente le acquisizioni teoriche e politiche anche solo di pochi decenni fa, se non addirittura di qualche anno fa, può portare fuori strada e compromettere seriamente il lavoro per il programma comunista e il partito mondiale di domani.
Abbiamo già una prova evidente, purtroppo perdurante ormai da decenni, di come la pretesa “invarianza” (foriera, ovviamente, di cambiamenti e teorizzazioni originali come poche dottrine nella storia) abbia prodotto posizioni persino in contrasto con l’internazionalismo proletario e l’indipendenza di classe.
Basti richiamare velocemente le posizioni che ancora molte organizzazioni hanno sul sindacato (di riconquista o di fondazione di nuovi organismi “rossi”), o sull’appoggio alle guerre di liberazione nazionale e all’autodeterminazione dei popoli. Una volta che ci si è resi conto di non aver sbagliato annata degli organi di stampa in questione, si fa evidente come persino organizzazioni, che nascono in diretta continuità con la Sinistra comunista, possono finire per irrigidirsi in posizioni che ostacolano la prospettiva del futuro Partito.
Non intendiamo che si tratti di tradimento di classe: non ci sogneremmo mai di ritenere dall’altra parte della barricata compagni internazionalisti, di qualunque organizzazione, saldi al loro posto di battaglia. Ma, proprio per questo motivo, la questione è più delicata.
Siamo persuasi che sia semplicemente impossibile, e anzi dannoso rispetto all’obiettivo, ipotizzare che il Partito mondiale della rivoluzione comunista possa nascere dalla convergenza delle attuali forze che si richiamano alla sinistra comunista.
Abbiamo avuto sufficienti conferme che non sarà così. Constatato altresì che da 70 anni una parte dell’ambiente proletario, quella cd. “bordighista”, non intende in nessun modo nemmeno istituire un confronto con le altre organizzazioni, neanche il semplice avvicinamento tra le realtà “disponibili” sarebbe di per sé fecondo, se non avviene su una base di fraterno e rigoroso confronto, laddove possibile e capace di produrre avanzamenti effettivi.
Abbiamo oggi bisogno di riconoscere i tratti peculiari del capitalismo nel XXI secolo, di superare la tentazione di indossare vecchi “occhiali ermeneutici”, e avere il coraggio di un approccio più radicale.
La concezione materialistica della storia, la critica dell’economia politica, la dialettica, insieme al ripensamento critico della storia e delle lezioni del moderno movimento rivoluzionario internazionale, dalla Lega dei Comunisti alla Sinistra comunista del Novecento, offrono la possibilità di una militanza comunista, che sappia riaffrontare la sfida teorico-politica necessaria alla battaglia contemporanea per il programma e il Partito.
Non pensiamo ci sia niente di invecchiato: se il marxismo rivoluzionario ha dimostrato qualcosa negli anni è soprattutto di aver saputo guardare lontano, e di essere oggi più indispensabile di ieri. Ma il punto di vista che la lotta richiede è «la società umana, o l’umanità sociale» (X tesi su Feuerbach), non quello della salmodia!
La pandemia del COVID-19 ha rappresentato una nuova conferma di questa visione complessiva.
Come scrive Lorenzo Procopio nell’articolo “Analisi di una crisi che cambierà il quadro imperialistico mondiale”, che appare su questa stessa rivista (DMD’ n. 15, maggio 2020):
«Una lettura superficiale della crisi che si è aperta nei primi mesi del 2020 nell’ambito del sistema capitalistico su scala mondiale, porta molti osservatori, anche in quella variegata area che si richiama al marxismo rivoluzionario, ad interpretarla come la conseguenza dello scoppio della pandemia che ha colpito il pianeta a causa della diffusione del Covid 19. [...] Non saremo certamente noi a negare l’esasperazione della crisi in conseguenza della diffusione del coronavirus nell’ambito dell’economia capitalistica [...]», ma «la pandemia ha soltanto accelerato ed ingigantito gli effetti dell’attuale crisi economica [...]. Questa crisi non è stata [...] innescata dal coronavirus, ma dalle contraddizioni nel modo di produzione capitalistico che trovano nelle difficoltà di remunerare la massa ingente di capitale fittizio prodotto in questi ultimi decenni una delle più moderne manifestazioni».
L’importanza di questa comprensione è cruciale all’interno del lavoro militante per il futuro Partito comunista mondiale, mentre disattendere completamente la comprensione dei fenomeni in corso, tradisce la sostituzione di un lavoro collettivo di prassi teorica storico-materialistica con quel mix di letture superficiali e di adozione di schemi del passato che abbiamo denunciato come inutile e dannoso. Questo per i suoi risvolti e le sue implicazioni teoriche, politiche, metodologiche.
La necessità di interpretare che cosa la pandemia di COVID-19 ci dica delle peculiarità di questa fase critica della vita del capitalismo mondiale non è stata praticamente avvertita dalla maggior parte delle organizzazioni politiche proletarie.
Alcune organizzazioni hanno ritenuto si dovesse leggere l’epidemia come ennesima conferma dell’obsolescenza storica del capitalismo, e come ulteriore prova delle proprie etichette interpretative a cui ricondurre ogni fenomeno sul pianeta Terra da decenni a questa parte.
Ancora, altri hanno considerato la pandemia come il fattore scatenante della crisi capitalistica, rovesciando totalmente la realtà e rinunciando all’applicazione della concezione materialistica della storia.
