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Catanzaro 07/04/08
Caro Fabio,
la storia del verbale è l’ultima di una serie di “incomprensioni”che rischiano di mettere in serio pericolo la sopravvivenza stessa della nostra organizzazione. Occorre dunque che si faccia uno sforzo collettivo per porre fine al clima avvelenato che si è instaurato in questi ultimi anni impedendo che la discussione interna potesse svolgersi in modo utile e fruttuoso per tutta l’organizzazione. Peraltro incombe una crisi economica e finanziaria che potrebbe già nel breve-medio periodo delineare una nuova prospettiva politica estremamente interessante. Mi sembra pertanto un preciso dovere di ciascuno di noi, in vista della necessità di rafforzare per quanto possibile la capacità di intervento della nostra organizzazione sia dal punto di vista dell’elaborazione teorica sia politico, mettere da parte i nostri scazzi personali e andare oltre.
A mio avviso, sul tappeto ci sono tre questioni che ci frenano e che necessitano di essere chiarite in modo che si possa ritrovare quella omogeneità di linguaggio e di posizioni necessaria per far fronte alla nuova situazione.
La prima questione è data dalla necessità di una più puntuale definizione dei rapporti fra i paesi periferici e i centri metropolitani dell’imperialismo all’interno della guerra imperialista permanente.
Nella versione originale del tuo articolo Terrorismo e Democrazia, per esempio, a un certo punto si legge:"Il terrorismo, nell’accezione corrente di attacco alla popolazione civile, agli inermi e ai più deboli, sia che appartengano ad un campo sociale che all’altro, è prassi tutta interna all’ideologia borghese, qualunque sia lo scenario di riferimento, quello di una borghesia aggressiva che dispiega il suo attacco, o quello di una borghesia nazionale che si difende.(1) Un moto rivoluzionario, qualora tentasse di farsi strada all’interno di una guerra di liberazione nazionale dovrebbe innanzitutto fare i conti con la presenza dell’esercito invasore.” E nell’originale dell’articolo Aspettative e Realizzazioni dell’Imperialismo Americano a un certo punto si legge: “La tragedia che viviamo in questa fase della storia è che, in presenza di un capitalismo in decadenza, le guerre imperialistiche si moltiplicano di giorno in giorno, i loro devastanti effetti si scaricano su tutto e tutti, le guerre di liberazione nazionale ne seguono meccanicamente il ritmo come effetto economico e politico, riproponendo il quadro politico che le genera.”
Ora, su questo punto a me sembra che abbia ragione Celso che, incaricato di correggere il tuo primo articolo, così chiosava il tuo riferimento alle guerre di liberazioni nazionali: “ .. Qui sorge il problema se oggi siano possibili guerre di liberazione nazionale, ma noi diciamo di no, e del disfattismo rivoluzionario; nella Seconda guerra mondiale, allora, i nostri compagni avrebbero dovuto combattere contro i nazi-fascisti o contro gli Alleati? Qual’era l’esercito invasore?” D’altra parte sia nelle tesi del Bipr sui paesi periferici che in altri documenti ufficiali è scritto a chiare lettere che l’epoca delle guerre di liberazione nazionale è chiusa per sempre. Per non dire dell’articolo di Mauro apparso su Bc n. 16/17-1983 approvato all’unanimità dal Ce di allora in cui su questa questione prendiamo le distanze perfino da Lenin. E bene, a mio avviso, abbiamo fatto perché la negazione della possibilità che la borghesia di un qualsiasi paese della periferia possa in qualche modo esprimere istanze antimperialiste è parte inscindibile di tutta la nostra analisi sull’imperialismo così come esso è andata sviluppandosi nel corso del tempo e soprattutto in questa fase storica in cui a caratterizzarlo è l’appropriazione parassitaria di plusvalore mediante il controllo e la gestione della produzione del capitale fittizio. Analisi che peraltro tu- almeno a parole- hai sempre condiviso.
La seconda questione è quella del rapporto Partito/Classe e di conseguenza del processo di formazione della coscienza.
Qui abbiamo fra i piedi l’opuscolo di Davide “ Lotta di classe – Stato Politico – Partito del proletariato e comunismo” che oltre a essere un fritto misto di citazioni, almeno nella prima parte è inficiato, probabilmente al di là delle intenzioni e del pensiero dello stesso David, da un’impostazione meccanicistica con non pochi approdi a posizioni bordigo-staliniste.
