Perche' D emme D'

Creato: 29 Aprile 2010 Ultima modifica: 03 Ottobre 2016
Scritto da Istituto Onorato Damen Visite: 10516

Perché D emme D’

 
 

Perché una nuova rivista nell’area comunista internazionalista quando sembrerebbe che, nonostante l’approfondirsi della crisi di ciclo del capitalismo, ci sia ben poco da fare? A questa domanda cercheremo di rispondere. Non accenneremo così alla nostra provenienza perché non è da essa che ci attendiamo una qualifica, ma da quello che saremo in grado di fare. Il nome del nostro Istituto richiama già quanto dev’essere richiamato: una minoranza della sinistra comunista italiana, non v’è d’aggiungere altro. Quel richiamo ci lega però al pensiero leniniano e soprattutto a quello marxiano. Non tanto per augurare un buon ritorno di quest’ultimo dall’oblio in cui la borghesia lo vuole giacente, ma perché è nostro l’onere di tentare di dimostrare tutta la modernità e l’attualità di quel pensiero e di quel metodo, o comunque di non disperderli. E’ già così un compito enorme.

 
 

Marx, nella Prefazione a ‘Per la critica dell’economia politica’, ci ha raccontato di come, in occasione della chiusura della Rheinische Zeitung, la rivista che dirigeva, approfittò per ritirarsi dalla scena pubblica nella stanza da studio. Il motivo non era di poco conto e ce lo disse lui stesso: “confessai senza reticenze che gli studi che avevo fatto sino ad allora non mi consentivano di arrischiare un giudizio indipendente qualsiasi sul contenuto delle correnti francesi”. Quelle correnti erano il socialismo e comunismo francese. E’ una confessione di straordinaria importanza perché ci dice che l’agire politico, la cosiddetta pratica, non può prescindere dall’elaborazione teorica. Oggi noi siamo indietro rispetto al Marx del 1843 che aveva tutto un movimento in ascesa da giudicare indipendentemente, per elaborare il ‘suo comunismo’. Indietro perché, lo vogliamo o no, abbiamo davanti a noi la sconfitta del comunismo storico del Novecento. Sconfitta che è solo nostra perché è solamente del proletariato mondiale. Così, mentre lasciamo ad altri la disgiunzione tra elaborazione teorica e pratica (oggi si studia poco perché è fatica e non dà visibilità), proviamo a smascherare quella sconfitta agli occhi del proletariato, ad esempio, legandola alle “5 lettere e un profilo del dissenso” (1), per dare a quello scambio epistolare ‘scheletro e carne’ al fine di uscire da quelle lettere. Affinché l’arma della critica, impossessandosi delle masse, diventi una potenza reale.

 
 

Ecco delineato il primo punto della risposta alla domanda iniziale: elaborare ed emettere un giudizio critico, indipendente, sul comunismo novecentesco fuori da formule, retorica e semplificazioni, partendo da quell’esperienza grandiosa che fu la rivoluzione bolscevica, dalle sue implicazioni e dalle sue contraddizioni. Qui già prende forma il secondo punto della risposta, sulla base dell’odierna realtà economico sociale: modo di produzione capitalistico era, modo di produzione capitalistico è. E’ la critica e l’aggiornamento della critica del modo di produzione capitalistico, del suo epifenomeno imperialista e dell’economia politica che lo giustifica, tenendosi ben saldi al materialismo storico. Al fatto che un modo di produzione è l’unione tra mezzi di produzione e rapporti sociali, tra produzione e distribuzione, tra struttura e sovrastruttura. Che l’essenza del modo di produzione capitalistico sta nella formula del capitale D-M-D’, dove in quella ‘emme’ c’è una classe sociale, il proletariato, i lavoratori ed il loro contraddittorio ed inconciliabile rapporto col capitale, l’inconciliabile rapporto tra proletariato e borghesia. Che il D’ non è dovuto a scambio ineguale tra capitale e lavoro, ma allo sfruttamento del lavoratore ed al fatto che l’aumento di questo sfruttamento, l’aumento della produttività del lavoro, l’aumento della ricchezza borghese si risolva, per i lavoratori, nell’impoverimento relativo, nella precarietà, nella disoccupazione, nel progressivo smantellamento del welfare e nella guerra politico-militare, permanente e globale.

 
 

Siamo così arrivati al testa-coda dell’odierna lotta di classe occidentale: gli sfruttati sono diventati conservatori gli sfruttatori sono riformatori. Circa 150 anni di lotte del movimento operaio ed almeno 70 anni di compromesso socialdemocratico hanno guadagnato ai lavoratori dell’Occidente diritti codificati, suffragi universali e welfare, che hanno permesso di porre limiti alle libertà borghesi, di porre limiti al capitale.

 

I lavoratori sono divenuti conservatori in quanto difensori dei loro diritti sociali, i borghesi riformatori in quanto affossatori di quei diritti in nome della libertà: la libertà del capitale. Così il capitalismo ha, nonostante tutto, ‘proseguito’ il suo cammino di riproduzione allargata, i lavoratori no(n) quello della loro liberazione. Si sono fermati, i lavoratori, al punto più elevato loro concesso dalla democrazia borghese nella fase ascensionale del ciclo di accumulazione capitalistico: sono divenuti a pieno titolo cittadini. Sono pertanto regrediti dal punto di vista della coscienza in sé, avendo però acquisito dei diritti non più sostenibili economicamente. Si difendono come possono. Mentre noi non possiamo opporci all’incalzare della crisi del capitale, opporci al rivoluzionamento-ristrutturazione in atto nel ‘mondo del lavoro’, anche se non è questione di opposizione. Però, e solo in senso rivoluzionario (2), pensiamo che questa tendenza possa, se non uniformare, avvicinare la condizione del proletariato al livello del lavoratore salariato senza diritti e sottopagato, anche se in ciò non saremo capiti (3).

 

Non ci pare però possibile concedere spazio a scelte volontaristiche od estranee alla vita reale, come pure dare spazio al meccanicismo.

 
 

Note

 

(1) Ci riferiamo a O. Damen, ‘5 lettere e un profilo del dissenso’, in ‘Amadeo Bordiga, validità e limiti d’una esperienza nella storia della sinistra italiana’, pagg. 31-88, EPI, 1977.

 

(2) “Ma in generale ai nostri giorni il sistema protezionista è conservatore, mentre il sistema del libero scambio è distruttivo. Esso dissolve le antiche nazionalità e spinge all’estremo l’antagonismo fra borghesia e proletariato. In una parola il sistema della libertà di commercio affretta la rivoluzione sociale. E’ solamente in questo senso rivoluzionario, che io voto in favore del libero scambio”, K. Marx, Discorso sulla questione del libero scambio, gennaio 1848, in K. Marx, F. Engels, ‘Opere complete’, vol. VI, Ed. Riuniti.

 

(3) Oggi invece sembra che il compito sia quello di incitare alla lotta rivendicativa, mentre a nostro avviso la tendenza è meramente difensiva.