Non è mancato chi ha alzato la voce sulle inefficienze strutturali dei sistemi sanitari e delle forme di cooperazione degli Stati borghesi. Altri hanno denunciato la logica del profitto che soffoca quella della salute, o l’incapacità del capitalismo di gestire gli eventi… naturali.
Immancabili poi i borghesissimi deliri di non pochi trotskisti e stalinisti, che hanno visto nella gestione cinese del coronarivus… la prova della superiorità dell’economia pianificata “socialista” dello “Stato operaio” cinese (deformato o meno), sull’anarchia del mercato… mentre qualcun altro già piangeva di fronte alla fake news della morte dell’amato leader nordcoerano Kim Jong Un. Ma non è l’estrema sinistra borghese a sorprenderci.
Prendiamo atto, consapevoli di quello che significa per la nostra classe nel suo complesso, di quanto poco i comunisti internazionalisti oggi siano in grado di fare i conti con la crisi epocale corrente, con le sue espressioni e i suoi fenomeni.
Ma dobbiamo fare lucidamente i conti con le limitate capacità di contribuire al programma e al partito comunista di chi è, quando va bene, ancorato al passato, o di chi ha smarrito la bussola del materialismo storico.
Per questo motivo non auspichiamo la composizione delle attuali forze che derivano dalle sinistre comuniste storiche. Non accadrà mai, ma se anche dovesse accadere per qualche misteriosa circostanza, non potrebbe rappresentare nessun passo avanti per la nostra battaglia.
Allo stesso tempo, riteniamo da folli considerare chiunque, singolarmente preso, come il nucleo più o meno autosufficiente del rilancio della prospettiva rivoluzionaria.
La strada che cerchiamo e proponiamo è la più faticosa, ma, crediamo, l’unica in grado di essere feconda. È la strada che passa per la riappropriazione antidogmatica e antischematica del "nuovo materialismo" marxiano (cfr. X tesi su Feuerbach), per l’assunzione del punto di vista dell’umanità sociale, per la riconsiderazione critica di tutta la nostra storia. È la strada che prosegue un lungo percorso dove ogni tratto è significativo, denso di lezioni, ma che si protende ora in territori con molti aspetti nuovi, che solo una teoria critico-rivoluzionaria può cogliere, nel rapporto dialettico con la classe dei lavoratori di cui si costituisce l’avanguardia.
Non è un cammino per chierici, con i loro consunti libretti di orazioni tra le dita. È il cammino dei rivoluzionari, da condurre in un continuo e vivace confronto, che sappia costituire un effettivo avanzamento verso una società finalmente umana.
Che significa dunque confronto? Quantomeno, quale confronto ricerchiamo, come aria pura per dar respiro alla nostra battaglia?
Non si tratta di polemiche più o meno invecchiate, non ci interessano interminabili battibecchi, insteriliti dalla struttura stessa del contendere pubblico, dove si finisce per difendere a ogni costo una tesi contro le altre, quando si tratta invece di moltiplicare le forze per comprendere e lottare, di collaborare per chiarirsi, parlare un linguaggio comune, rappresentare progressivamente una voce proletaria meno isolata in un mondo borghese sempre più asfissiante.
Ci riguarda poco l’atteggiamento di chi ritiene che il programma comunista autentico è quello apparso in un’apocalisse, una rivelazione, una volta per sempre in perfetta organica totalità, e detenuto – ça va sans dire – dal suo partito, e che per questo prima o poi verrà riconosciuto dai rivoluzionari e poi dal proletariato tutto. Analogamente, non seguiremo chi concepisce il dibattito politico come lo scontrarsi sul versetto x del giornale y pubblicato n anni fa, perché quella data virgola era dannatamente fuori posto. Abbiamo altro da fare, perché riteniamo ci sia altro da fare.
Ci muove in ciò lo stesso spirito dei bolscevichi: «Piccolo gruppo compatto, noi camminiamo per una strada ripida e difficile tenendoci con forza per mano. Siamo da ogni parte circondati da nemici e dobbiamo quasi sempre marciare sotto il fuoco. Ci siamo uniti, in virtù di una decisione liberamente presa, allo scopo di combattere i nostri nemici e di non sdrucciolare nel vicino pantano, i cui abitanti, fin dal primo momento, ci hanno biasimato per aver costituito un gruppo a parte e preferito la via della lotta alla via della conciliazione. Ed ecco che taluni dei nostri si mettono a gridare: “Andiamo nel pantano!”. E, se si incomincia a confonderli, ribattono: “Che gente arretrata siete! Non vi vergognate di negarci la libertà d’invitarvi a seguire una via migliore?”. Oh, sì, signori, voi siete liberi non soltanto di invitarci, ma di andare voi stessi dove volete, anche nel pantano; del resto pensiamo che il vostro posto è proprio nel pantano e siamo pronti a darvi il nostro aiuto per trasportarvi i vostri penati. Ma lasciate la nostra mano, non aggrappatevi a noi e non insozzate la nostra grande parola della libertà, perché anche noi siamo “liberi” di andare dove vogliamo, liberi di combattere non solo contro il pantano, ma anche contro coloro che si incamminano verso di esso» (V. I. Lenin, Che fare?, 1902).
In questo numero della rivista [DMD', n. 15], si troverà un contributo all’inquadramento critico del fenomeno del coronavirus, nell’ambito della crisi epocale della società capitalistica. Vuole essere parte di un confronto più ampio, saldo sui fondamenti del nuovo materialismo, capace di guardare alla contemporaneità e al futuro con uno sguardo rinnovato e più acuto. Contiamo di incontrare su questo terreno altri compagni con la stessa prospettiva.