Vediamolo un po’ più da vicino. Già nell’introduzione si legge: “Sotto la spinta dei presupposti esterni oggettivi ( primo fra tutti la contraddizione tra le forze produttive in gigantesco sviluppo e gli statici rapporti di produzione) sorge una prassi rivoluzionaria”. Se ne deduce l’equazione: più tecnica = rivoluzione. Tesi che è stata propria del consigliarismo tedesco ( vedi Mattick, Pannekoek ecc.ecc.) E, coerentemente con questa impostazione, infatti, ecco il partito spuntare come un fungo nel bosco della lotta di classe. “Il contrasto tra proletariato e borghesia, quando si estende in una aperta lotta di classe contro classe, assume un preciso aspetto politico: l’organizzazione di classe del proletariato (quale: Il sindacato, il soviet, il consiglio dei delegati, i Cobas?) si trasforma in partito politico.” Per non dire poi della citazione di Fletscher a pag. 8 in cui si parla di autocoscienza e di quella di Bucharin a pag. 14 in cui si sostiene l’infallibilità del partito in quanto sarebbe in relazione olistica con la classe. Immagino che qui tu stia per obbiettarmi che la pubblicazione di questo opuscolo è stato sospesa e dunque non è proprio il caso di tirarlo di nuovo in ballo. A parte il fatto che la tesi secondo cui il partito sarebbe il frutto spontaneo della lotta di classe riecheggia anche nella bozza del documento che hai redatto in vista dell’incontro con i compagni della Fgci, negli scritti di altri compagni e perfino nella recente introduzione alla raccolta di documenti del partito curata dallo stesso Davide, resta che questo opuscolo è circolato nel partito dal maggio 1995 fino a tutto giugno del 2006 per cui non è da escludere che vi siano compagni che possano aver fatto propria la sua impostazione metodologica e le conclusioni politiche in esso contenute.
La terza questione è quella relativa alla legge della caduta del saggio medio del profitto.
Su questa non mi dilungo ritenendo ancora valido il percorso a suo tempo concordato e definito in ogni sua parte dal Ce per favorire l’approfondimento della questione e che prevedeva che ogni sezione avrebbe, alla fine del percorso di studio, elaborato un proprio contributo in modo da poter pervenire a una sintesi comune. Lo si potrebbe riprendere semmai mettendo a disposizione dei compagni sia i tuoi contributi sia i miei e quelli di Lorenzo nonché quello già elaborato dalla sezione di Catanzaro.[1]
Per quanto riguarda i primi due punti potremmo sgombrare il campo da ogni sorta di equivoco ribadendo in un apposito documento, destinato a coloro che, sotto la spinta della crisi, dovessero avvicinarsi a noi (altri gruppi e/o singoli militanti) almeno quanto segue:
Cogliendo invece l’occasione del percorso di formazione sulla questione dell’intervento, a mio avviso sarebbe opportuno elaborare un documento in cui si precisino meglio, e in relazione ai profondi mutamenti intervenuti nell’organizzazione del lavoro (introduzione della microelettronica nei processi produttivi, superamento della fabbrica fordista e del relativo mercato del lavoro) nonché della sua divisione internazionale ( fine dell’aristocrazia operaia nel senso leninista del termine) e del rafforzamento del ruolo di pilastro della conservazione capitalistica del sindacato, compiti e funzioni del partito in questa specifica fase storica.
Infine, sarebbe necessario riprendere il discorso sulla riorganizzazione. L’attuale formula (lo dico senza alcun intento polemico considerandomi io stesso parte integrante) del partito-famiglia è divenuta ormai un serio ostacolo alla nostra crescita. Infatti, oltre che a determinare una forte personalizzazione del dibattito interno, lega quasi inscindibilmente le vicende dell’organizzazione a quelle personali dei singoli compagni e ciò, oltre che essere fortemente limitante, in futuro potrebbe compromettere perfino la sopravvivenza stessa dell’organizzazione, al semplice venir meno, per le più svariate ragioni, dei singoli compagni,.
Ciao
Giorgio
[1] Qui ci si riferisce al documento pubblicato poi in appendice al nostro volume La crisi …il crollo di WS ed ora anche su www.istitutoonoratodamen.it -Sulla crisi